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ELENA ŠVARC, San Pietroburgo e l’oscurità soave. Poesie, Edizioni del Leone, Venezia, 2005, pp. 101.
 

 

Il nome di Elena Švarc è ormai familiare al lettore italiano. Suoi versi sono apparsi in italiano su «Poesia» (Febbraio 2004), e nei volumi La celeste Pietroburgo delle ombre (2003) e La nuova poesia russa (Crocetti, 2003). Di lei già si è scritto anche sulle pagine di questo giornale (XXVI-XXVII, 2002, pp. 116-118). La presente scelta, curata da Paolo Galvagni, offre uno spaccato sulla sua opera poetica, sulla sua topografia creativa, sugli spazi, i luoghi, i paesaggi del suo poetare. I testi appartengono a momenti diversi del percorso artistico della Švarc, da un testo risalente agli esordi, all’anno 1972, fino ai più recenti versi italiani. Come recita il titolo stesso attribuito alla raccolta, il centro di gravità dei testi qui presentati è rappresentato da San Pietroburgo, città crepuscolare, notturna, lunare, spettrale, multiforme ricettacolo di ombre e umane miserie, ma anche leggera visione, «soave oscurità», capitale dell’universale nostalgia per la cultura. E qui risultano evidenti i tanti richiami letterari e culturali al mito della città di Pietro, primo fra tutti quello puškiniano del Cavaliere di Bronzo e all’impari lotta fra l’uomo e le forze primigenie e misteriose della natura. Tutto il mondo ignoto e terribile che circonda e nell’oscurità penetra nella simmetrica cittadella della cultura, il mondo del caos primordiale dei boschi e delle steppe, un senso di disgregazione e marcescente deperimento, si impadroniscono della città che ha in se stessa, nei terribili delitti che ne hanno segnato la vita, nell’ambigua duplicità di Pietroburgo e di Leningrado (si pensi al poemetto Racconto frammentario su un appartamento in coabitazione qui presentato) il principio stesso della sua fine. Proprio nel succitato poema si offre di Pietroburgo un’immagine straniata, quella della «Pietroburgo ispagnola» (Gišpanskij Peterburg), la Pietroburgo di Propriš in, il pazzo gogoliano. Nella poesia di Elena Švarc Pietroburgo è la città dai mille volti che in chiave metaforica è presente in tutte le altre città da lei vissute e rappresentate. Altro riferimento spaziale centrale nel li bro è l’Italia. La raccolta presenta una sezione di «Versi italiani» (componimenti pubblicati recentemente nel volume Trost’ skoropisca [Lo stecco dello scrivano in corsiva] San Pietroburgo 2004) secondo una tradizione che risale almeno ai gran di poeti del secolo d’argento (Blok, Kuz min, Gumilëv, ecc.) e che crea nella struttura del libro come un contrappeso e un’interazione all’oscura silhouette della città di Pietro. Le immagini di Roma, Venezia, Bologna sono anch’esse percorse dalle apparizioni, i chiaroscuri, la vertigine, che caratterizzano nel suo insieme la poesia della Švarc come essa è segnata nella pluralità dei mondi e nella dinamicità espressiva dal mito dall’irrazionale, dell’ultraterreno, del misterico. Ecco così lo sguardo aereo de La vergine che cavalca Venezia, ed io sulla sua spalla, testo intriso di horror blasfemo e baroccheg gianti eccessi verbali:
 
La vergine, che ha accolto tutti i peccati,
S’è gonfiata, come un vampiro nella bara...
Venezia tu scompari
Come un drago con le squame dorate,
Ti tuffi sotto le onde azzurre...
Ti sfasci malinconicamente
Come un antico broccato d’oro...
 
Analogamente nel Quaderno Romano nella lirica Neve a Venezia:
 
Avvolta in un fazzoletto di neve,
Da sotto l’acqua guarda viva,
Spezzate le catene degli anelli ghiacciati,
La vedova assonnata del doge.
 
