« indietro MARCO MASSIMILIANO LENZI, Il viaggio dell’orizzonte, Milano, Jaca Book 2005, pp. 96, €11,00.
Le due sezioni di cui si compone Il viaggio dell’orizzonte, a loro volta costituite da tre capitoli ciascuna – Deus absconditus, La quinta stagione, Dietro le foci; Nel culmine dell’aria, Terre del cielo, Stelle infere – si presentano quali stazioni meditative durante un cammino, che non è quello dell’uomo, ma il giro della cellula lanciata nello spazio. Sull’ossimoro si fondano almeno due capitoli: Stelle infere, quasi a concedere al gorgo dantesco una possibile visione planetaria, avanti un riemergere dall’abisso stesso, e Terre del cielo, rilettura correttiva dell’endiadi sapienziale ‘cieli e terre’, universale narrazione delle glorie divine. A risultanza di questi raccoglimenti, da una parte l’ammissione della presenza di un dio celato nelle umili realtà: «Cogliere il volto ripetuto d’un Dio / nel ciclo fiammante dell’erba, nel volo silenzioso delle spore»; dall’altra l’ossessiva testimonianza di un’esistenza ultramondana, situata in quella «quinta stagione», che, come un ‘ottavo giorno’, tracima dal calcolo del tempo secolare. Lo sguardo continuo rivolto ai regni dei morti non può e non vuole liberarsi da un cupo, sacrale apparato omerico: su «nere navi» procedono le molte schiere dei senza tempo. Del resto l’osservazione del fenomeno, quotidiano e ominoso insieme, attesta sì di un incedere sulla «linea etrusca» di Lenzi, che tuttavia non sembra poter fare a meno della tradizionale scena ultraterrena dell’epica greca, ovvero di una lettura piena di stupor della storia nel solco liviano. Direttrice dunque primamente letteraria, che ha in Pascoli uno dei vari referenti (il motivo del «libro che si sfoglia per lampi di coscienza» non può non rimandare al celebre poemetto pascoliano, come il «volo dei cigni boreali», altro signum da interpretare, doppiamente rinvia sia al noto passo del Fedone, 84e-85b, sia al rivisitatore del topos, il poeta di Andrée). Di sicuro non è prevista resurrezione alcuna (di contro le «nascite cieche», «inutile emergenza» di un vita che rampolla a stridere e a volare raso terra), la morte è stato di arresto, durante il quale si può (a memoria omerica) rimpiangere anche la più bassa condizione terrena («Si contenterebbero di avere anche solo nidi di alghe», soprattutto quando una fine assassina ha giunti impreparati gli uomini, agguato che può ancora rispondere a un’immagine codificata come quella della Civetta ovvero del rapace notturno non veduto, ma avvertito nella sua esiziale presenza: «nel vento buio che sente dagli artigli / il pasto urlante del gufo»). La costante visione religiosa dell’esistenza non esclude semplici cadenze narrative; è la consuetudine del fenomeno naturale a essere soggetta a tale sguardo colmo di sbigottimento, non l’evento straordinario. Un verso quale «Peretola stanotte ha un firmamento che viene dalla terra» sembra conferire al piccolo abitato, ignoto e di sadorno, il volto di un luogo di incanti, in grazia di quell’elemento di piano e stupito racconto, l’annotazione temporale «stanotte», che è calco di simili moduli con cui si aprono certi notturni ungarettiani, e che al soprannaturale ribaltamento (al venire, dalla terra, della sfera celeste) conferisce un carattere di pacata normalità. Analogo discorso potremmo fare su un incipit quale «Ora nelle gole dei viali spenti / il pipistrello si avvita al cimitero degli Inglesi», descrizione di una conca di tombe, dove si favella in una lingua anglo-letteraria, che dà sola basta a evocare lo spirito di Montale, affabulatore dai conformi quieti attacchi, volti a dire i prodigi del nulla, gli episodi del giorno corrente. Nel timido disvelare questi impercettibili indizi del divino, il poeta sembra apprendere il suo domestico lavoro dai costumi dell’hirundo virgiliana (Aen., XI, 473-474), rapida creatura in volo radente che, filando inaspettata nel chiostro marmoreo di una casa ancora non desta, riscuote i dormienti dal silenzio col suo breve strepito d’ali («Devi traversare / l’andata e il ritorno / dentro la nera luce, / nel dorsale di rondine che sfocia / dall’impennata sui marmi / quando non vede nessuno vivere»). E se di minimo rumore si tratta, anche da un’‘esattezza’ sereniana sembra opportuno che la poesia ormai prenda congedo, da quell’algebrico nitore con cui il germano depone le sue uova lungo l’Affrico (non certo fortuito luogo di cova). «Ora invece bisogna baciare come il vile, di sfuggita / senza reazione, senza aspettarsi, senza / riconoscere niente e nessuno, salutando / senza agitare la polvere scesa / sul moncherino del cuore». Siamo all’atto di penitenza della carne: è scelta volontaria infliggere l’ultimo colpo all’organo poetico per eccellenza che, già muscolo vile, diviene adesso pietoso e risibile mutilo.
Francesca Latini
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