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CESARE GREPPI, Camera selvatica, Novara, Interlinea edizioni 2005, pp. 96, €10,00.
 

Merita, per Greppi, dare agli occhi, «uscio e varco» della visione sul mondo, un primato percettivo. Sono, questi, i famuli di una mente «capovolta», che ‘regalano’ alla loro signora «onorata / di doni», «notizie / dei suoi desideri». Minute notizie, quasi da microcosmo ‘amiatino’, costituito da piccole creature nemmeno designate col loro nome, esseri in tenti a brucare altre umili, ovvero sotterranee, forme di vita vegetale, «barbe e radichette». A questo apparato stilnovistico, si accompagna altra metaforica raffigurazione barocca, quella del «carro della vista», che «tutto il giorno rotola». Certo è che da tale prima ed empirica azione cognitiva deve poi scaturire l’idea; inesistente se non fosse per altro fondamenta le strumento umano, questa volta non ricettivo, ma restitutivo: la lingua. E non è un caso allora se duplicemente dantesca è l’immagine con cui si tratteggia l’atto espressivo, parlando appunto di idea che come pargoletta «nulla» «sa» e che per avviarsi per il mondo, «attorcigliata» com’è da nodo inestricabile alla lingua, abbisogna di un risoluto gesto di recisione, di distacco, di congedo, volontariamente compiuto dal poeta. Nullo, insomma, può essere il ricavato di questo lento rotolare delle orbite, in cerca di un senso esistenziale. E allora si commette ad altri il compito di prendere la parola: in particolare a una misteriosa figura femminina, nella quale è plausibile riconoscere l’Hypatie dell’omonimo poema di Leconte de Lisle – già tramite di una perduta saggezza de gli antichi, sia quella di Socrate o quella di Platone: «Se altrove / te ne informa meraviglia, / altrove viva parla tu, / un’ape tra le labbra»; «et la terre écoutait, de ton rêve charmée, / chanter l’abeille attique entre tes lèvres d’or». Lento il carro della vista a sua volta è trascinato sopra altra sfera pungolata da incessante assillo a girare su se stessa, procedendo lungo un’orbita quotidiana. La raffigurazione antropomorfica, che parodia l’innocente immaginazione del primitivo genere umano, potrebbe appartenere a un’operetta morale: «Il giorno Domani basso ora / in terra inginocchiato già / per la Cina rotolante / non ha parola fiorita nessuna». L’intento è, però, quello di andare oltre il piano negativismo di Leopardi: non solo dall’avvento del nuovo giorno non c’è da attendersi felicità nuove, da svelare con «parola fiorita», ma neppure «cosa nessuna», poiché il «Domani» – in un’ideale vichiana visione del tempo – procedente come un infante «in ginocchio», non «ha cose»; unica realtà un «vento» che «romba» «negli orecchi», eco dell’assiduo «strepito» che pure udiva la Luna in uno dei capitoli del «libro [...] metafisico», ingannevole frastuono, se risuona «come in caverna fuoco», allusione non poi così dissimulata al mito platonico per eccellenza volto a narrare l’effimera apparenza delle cose terrene. Pure ogni alba sembra essere colma di una grazia che nasce dallo scampato affanno. Se la sera per tradizione è descritta sull’orma dei classici, Virgilio in primis, quale momento che «ha» ogni suo «bene» in fugaci doni di quiete, nonché in tradizionali topoi poetici («nel suo colore scuro», nei «fumi / che giacciono nell’aria», nelle sue «strade» percorse al rincasare di uomini e di bestie), finisce leopardianamente per coincidere con l’ora che precede «lo stato di bufera». Viceversa, l’alba si ripresenta «mirabile», seducente quanto può esserlo una beltà olimpica («le membra delicate / non hanno equivalente / nel suo specchio), e soprattutto – sempre nella linea di un Leopardi ‘rovesciato’– «con gioia di rumori», che ne fanno l’anti-sera, l’ora che segue la disperata tempesta delle tenebre. E tuttavia eos non deve affatto questa sua benigna natura al carico di speranze che giornalmente mena con sé al sorgere della luce. Ancora una volta la meraviglia risiede in quella capacità espressiva che l’alba possiede e che non è la lingua con cui penosamente cerca di ‘scrivere’ il mondo il passeggero del mondo. Contro la provvisorietà, ovvero l’afa sia di ogni idioma poetico («Corpo scaltro / nella sua lingua del passare / passava» e l’immagine sembra rimandare all’ungarettiano quadro notturno di Lago luna alba notte: «Un uomo, solo, passa, / Col suo sgomento muto... »), la mattina conosce un’arte già stata propria della colomba post-diluvium di un capitolo dell’Allegria come Fase – per un gioco di richiami antitetici, epifania meridiana –: «Nella sua lingua dell’approdare / approdava». Sa dunque, dopo il volo, toccare terra e a questa rimanere fedele, senza necessità di trovare una «parola fiorita». All’opposto la condizione dell’Adamo, che impone i nomi alle cose. Nomi che non dicono «niente di preciso», se a un «assoluto» «deserto» che con voce giovannea chiama senza ricevere ascolto («Chiama questo luogo / appena riconsegnato») e come un Mosé abbandonato «solo attraversa ed esce» da sé (sperimentando propriamente un’estasi mistica), non sa offrire che l’appellativo inesatto di «semi deserto», uguagliando in insufficienza le misere forze lustrali di un cielo che nella sua «sacca» «stipa» solo «raffiche» per lavare il suolo riarso. Torniamo ai mezzi percettivi, agli occhi, «lontanissimi occhi», che appaiono guardare al mondo, alle «stagioni», con incolmabile distanza. Che vi sta può essere questa, se non uno sguardo sub specie aeternitatis? L’atto di un «vecchio vivente», di un sopravvissuto, che ‘mira e sorride’, guardando il mondo come un «dolce di neve / gennaio che sverna». Il tono diviene quello prudenziale d’Orazio: raggiunta la «canities», l’immobilità dell’inverno sembra avere i suoi inerti diletti, non fosse altro in quel rassegnato, e grato, ‘svernare’, nel flemmatico ‘stratagemma’ del superare i rigori stagionali. «Ora» che «le circostanze fanno / quel loro movimento paralitico» «Ora» che «la bocca della spelonca / partorisce vento».

 

Francesca Latini


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