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TOMMASO KEMENY, La Transilvania liberata, Milano, Effigie 2005, pp. 80, €10,00.
 

 Rovina sontuosa, questo poema, come canone tassiano vuole, suddiviso in dodici canti. Inenarrabili gli argomenti del poema, epica cronaca e visione insieme delle infelici sorti della Transilvania, nata ungherese e d’anima pagana e ritrovatasi, per inarrestabile corso della storia, cristiana; per mene di potere, all’indomani del primo conflitto mondiale, rumena. A questo snaturamento del carattere magiaro della nazione si accompagna lo stato di deraciné del poeta, nato ungherese, ma fin da piccolo esule in Italia, terra di canti e cavalieri diversa e distante, pur tuttavia unita da più refi sottili all’altra culla d’uomini d’arme e di lettere. L’adozione della lingua del «sì» non è scelta inevitabile, nonostante il lungo soggiorno di Kemeny in Italia. Il titanico spirito byroniano non sembra poter prevalere sul primato linguistico e stilistico del modello principe, ossia quel Tasso continuamente evocato, che non è solo il capostipite di una genia di uomini sacrati al culto dell’immaginazione (Pound e Breton sono gli altri due numi tutelari nominati nell’opera), ma rappresenta innanzitutto una tradizione linguistica alta, irrinunciabile qualora ci si ponga a cimento con l’epica, teso l’orecchio eventualmente agli ultimi grandi epigoni novecenteschi. Impossibile seguire l’ordine di tutti gli avvicendamenti narrati, toccanti momenti di una patria non solo vessata dalla «Bestia» apocalittica dell’ultimo scorcio di secolo – un Ceausescu a cui si riserva analoga rappresentazione destinata alla dantesca «Bestia della Selva», Hitler –, ma anche ingannata da speranze chimeriche finite in disincanto (l’insurrezione del marzo del ’19), o represse nel sangue dalla mano di soldati ‘compagni’ (l’invasione sovietica del ’56). Anche perché a tale triplice e contemporanea narrazione di un passato di oppressione, il poeta intreccia l’ancor più evanescente successione di favole che va sognando e raccontandosi sull’eco delle antiche saghe che di questa terra un tempo gli narrò sua madre, unica vera custode della cultura ungarica. Più che seguire il viluppo di episodi fantastici (che non rinuncia a topoi classici come la catabasi agli inferi, o a meraviglie ariostesche quale l’aereo volo del cavallo Rigo) torna utile considerare la lunga teoria di personaggi che a ciclici intervalli appaiono sulla scena. Anche in questo caso la realtà quotidiana, la storia e l’immateriale cosmo di lemuri intrecciano i destini degli attori: eroi antichi, ignoti figli del popolo magiaro e leggendarie figure. Il grande Hunyadi Jànos, il «cavaliere bianco» giunto in Italia (in quel di Milano, terra d’elezione del profugo Kemeny) al soldo di Filippo Maria Visconti, nonché padre di Mattia Corvino, è l’eroe che incarna l’idea medesima del documentato legame tra Italia e Ungheria, rivissuto però in chiave di intime e suggestive fatalità da parte del poeta. Decisamente al femminile il mondo ultraterreno, fatto più di maghe che di muse (più di Armide che di Uranie). Tra gli annali degli eroi consacrati dalla storia e il perennemente mutevole regno delle Norne, sta il sottobosco delle vite anonime, come quelle dei due ragazzi che inerti assistono ad attacco di poema alla quotidiana consunzione del paese sotto tirannide. L’affrancamento – ma anche questo vissuto in sogno, non messo in atto – è consegnato nelle mani del cantore protagonista, che abbisogna comunque di un travestimento arcaico per accettare tale investitura da parte dei padri, risorgendo nei panni del mitico guerriero Vajk. Conformi metamorfosi atten dono la madre Edith, che si tramuta in un’antica divinità delle origini, e il padre, che prende il volto dell’eroe Csaba. Tutta la Transilvania grida vendetta e a questo richiamo presta ascolto l’intera famiglia; si tratta di liberare un paese dal gioco di una lunga schiavitù, che ne deturpa non solo la compagine sociale, ma anche il bel paesaggio silvano. Ma di un sogno si tratta; le innumerevoli nobili gesta compiute da Vajk con l’aiuto dei divini genitori in epilogo al poema «epiconirico» si rivelano per quello che sono: la morgana di una mente nutrita dal ricordo di favole antiche.

Francesca Latini


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