 
In Accanto al Pantheon la tonda parete del tempio è «come il possente cranio di un gigante, / Come una tempia colpita da emicrania», mentre il giardino di Villa Medici è abitato da un misterioso spirito che vaga nell’oscurità. La natura, nella sua misteriosa e ferina irrazionalità, si riappropria del mondo della cultura, ne decreta la caducità, l’improbabilità: «Dalle lastre di basalto / Spira un dolore tale / Come se alla terra non avessero raccontato / Che ci sarà la Resurrezione...» (La Pietà di Nicolò dell’Arca), ed è proprio il profondo afflato religioso, una soave speranza che d’improvviso illumina il cupo mondo poetico di Elena Švarc, come è il complesso intreccio stilistico e di registri linguistici che risveglia nel cupo ed intricato impasto verbale l’improvvisa e leggera ironia, l’infantile gioia per la vita, l’elegante fraseggio estetizzante. Come con chiarezza si evince dalla raccolta qui presentata, la poesia di Elena Švarc è una poesia della complessità, tra alogismo e analogia, tra intertestualità e moltiplicazione delle voci liriche e narranti in un contesto fortemente evocativo, che dipartendosi da una forma poetica nel complesso tradizionale, classica, si sviluppa in una ricerca sperimentale di effetti poetici ai vari livelli, come risulta evidente, ad esempio, dai principi fonico-ritmici adottati e che ben risaltano a chi abbia avuto il privilegio di ascoltare le esecuzioni dei testi da parte dell’autrice (esistono a questo proposito numerose interessantissime incisioni della voce della poetessa), o ancora dalla affinata ricerca lessicale che spazia dalle forme culte della tradizione slava ecclesiastica al new speak sovietico e al parlato quotidiano.
Per tornare alla raccolta in oggetto accanto a testi più articolati e complessi [si veda anche il poemetto Su Colui che è accanto (Dagli appunti dell’Unicorno)] sono da registrare anche una serie di liriche più brevi dove l’elemento autobiografico e descrittivo tende a prevalere e nelle quali il tono più familiare e ironico della Švarc ci presenta un’altra prospettiva di approccio al multiforme suo mondo poetico.
Una parola anche sulle traduzioni. Il traduttore, come è nella tradizione italiana più recente (in questa prospettiva differentemente dalla tradizione russa anche contemporanea), non si affida a forme equimetriche o comunque di resa formale dell’ordito metrico-ritmico. Preferisce il verso libero non rimato (e i testi della Švarc si costruiscono sulla rima anche se ormai spesso imperfetta e vicina all’assonanza), privilegiando il piano del contenuto a quello dell’espressione, ma cercando altresì di offrire proprie riorganizzazioni formali dei testi con risultati nel complesso apprezzabili. La scelta in alcuni casi di ricorrere alle note esplicative (scelta che personalmente ritengo assai valida, considerando la traduzione un’interpretazione commentata del testo) avrebbe forse dovuto essere maggiormente sostenuta e arricchita, come parimenti si avverte la mancanza nel libro di una più corposa presentazione dell’autore e introduzione alla sua opera. Ma forse queste mie critiche sono eccessive, se consideriamo il fatto che anche grazie a questo libro la poetessa è stata insignita in Italia del premio letterario «Sibilla Aleramo» per il 2005, un riconoscimento meritatissimo da parte della poetessa, dovuto anche all’entusiasmo del suo infaticabile traduttore italiano.
 Un ultimo breve cenno mi sia concesso a proposito del nuovo volumetto di versi della poetessa, Trost’ skoropisca, già ricordato sopra.
 Il volume è strutturato in cinque sezioni di cui la terza contraddistinta da un titolo: Cinque poesie dimenticate. Tra i versi della nuova raccolta molte poesie sono legate all’Italia. Nelle nuove poesie si rafforza il sostrato letterario e dei rimandi caratteristico della poetessa, si complicano le prospettive temporali e spaziali, si conferma il pathos religioso, segnato in profondità da un’incessante ricerca spirituale e esistenziale. Gli strumenti della poesia sono affinatissimi, la lingua supera ogni convenzionalismo per affermarsi in lucida costruzione intellettuale e psicologica. Una viva testimonianza del continuo e mirabile fiorire del magistero poetico di Elena Švarc.
 
Stefano Garzonio
 

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