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JOLANDA INSANA, La tagliola del disamore, Milano, Garzanti, 2005, pp. 140, € 16,50.
 

Un tragico quotidiano abita i versi di Jolanda Insana, un tragico aspro e petroso, fatto di tristia ma non liricizzato; un tragico del disamore secco e inesorabile, battente su sillabe ritmate e difficilmente eufoniche. La voce è asciutta anche quando rievoca figure basilari dell’assenza, fondative del lutto primario, come è quello che si vive per la perdita della madre. Il dolore, che resta pungente senza essere acerbo, trova nella sua espressione poetica un modo narrativo che, toccando gli oggetti della vita comune, assume immediatamente sapore epico e dimensione universale. Pochi altri poeti declinano ad una – davvero senza mediazione – il dolore squisitamente personale, quello che si percepisce unico ed irripetibile insieme con quello vasto e condiviso della storia comune, delle guerre e della fame, dello sgomento e della pena di tutte le terre arse e sfruttate nella loro ricchezza di cultura e di umanità. Questo rapporto immediato tra storia individuale e collettiva passa attraverso i gesti della quotidianità, e i grandi eventi che pure ci sono, ma appena evocati – l’epidemia di spagnola del 1918, il fascismo, la guerra –, non paiono indispensabili a costituire questo legame, che è già dato ed è in primo luogo etico. Le sezioni dedicate alla madre riescono struggenti principalmente per la loro asciuttezza, per l’oggettività dei realia di cui sono intessute. Spiccano le azioni: l’assenza è una lunga, anaforica teoria di azioni che dalla madre ormai non verranno compiute: «più non punterà dritti gli occhi / sulle facce degli amici e dei nemici / sulle feci e sui pidocchi dei marmocchi / scrofolosi itterici e picciosi»; «non berrà più gazzosa»; «più non s’incamminerà di notte / per il pellegrinaggio alla Madonna Nera»; «non taglierà più pelose cotogne a tozzi». Il rosario del dolore si sgrana lungo sintomatiche minuzie del vivere comune; il tono non è gridato, la scansione è ferma e impietosa, il punto d’osservazione scelto con umiltà. Il nodo che lega madre, religiosità cristiana, tradizioni regionali e attaccamento alla Sicilia d’origine è stretto attorno a una radice unica. Data la forza terragna, materica che pertiene al materno, il rapporto con la madre scomparsa può essere mantenuto attraverso la lavorazione della terra – «mi arrotolo le braghe sopra le calosce / e faccio la  contadina per lei / che voleva spurgato arato e rivoltato / senza pietre e senza erbacce / lo scarso campicello» – e attraverso la manipolazione degli oggetti che a lei sono appartenuti e che schiudono un cromatismo esatto: «metto ordine nel suo cestino / tra gomitoli di seta e di cotone e li divido per colore / perché ritrovi il rosso Cucirini Cantoni / l’azzurro Astro Vello d’oro / o il viola perlé egiziano». La sezione Corteggiamenti e altro apre alla mancanza della persona amata, alle separazioni, agli abbandoni, al desiderio deluso e all’impossibilità di comunicare. Il lessico si mantiene crudo e ordinario ma il tono si fa più acre e l’ironia ha gusto di fiele: «vieni vieni / anima di polistirolo espanso / prima che m’incavolo / e te lo do io l’accudimento a cazzotti e svenamento / poi che sbriciolata non rompi l’incantamento». Le metafore o le allusioni religiose sono risolte in perfetta laicità o rovesciate in odore di blasfemia: un amore insoddisfacente e opprimente come prigione «è diventato pane quotidiano e non sazia / perché troppo sbocconcellato / e da scarsa misticanza accompagnato / strazia il budello intorcinato dell’ergastolano»; e il rischio di patire crudeltà d’amore è espresso con un’intersezione linguistica: «c’incrociamo dice tagliando la comunicazione / e voleva dire ti metto in croce / ma io che amo la contaminazione / non posso accettare la palese derivazione / e taglierò le strade di traverso». In quadrano queste poesie dedicate ai corteggiamenti prospettive oblique e radenti, tagli netti e narrazioni scorciate che sono sequenze incalzanti di verbi, legati, come spesso Insana ama fare per battere e ribattere ritmicamente, in omoteleuti (o rime) grammaticali: «ci siamo incontrate a Creta / e aveva una missione di morte / e così ha spolpato e a piccoli morsi / in goiato sputato vomitato / e tirata la cate nella del cesso / ha scaricato scorie e sor te». Straordinarie, per limpidezza e tenu ta di intonazione, sono le poesie della sezione Variazioni per voce, alto connubio di prosaicità e lirismo graffiato, lucide e scoperte ammissioni di una corporeità necessaria e non soffocabile, acuminate folgorazioni psicologiche che valgono compiuti ritratti della o delle amate: «cattiva? Ma via / è narcisa ipertrofica di esili gambe / che non sa nuotare e va alla deriva»; «per paura d’essere scottata / brucia in continuo patema / e qualche volta in voca il diavolo / e lancia il gelido anate ma»; «ah la ritrosetta formichina ghiotta / che si tufferebbe nella marmellata / e ne resterebbe affogata / se non fosse sigillata nella sua boccetta». Ma poiché «non basta desiderare il vero / bisogna inchiodarlo alla sua propria parola», questa poesia nella sua lingua contaminata e scabra, nel suo peculiare essere avvinghiata al reale, capace di resistervi e di portarlo, sperimenta una dizione civile che appare assorbita e introiettata sì da esserle irrinunciabile. C’è sempre, nei suoi versi, una grande e costruttiva forza di esecrazione dell’ingiustizia, massime, qui, quando presenta la verità più tremenda della storia: il suo strutturale, incoercibile essere scritta dai vincitori. Allora lo stare al mondo – patire lutti familiari, esorcizzare amori cruenti e ferite esistenziali slabbrate – non significa durare: «non basta mettersi al mondo e negoziare l’esistenza / bisogna rimettersi al mondo e ripensare la storia / la sua la mia tutta la storia degli umani di tutti i tempi sotto ogni cielo a ogni latitudine / prima di qualsiasi spostamento / o aggiustamento nella cuccia / / storia di vincitori d’annientamento e cancellazione / dappertutto negli spazi vasti della terra / o risicati delle quattro mura della casa // c’è sempre qualcuno trascinato sul carretto del macello / perché un altro salga sull’altare / e non basta edificare se stessi / bisogna edificare il mondo / altrimenti non c’è mondo dove mettersi o rimettersi».

Cecilia Bello Minciacchi


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