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FRANCO BUFFONI, Guerra, Milano, Mondadori, 2006, pp. 205, € 9,40.
 

 

Che la scrittura, e si intende la scrittura creativa, possa svolgere una funzione documentaria nei confronti del ‘mal d’archivio’ che, tra rimozione e ‘cultualizzazione’, è proprio del nostro rivivere con la Storia, è uno dei presupposti del libro di Franco Buffoni intitolato alla Guerra. ‘Libro archivio’ in quanto lo sguardo del testo, dalla ‘matrice’ della seconda guerra mondiale, muove a carneficine più recenti e, all’indietro, a combattimenti lontani o sepolti nella memoria archeologica (si noti che tale simultaneità convive con la coscienza che la guerra non è mai finita: spunta il Sereni di Domenica dopo la guerra, e, in filigrana, del Sabato tedesco). ‘Archivio’ anche perché Buffoni utilizza soluzioni stilistiche variate, in funzione mimetica del rappresentato, ma soprattutto per aderenza al campionario di stili depositatisi negli anni nel fondo del la propria ‘bottega’ (Il maestro di bottega è il titolo di un’auto-antologia dell’autore, Milano, 2002). Se questo è l’orizzonte ‘conoscitivo’ del libro, la sua idea generativa è concretamente documentaria. Guerra nasce infatti dal rinvenimento di un diario «scritto a matita in stenografia su cartine da tabacco in campo di concentramento» dal padre dell’autore. L’organizzazione della materia nel reperto, condizionata certamente dalla precarietà del supporto, pare però presto allontanare la possibilità di una «trattazione di tipo storiografico». Ma, soprattutto, la scelta di togliere il padre dal centro della scena corrisponde all’accantonamento dello schema di un pellegrinaggio della pietas. Nessun passaggio d’Enea, insomma, forse anche perché questo avrebbe imposto la ricomposizione del dubbio inerente all’essere quella del padre il dramma troppo tipico di una storia italiana caratterizzata da una carenza essenziale di coscienza politica (in uno di questi foglietti c’è infatti scritto: «perché sono prigioniero?», ma, senza enfasi – la ‘banalità’ del bene, diremmo – e dunque con orgoglio: «ti assolvevi: non avevi firmato RSI»). Il padre è dunque marginalizzato nel libro, per permettere la liberazione da un condizionamento etico: «Uccidendo il padre e dunque tagliando / la catena di trasmissione delle conoscenze / sbagliate». Rinunciando però al protagonista, al racconto del testimone – se non al suo ruolo chiave nei termini di fondazione della memoria – si poneva il problema di gestire la libertà acquisita sul piano della rappresentazione. Fingere di avere «rivissuto in prima persona quegli eventi, immaginando che in quelle circostanze mi fossi trovato io», prestava infatti il fianco al rischio di fare di questi testi una macchina del tempo sospesa tra soggettività e oggettività (mentre il padre portava inequivocabilmente «la sua biografia inscritta nel corpo»). La soluzione è allora quella di partire dall’unica esperienza disponibile in materia, cioè il servizio militare dell’autore, già raccontato, su un tono leggero, in l’Aeroporto contadino (sezione di Suora Carmelitana e altri racconti in versi, Milano, 1997). Così non mancano elementi fumisti (‘giocosi alla Laforgue’, giusta una definizione legittimata dall’autore) nella seconda sezione del libro, carne di militare, dove questa è da intendere al tempo stesso come la desiderante vitalità di quei versi più antichi e insieme, figuralmente, per ricordo dei fratelli di altri reggimenti perduti, ‘carne da cannone’. Leggiamo così la poesia-manifesto di questa straziante primavera di bellezza, pura fisicità della perdita: «Si può stringere con due mani una pistola / o la racchetta da tennis / un cazzo a palme tese / o una tettona a cono, / si possono legare con due mani altre due mani, / il crimine più grande è fare leva / sull’emulazione, la fratellanza, / la voglia di divertirsi / in gruppi forti e solidali; è approfittare di un corpo generoso / che si sposa a un altro corpo, al corpo, / per esaltarne lo spirito aizzandolo, / succhiarne tutto il bene l’amicizia / gli scherzi le risate per tradurli / in odio deciso ed imboscate ad amici / di altre risate. Questo, sugli uomini giovani, / da