« indietro JUAN VICENTE PIQUERAS, Mele di mare, a cura di Martha L. Canfield, con una presentazione di Luis Sepúlveda, Firenze, Le Lettere 2003, pp. 156, €14,00.
La metafora centrale del mare, con l’opposta complementare, il deserto, e un largo raggio di altre consimili (l’isola, lo specchio, il miraggio...) illuminano un mondo di solitudine, desiderio e disinganno che convergono nell’inazione (sia essa vigilia o paura, secca o ritiro, stato di morte, «gioco di parole»): la poesia nasce come storia di un’esplorazione e di un naufragio vitale insieme. Di qui il titolo di uno dei libri di Piqueras, antologizzati con inediti in questo volume, La latitud de los caballos: si tratta di una zona di calma presso il Tropico del Cancro, così chiamata perché i navigatori diretti alle Indie Occidentali, incagliati a tempo in definito, dovevano liberarsi dei cavalli che non potevano dissetare. È la dimensione in cui il poeta sente di vivere: un labirinto d’incerti e l’eden in retaggio all’uomo contemporaneo, l’illimite con i suoi tesori, rappresentati dalla «mela di mare», il frutto di questa poesia. Alter ego del poeta è il pirata in pensione Wuang Shi: navigare è essere testimone (a distanza) della vita (sospesa). «Il tempo non esiste». L’orizzonte è la linea della scrittura e «una parola» che sono anche il «filo ombelicale» legato alla «aldea perdida» (JVP ri siede a Roma, è nato in un villaggio ora quasi spopolato in provincia di Valencia) e quindi all’identità originaria, idea che viene sviscerata senza fine nell’ermeneutica di questa poesia. Piqueras, come scrive M. Canfield, «incarna il poeta del terzo millennio, con la memoria intatta di un passato irripetibile e il dolore lancinante di un futuro annebbiato da incertezze», costellato di «non»; il suo riassunto: «soy imposible».
Ne La voz a ti debida Salinas proclamava la «alegría» di «vivere nei prono mi» perché tu ed io erano «orizzonti finali» reciproci; Juan Vicente Piqueras dedica un libro agli Avverbi di luogo e molte poesie a quelli di tempo: «¡Cuánto cuándo!», esclama il poeta per un compleanno solitario, variazione del già intraducibile «cuánto abril» di Guillén che esprimeva la pienezza dell’esistenza nell’evento amoroso. La poesia di Piqueras, con gli amanti divenuti «linee parallele», si può considerare per molti versi un canzoniere mancato o in assenza, la cui ipotesi rimane in Mela di mare. Il sentimento principe sembra trasfuso nei moti esclamativi e nella «alegría», il lato impagabilmente umoristico e brillante di questi versi; da dove venga lo dice Palme, che ne sono immagine: «Non è bene / soffrire ma bisogna aver sofferto / per sentire [...] / lo stupore dei sopravvissuti / [...] e poi scoppiare / per l’alta gioia in mezzo al deserto».
Questa incrinatura è forse la possibilità di apertura al trascendente auspicata da Martha Canfield per questo sistema di affascinanti e inquietanti equazioni che proprio nella loro coesione denotano il collasso di riferimenti: «S’è perduto l’onore», dice Wuang Shi. Il poeta è spesso il marinaio del mitico vascello fantasma che solo l’amore potrebbe salvare. Nella Litania del gabbiere, omaggio a Mutis, la terra del ‘disastro’ è senza «misericordia», altro nome dell’amore che invece si trasforma in un nome di città secondo il palindromo famoso amor roma che qui funziona a rovescio anche nel senso. La «alegría» che sublima il tedio in ritmo di «danza» o in pigro otium delle lettere, resta drammatica inanità («Siamo avverbi») in cui si raccolgono però i messaggi dell’esistenza, amore di scrivere come assorbimento di ogni energia. Lo squilibrio fra piano concreto e astratto, nel farsi troppo spiccato, compone un altro quadro in cui «fonti di fuoco» parlano della «sete» in mare o nel deserto. Nei «versos suspensivos» passa il linguaggio della filosofia e quello sapienziale: si veda il riferimento biblico alla balena che inghiotte Giona. Già secondo l’esegesi sefardita dello Zohar. Il libro dello splendore il profeta incarnava la storia dell’uomo; Erri De Luca ne ha dato il profilo contemporaneo di scampato, in esilio da tutto e torturato dal proprio senso ultimo, le parole venute a piantarsi tra lui e Dio per stabilire perfino nell’incomprensione il rapporto propriamente amoroso fra unico e unico (Una nuvola come tappeto). In Tutto è ormai (o la canzone malata di Giona) di Juan Vicente Piqueras è il «seme della [...] voce» del mare sparso nel corpo a rendere «naufrago» d’amore il poeta, che ripete la fuga del non-profeta o profeta vero suo malgrado, e trova una chiamata ineludibile («in questa latitudine la mia vocazione»). Il luogo viscerale e febbrile del pensare diventa il «ventre luminoso» del «vivere», uno spazio ‘maledetto’ e mal certo e un paradiso d’infinito, di riflessione e gestazione in un mondo dove tutto è parso sicuro, scontato e, quindi, finito. Il poeta è «l’esperto esploratore che non si può permettere [...] di confondere la giungla con un pronome», se ama perdersi è per salvaguardare «una parlata battesimale». «Un testo poetico è un ponte» benché enigmatico, come i ponti di Calatrava, e il famoso Alameda nella Valencia d’origine, che di giorno si confondono bianchi nella luce, di notte rivelano la vertebratura di corpo umano librata dove le leggi di gravità sono scommessa. L’«ardore danzato» della «alegría» comporta leggerezza e spoliazione: «Si salva unicamente il saggio, che non sa, / che cede quel che ha, – che ha quello che cede» (Diluvio di cenere); della sua isola o arca fra mare e cielo il poeta fa il regno dove il tempo è reso luogo per vivere dopo la perdita dei propri, facendo essere altrimenti e altrove le azioni verbali (non compiute, condizionate o potenziali), se è vero che in tempi di navigazione in internet la realtà non potrebbe accoglierle. La saggezza di questa scrittura sembra stare nell’umanità degli avverbi che modificano proprio ciò che non è modificabile, l’azione e il tempo, a patto di affidarsi alle «herramientas», gli «istrumenti» del mestiere che descriveva Cavalcanti, e credere nella grammatica della poesia; così le palme: «Tremano, testimoni di un miracolo / che conoscono soltanto loro».
Un libro accurato in ogni particolare, dal pastello di Tonino Guerra (di cui Juan Vicente Piqueras ha tradotto le poesie) che raffigura le Mele di mare in copertina al pregnante scritto di poetica in epilogo: a Martha Canfield va il merito di aver assecondato la propria sicurezza d’intuito per far conoscere, in un’ammirevole traduzione, un poeta complesso e notevole, che ci parla la lingua rimasta ancora forse la più inedita ed «ineffabile», quella della nostra attualità più prossima. Per cercarla il poeta stesso si è fatto un Ulisse cartografo latitante e un Giona ammalato nella balena «eterna» per meditarla e usarla. I quattro punti cardinali: «È una conversazione in un’altra lingua / miracolosamente sostenuta tra la sete e il sonno».
[L. V.]
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