« indietro TOMMASO LISA, Rebis. periferiche + BAD SECTOR, Reset, Pordenone, Old Europa Cafe, cc.36 + CD.
Sfogliando le pagine di Rebis. periferiche (più corretto chiamarle carte, mancando del tutto la numerazione), occorre ruotare il libro di 90°, per leggere le coppie di distici contenute nel testo. Un gusto, quello di stendere versi debordanti per il lato lungo del più comune formato della pagina, assai diffuso presso la neoavanguardia allorché anche sul piano tipografico contrapponeva alle convenzioni del mercato editoriale, coi suoi prodotti di facile consumo, una pagina ‘brutta’, deformata, poco vendibile. Le note di chiusura però definiscono i distici altrettanti «cromosomi metrici», e dunque la loro estensione per il verso orizzontale della carta si carica di un valore strutturale profondamente connaturato al testo. Le quarantasei coppie di distici rappresentano il numero dei cromosomi presenti nel nucleo della cellula umana, formati da due bastoncelli di cui ciascun distico ripete l’idea grafica, sicché i due iperversi costituenti ogni singola strofa non hanno lunghezza casuale, ma sono sviluppati entrambi in una catena di quattro settenari che li tiene uniti secondo vari schemi di rima, quasi a ricordare le bande dei cromosomi, e quindi una reciproca appartenenza genetica. Anche non casuale risulta allora la mappatura testuale, ovvero la distribuzione spaziale dei componimenti in base al proprio sistema strofico. A gruppi variabili di cromosomi metrici (due all’inizio, poi uno, sei, due, cinque, tre e quattro) vengono alternate ora una ‘settina’ (una sequenza di sette strofe di sette versi settenari – quasi una canzonetta – «con slittamento progressivo» della parola-rima), ora un’unica stanza di una sestina sempre in settenari e così via, fino alla carta 18 recto/verso che con tiene il componimento centrale, una ‘settina’, spartiacque fra i testi precedenti e quelli susseguenti, questi ultimi strutturati con lo stesso modulo della prima parte, ripetuto però specularmente a ritroso; due sonetti in settenari accostati – ma potrebbe essere uno solo in settenari doppi e rimalmezzo – congedano il libro. Sono queste le ‘cose doppie’ di Rebis, un titolo che orecchia in distorsione l’arguto e spiazzante Rebus sanguinetiano. All’interno di un solido ordito prosodico, stanno, con tono non altrettanto ritmico, le parole messe in fila nei distici, semplici didascalie di immagini o sequenze suburbane periferiche appunto, dice il sottotitolo che richiama le unità distinte da quelle centrali nei sistemi elettronici. Tutto ciò mentre le sestine cantano schemi e circuiti informatici, componenti e calcoli algoritmici («l’impulso relativo / setta astrattialgoritmi / di schema alternativo»), e le ‘settine’ fanno da ritornello alle registrazioni dei distici con variazioni sul tema ad esempio della guerra, che incombe costante nella ‘settina’ centrale: «[...] la fonte / di fumi densi a sera / tra i soldati grigiastri / investe cortei dentro / mimetizzate zone / scuotendo a gruppi in raggi / bandiere della PACE». Scorrono, soprattutto sotto la luce di fari notturni come inquadrature al microscopio elettronico, escrescenze, fluorescenze, concrezioni, architetture deteriorate, cancrenose e cancerose prodotte dall’elettronica, dall’informatica, dalla chimica, dalla fisica, dall’ingegneria, che si sviluppano in un tutt’uno col paesaggio: dietro al «fiume nella valle» si stagliano «ciminiere lontane» e «reattori nucleari» al posto di catene montuose. Queste ‘cose’, espulse da una scienza e da una ipertecnologia al servizio di un mondo e di una società postindustriale, non sono corpi estranei alla natura, ma corpi terrestri a tutti gli effetti, incorporati dentro di essa come elementi costitutivi del suo corredo/arredo genetico. «Ricci rami di pino marino», alla stregua di «piene gallerie commerciali», celano le «superficiali fogge dell’universo», i «tra licci dell’Enel subway». Secondo un uso ormai radicato in tradizione, a questa presenza indifferente e indifferenziata di elementi artificiali o virtuali – tossici, radio attivi, velenosi, inutili – e di elementi ‘naturali’ e reali («vetrine lungo il viale e videocartelloni grumosi greggi e bovi e uranio impoverito»), corrisponde una coesistenza paratattica fra citazioni dai classici della poesia (Leopardi, D’Annunzio, Zanzotto, Giudici) e schegge di materiali desunti, ovviamente, dai vocabolari delle discipline scientifiche. Raramente però le parole in attrito si spingono fino all’invenzione linguistica come nella carta 21v.: «[...] computer microchip / [..] uccelli rami cip». Allegato al libro è un CD, Reset di Bad Sector: a graffi e sibili sonori «ruvi di e residuali», si sovrappongono brevi sintagmi strappati da Rebis. Facilmente maneggiando il volume, si scollano, si staccano, si mischiano le carte, col rischio di trovarle scombinate rispetto alla disposizione strutturale dell’impaginazione. Sfugge la possibilità di rimetterle in ordine, se un lettore previdente non le avesse numerate a matita. E così, ironicamente per un curioso gioco del caso, violata la volontà dell’autore, si attua quel concetto caro al Novecento, che vede nella deperibilità del prodotto artistico una delle variabili dell’arte contemporanea.
Giuseppe Bertoni
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