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NINO DE VITA, Nnòmura, Messina, Mesogea, 2005, pp. 304, €14,90.
 
Dopo l’esordio in lingua nel 1984 con Fosse Chiti; in cui l’identificazione geografica e già si direbbe antropologica, perché etnica, contribuiva a compattare i singoli componimenti nelle maglie di un libro coeso, è con Cutusìu (2001) e con Cùntura (2003) che l’operazione di recupero del passato di una Sicilia occidentale e rurale a ridosso del mare ha preso la sua dimensione più definita e compiuta. Nella sovrapposizione di vicenda dell’io e vicenda di un luogo (in questo senso: un etnos) interveniva però già in Cutusiu – e addirittura sin nel primo testo (sucessivo al componimento in corsivo che funge da dedica generale) – la nota del disincanto, anzi del guasto nell’origine. Nel lungo componimento narrativo intitolato ottu giugnu millinuvicentucinquanta è infatti rappresentato il giorno natale del poeta con il racconto dell’angoscia e dello strazio per un parto che rischia di far morire la puerpera e il suo portato, e che anzi sembra in un primo momento risolto con la sopravvivenza della madre a discapito del bambino, estirpato dal ventre, apparentemente invano, con la violenza selvaggia del forcipe, salvo poi, dopo «ddu’ uri», «chiancere», strillando al mondo il suo avvento. In questo movimento iniziale di quello che oggi, con la pubblicazione sempre per i tipi della messinese Mesogea – di Nnòmura appare come un trittico coerente nell’ispirazione e nella orga nizzazione, sono già segnati alcuni aspetti salienti di tutta la serie. Dal punto di vista della compaginazione formale bisognerà innanzitutto sottolineare, affianco all’opzione per un dialetto non illustre e al contrario pregno di varianti demotiche che costringono l’autore non solo alla inevitabile traduzione ma anche alla preparazione di note a pie’ di pagina per chiarire la natura di certi oggetti ed espressioni poco chiare oramai anche in lingua italiana, la spiccata vocazione narrativa, sulla quale torneremo più avanti. Questo stesso primo componimento reca inoltre, nella sua polarizzazione tra la vita e la morte, tra la vita di chi può dare vita e la morte di chi è debole ed è ancora un passo dentro la non-vita, la traccia antropologica cui si accennava in apertura e che vuole che dai corpi femminili si sia espulsi con violenza, con strazio, quasi un indesiderato corpo estraneo di cui tuttavia non si sapesse più come liberarsi. Se, per un’ovvia catena metamorfica, la madre sta alla terra, allora il rischio di disparizione cui va incontro la nativa Cutusie assume il carattere ambiguo di chi voglia salvare le antiche tradizioni natie sapendo di esser loro estraneo. Altro che pietas, religione dei Mani e dei Penati, il lavoro di Nino De Vita – con quel cognome autoriale che contraddice la vicenda inaugurale (o che da quella è contraddetto) – appare come l’ambivalente, odiosamante, relazione con una haunted land i cui spiriti, altro che placarli, si vuole scatenare nel loro piccolo inferno pagano locale. E allora ecco che appare, dopo l’estraneità misteriosa e perigliosa dei piccoli e grandi animali nelle fiabe di Cùntura, la violenza delle famiglie che s’identificano con la terra e che nella terra cercano il riscatto o la stabilità. Ed ecco la lotta che divora per prime le famiglie al loro stesso interno (Pinu Mignagni), ecco la fame (Libboniu Ciocca), lo scontro per la sessualità (Nicola ’u turcu), l’incomprensione che nega all’altro la vita (L’organettu): tutti elementi che caratterizzano la vita dei contadini e le loro relazioni. Altro che luogo dell’origine, spazio della riconciliazione con la natura: nel sistema d’immagini e di concetti che muovono la poesia dialettale di De Vita c’è un aspro conflitto, sia tra enti e ambiente esterno, sia tra enti ed enti. Un’antropologia negativa che si fonde in una metafisica che finisce coll’incontrare toni leopardiani nelle zone forse meno prevedibili, come lì dove (‘a carrozza d’i mor ti), alla domanda di un passante che chiede chi stia portando il corteo funebre si risponde ‘niente, niente d’importante’: era solo «un viddanu», un contadino, era: senza nome e dunque senza prospettiva di salvezza. Ma il momento culminante e che ci riconduce a quel testo di apertura della trilogia di cui si è detto è probabilmente ’A naca (‘La culla’), splendido testo di viso in tre sezioni: nella prima è la reminiscenza di uno stadio natale precocissimo, col recupero delle sensazioni vissute nella culla («Rummia nn’a naca, sutta / ô ’n velu»); nella seconda c’è l’accelerazione temporale fino a quando, rosa dai tarli, la culla viene gettata nel fuoco: nella terza c’è l’antiepifania, col soggetto che racconta alla madre le sue ‘rimembranze’ della culla infantile e la rivelazione da parte di lei che quella culla l’aveva avuta da «una r’u Voscu» perché «’u figghiu ci morsi appena natu». Al pari di quel forcipe che conduce il soggetto nel mondo sotto il segno della sofferenza (dunque con tonalità opposta a quella del Tristram Shandy), così quella culla finita sul fuoco ma ancora portatrice di una profonda identità soggettivante, familiare ed ‘etnica’, rivela una natura perturbante dell’appartenere che s’insedia sin dentro il luogo della nascita. Una natura unheimliche che proprio il ricorso al dialetto, esibendone l’attitudine pietosa, contribuisce a rivelare lasciandola in un’ambiguità che sigilla tutto il senso di una vita. La culla nel fuoco ricorda lo slittino che brucia nel camino e che sigilla l’intera inafferrabile vicenda di Citizen Kane. «Rosebud».
 
Giancarlo Alfano
 

 


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