« indietro CLAUDIO RECALCATI – EDOARDO ZUCCATO, Biss, lüsèrt e alter ga lantomm. Ballate di François Villon, Effigie, 2005, pp. 88, €10,00.
Non poteva che essere in dialetto milanese la trasposizione del povre François Villon. Nel dialetto cioè che già con La Ninetta del Verzee aveva esibito umori villoniani, e che nella tradizione dei travestimenti (Domenico Balestrieri con la Gerusalemme liberata di Tasso, Carlo Porta con l’Inferno di Dante) coltiva un solido magistero. E proprio su questa scia si pongono i due prodi traghettatori (giusta l’immagine del traduttore come pontifex secondo l’intuizione di Valery Larbaud): traduzione non come resa delle singole parole nella loro successione più o meno lineare, bensì trasposizione del mondo poetico villoniano nell’universo popolare milanese. Non si tratta dunque di una traduzione cosiddetta ‘fedele’. Una parziale delibazione sarà sufficiente ad attestarlo. «Dictes moy ou n’en quel pays / Est Flora la belle Romaine, / Archipïa dés ne Thaÿs» (‘Ditemi dove, in quale paese, / è Flora la bella romana, / Archi piada e Taide’), che diviene «Dimm un pu, in due la s’è casciada / la Moana, quella gran gnòca alpina, / la Gres Kelly e la Bèla Rusìn» (‘Dimmi un po’, dove è Moana / quel pezzo di ragazza montanara, / Grace Kelly e la Bella Rosina’); «Se Franc Gontier et sa compaigne Elayne» (‘Se Franc Gontier e la sua compagna Elena [simboli del lieto vivere arcadico]’) diventa «Se ’l Sciur Custans e la Mariucia» (‘Se il signor [Maurizio] Costanzo e la Maria [De Filippi]’); «Nobles hommes, francs de quars et de dix» (‘Nobili uomini liberi da tributi’) volto in «[O galantomm] ch’avî pagâ el Sett e quaranta» (‘che avete pagato il 740’); «Brectes, Souyssez ne scevent guerres / Gasconnes ne Toulousïennes: / De Petit Pont deux harengieres / Les con cluront, et les Lorraines, / Angleches et Callesïennes / [...] / Picardes de Vallen cïennes, / Il n’est bon bec que de Paris» (‘Non capiscono niente bretoni e svizzere, / guasche e tolosane: / due pescivendole del Petit Pont / gli chiuderebbero la bocca e le lorenesi, / inglesi e calesiane, / piccarde di Valenciennes, / lingua fina è solo a Parigi’) contestualizzato in «Capissen nagòtt svisser e cumasch, / quej de Brèssa e i bergamasch / dò pessàtt de l’Urtiga hinn bun / de fàj tasè, e i ludigiann / i ingles e quej de Lecch / [...] / e i paduànn de Padua: / la lingua fina la gh’è dumà a Milan» (‘Non capiscono nulla svizzere e comasche, / quelle di Brescia e le bergamasche: / son capaci di zittirle / due pescivendole dell’Ortica, e le lodigiane / le inglesi e quelle di Lecco / [...] / e di Padova le padovane: / la lingua nobile c’è solo a Milano’). L’esito estremo si ha nel quadruplo salto mortale della Ballade franco-latine (sdoppiata in Balada Milanes tuscana e Ballata anglo-italiana): «Parfont conseil, eximium» (‘Sentenza esatta, eximium’) volto in «Un mot de quej giüst, maraviglioso» (‘Una sentenza vera, flabbergasting’), e così di seguito, in un esercizio mirabile e funambolico di mimetismo linguistico. Altrettanto audace si rivela l’estro con cui vengono rese le sei ballate argotiche, autentico rompicapo della filologia villoniana. Dunque se il valore dell’opera non va misurato nello riempimento o meno dello scarto tra esito di partenza ed esito d’arrivo delle sigole parole – e dunque niente teste decollate su vassoi fiammeggianti, secondo l’idea che aveva Nabokov del tradurre –, tale valore andrà piuttosto riconosciuto nell’assunto già di Ezra Pound: tradurre come se l’autore scrivesse in quella lingua. Detto fatto: Recalcati e Zuccato, poeti in proprio – e si sente –, danno corpo alle viscere di un poeta la cui ricezione in Italia è sempre stata singolare: amato pubblicamente da pochi, tra cui il compianto Amedeo Giacomini, che ne fu profondamente influenzato (non a caso un poeta dialettale), a volte inspiegabilmente posposto a suoi sedicenti predecessori (Rutebeuf, icona dell’ultimo Cucchi), Villon ha ancora molto da dare e da insegnare. Eppure in uno dei migliori resoconti antologici della poesia italiana degli ultimi decenni, i numeri 109-110 della rivista «Po&sie» dal titolo 1975-2004. 30 ans de poésie italienne (Éditions Belin, Paris), alla domanda della sezione questionnaire sui poeti francesi maggiormente amati, pochissimi menzionano Villon (Antonella Anedda, e, of course, Zuccato...). Quest’opera va letta come fosse una tessitura autonoma: parla di una città, Milano, di un’umanità varia e disperata, in bilico tra il Paolo Pini, storico ospedale psichiatrico milanese, il Lambro e il quartiere popolare dell’Ortica, e parla di un uomo, Villon-Cecch, in cui è facile riconoscere il fardello delle proprie umane contraddizioni («Mi crepi de sed tacâ la funtana / barbèli e sun cald ’me ’na rana / sun furesté al mè paes / tremi tütt piss tacâ ’na braséra / biott biuttìsc pari un president / ridi in del piang e spèti sensa speransa / triste in del disperàss me cunsoli / sun cuntent e pröj piesè de nient», ‘Crepo di sete vicino alla fontana / batto i denti e scotto come un tizzone / sono straniero al mio paese / tremo in fiamme presso un braciere / nudo come un verme sembro un presidente / rido piangendo e senza speranza attendo / triste nel disperarmi mi consolo / sono felice e non provo piacere in nulla’).
Flavio Santi
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