parte dei comandi / questo uso malefico del bene / è questo che non per doneremo». Questa è la spina della camaraderie, prima di ogni compassione l’amore, sia qui quello dei contubernalia (pen siamo al Comisso di Giorni di guerra), e l’appartenenza alla thin red line, la sottile linea rossa dei non eroi («but single men in barricks, most remarkable like you») di quelle Barrack-Room Ballads kiplinghiane tradotte da Buffoni. Giovane, del resto, era Gobetti che si affaccia ai versi compiutamente civili dedicati Alla costituzione italiana: «Di te che prometti il perseguibile / vorrei restasse il lampo negli occhi di Gobetti, / già finito per altro in poesia». Se questa è la chiave semiprivata per l’ingresso nel labirinto delle guerre storiche, la ricostruzione degli ‘scenari’ è affrontata col sostegno di quei procedimenti stilistici che fanno dell’autore un maestro della scrittura regionalista (cioè alla Seamus Heaney). Detto nei termini dichiarati nel precedente Il profilo del Rosa (Milano, 2000) si tratta ancora di «disegnare in poesia una sorta di mappa del territorio, con la sua storia vissuta magari a ritroso, dalle guerre mondiali al Risorgimento al Seicento ai Longobardi ai Romani, fino alle incisioni rupestri». Si sovrappongono dunque nella «vecchia strada per Montecassino / tracce ancora di asfalto romano / anno decimo dell’era fascivolo» e, sorta di Guernica preistorica, le «eliche di uncinati bimotori / contro i graffiti rupestri» (evocando Benjamin in fuga per i Pirenei e le grotte di Mas d’Azil). Completano il catalogo ulteriori materiali archivistici: films documentari, ritratti lombrosiani dal «nuovo archivio giudiziario fotografico», e tracce umane come lapidi reali, tombeaux. Più che nei ritratti a tondo, come è l’allocuzione al disertore «E sei sempre tu, hai quegli occhi nel ’43 / li avevi nel ’17 / li avevi a Solferino nel ’59 [...]» (attacco enfatico vicino al noto: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo»), che, se vuole essere comunque l’omaggio a chi la Storia l’ha vista dal basso, scappando, ha nondimeno la tentazione del marmo, il ‘racconto’ funziona bene quando «senza nessuna pretesa di ‘raccontare’ la storia», il precipitato è quello «di restituire una intonazione, un suono: Domodossola e Vichy come insiemi di fonemi assorbiti nell’infanzia»: una caparbietà onomastica che è in sé costruzione ritmica della memoria, dialetto, so stegno evocativo dei «fondamenti neuro biologici della memoria». Il passo più difficile è naturalmente il racconto dei Lager, che se dalla parte della riflessione sui carnefici ripercorre il topos della riflessione arendtiana («Uomini di mezza tacca neanche tanto aggressivi / provvisti di pulsioni, di emozioni prevedibili / assolutamente banali»), focalizzandosi sul le vittime, è poesia di corpi su cui infieriscono i chirurghi concentrazionari, per alternanza di tagli e di fading («senti più male se diminuisce / se diventa un male normale»; e pensiamo un po’ ai versi del la sezione ‘operatoria’ in Suor carmelitana), ma anche di truculenti resti ‘buferistici’ («lo sfrigolio delle lamette / prima dell’immersione / stridendogli l’occhio non bendato»). Sia pure, quella della poesia, la lingua più adatta per venire a patti con l’indicibile, il pregio del libro di Buffoni è di accostare sentimento e documento per approntare materiali di finzione che aiutino ad abbandonare la via della non-rappresentabilità del genocidio come una metafisica in sé, presto inservibile per l’esaurirsi della forza testimoniale di quel silenzio. Prestando orecchio al rumore della guerra, attutito dalle politiche mediatiche dei comandi (ad esempio per rimozione del Corpo del nemico ucciso, secondo il titolo del bel saggio di Giovanni De Luna, Torino, 2006, mentre in queste poesie i corpi sono disseppelliti con lo scrupolo del Coroner), ma parte essenziale della pace occidentale, Buffoni può mettere ormai il proprio lavoro sotto il segno del War Requiem di Britten (fonte esplicita del libro), e della spiccia dichiarazione di poetica dell’autore dei versi che vi furono musicati, Wilfrid Owen: «My subject is War».

 

Fabio Zinelli


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