« indietro CLAUDIO GALLICO, Poesia seconda, Firenze, Gazebo 2005, pp. 36, s.i.p.
Il wit attacca fin dal titolo, Poesia seconda, offrendosi a una triplice interpretazione: ci avverte con vezzo del genere non primario, di nugae, delle liriche, ne rileva il venire dopo la precedente raccolta dal titolo Poesia, e per finire testimonia l’essenza medesima di quest’arte, che nasce appunto a ‘secondare’ una «natura antica». In apertura e nell’explicit del libro la provocatoria dichiarazione di intenti: «mimare» i «poeti laureati» e non temere di avere signoria sulle proprie «or dinate parole», quasi a dire una precedente schiva verecondia ‘merumenesca’ sopravanzata. Certo si tratta di scoprire nell’universo isole felici di simmetrici rapporti e con queste entrare in colloquio. La frequente figura dell’accumulatio sta sì a significare caso e caos, i dominatori (come nell’incipit della lirica dedicata all’Africa, «Sciami d’occhi / mischie d’insetti...»), ma nel mondo ancora si possono trovare (trobar) dei principi degni di nota (un annotare sotto dettatura, sempre secondo costume dantesco: «oggi respiro, e noto, e / di quel segreto navigare vivo»), addirittura dell’entusiastica formulazione del plazer, nel suo facile cantabile di emistichi isosillabici («soffi di voci, rosa di colori, / volumi inerti, onde di respiri»). Insieme e più di tale regolato pitagorico cosmo agisce come fonte di ispirazione l’arte medesima. Parola e ascolto sono rivolti a poesia, pittura e musica. Non stupisce il dialogo privilegiato col Virgilio parthenos, quello che nel poema «esce a dire il particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime e ci salva» (come l’accenno all’infelice sorte del canuto Cicno mutato in cigno, Aen., IX, 192, fabula allusa con sapiente riecheggiamento ritmico-lessicale – «Candida vaga migra figura» – di altra meditazione di vecchio, il riposto chiacchierio adrianeo con la propria animula stanca; o il triste inciso di Aen., IX, 312-313, sospiro sulla vanità delle parole avanti la tragedia, combinato con l’ingenua osservazione, nella notte delle notti, sul potere di sbigottimento del silenzio, Aen., II, 577, situazioni rivissute in un ‘privato’ che chiede di essere espresso nella medesima lingua stupefatta). In una poesia che privilegia a tal punto il dialogo con le proprie ‘letture’ (si pensi agli sdruccioli vergati quale parodico omaggio a Novalis, o all’atto di reverenza per il poeta dell’Infinito, di infiniti epigoni maestro) non possono mancare esempi di vera e propria ecfrasis, come la descrizione del volo gonfio della giottesca Incostanza agli Scrovegni, a cui si contrappone quella ‘colata’, inversa profusione dall’alto di «fino», guinizelliano «amore» celeste dell’«edicola» (significativo che vi si impieghi il verbo ‘colare’, a cui Gallico ricorre anche nel testimoniare della «parola» poetica, come metallo fuso versata a fare tutt’uno col suo stampo, «la cosa»). Non mancano neppure descrizioni di opere à la manière de come il soggetto ‘accademico’ del San Sebastiano trafitto. In ultimo la musica: «Mille regrets de vous abandonner», si intona sulle note di Josquin des Prez, rivolgendosi a un’interlocutrice affine, all’appassionata Maria seguace di vicende gonzaghesche; a che dire, se non che interminabili rimpianti ci assalgono a comprendere il programmatico abbandono degli antichi? Chi sono gli uomini nuovi se non dei Tesei consigliati a prendere il largo abbandonando in Nasso l’ingenua Arianna? Da chi redenta, questa, se non dal dionisiaco ritorno all’isola di un «vasel» di poeti?
Francesca Latini
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