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MÁRGARA RUSSOTTO, Viola d’amore e altri versi, a cura di Martha L. Canfield, Como, LietoColle, «Altre Terre» 2005, pp. 98, €13,00. 
 
 
 
 
Non è raro che un autore non possa parlare la propria lingua più autentica se non scrivendo e la letteratura nasce in parte sulla frontiera di questo doloroso scollamento. Questo denso libretto pone la questione della letteratura femminile insieme a quella più essenziale della via espressiva, mistero proprio della poesia al di là del genere dei pronomi. Certamente non è più sufficiente oggi valutare la letteratura femminile nell’ottica restrittiva del la rivendicazione sociale, cliché che la Russotto stessa ha analizzato nel saggio Tópicos de retórica femenina, poiché la rilevanza di risultati unita alla consapevolezza teorica è ormai tale da renderla parte considerevole della letteratura contemporanea. La questione è attentamente vagliata da Martha Canfield a partire dal dato oggettivo di un sentire che, posto a margine dalla storia, ha compiuto un’evoluzione secolare all’oscuro, priva di modelli e strumenti di espressione dissimilata nel quadro di una scrittura di maestri uomini (tema presente nella poesia Con Ungaretti). I riferimenti dell’introduzione al panorama dell’America Latina portano fino al frutto dell’esperienza dell’autrice e permettono di coglierne la particolarità anche in relazione ad aspetti biografici che rafforzano i temi dell’estraneità e dello sradicamento: trascorsa l’infanzia nella Sicilia d’origine, la Russotto emigra e si ambienta in Venezuela dove adotta la lingua e compie gli studi di Teoria della Letteratura e Lettere comparate che la porteranno poi in Brasile e oggi negli Stati Uniti, dove insegna. In questo contesto l’empatia con le «eresie» intellettuali di una grande donna del passato come Suor Juana Inés de la Cruz, fatta rivivere in un libro di poesie apocrife, non è diversa dal riconoscimento in un’arte del pensare per «eccedenze», nello scarto dell’atto creativo (non a caso ispirato dalla parola «traboccante» nell’italiano materno) rispetto alla grammatica e al senso comune (Port Royal). La scelta antologica è molto riuscita proprio nel seguire il filo conduttore del linguaggio come mondo nascente e forma tivo del sé, il termine di riferimento che evidenzia distanze e affinità con geografie e culture attraversate e la fruttuosa precarietà del confronto: proprio per la sua vitalità, questa lingua poetica in costante evoluzione si scontra egualmente con tradizioni sociali ataviche e con i lati ottusi del presente culturale. Il volume appare piuttosto un’unica opera di struttura compiuta che un’antologia, risultato dovuto anche alla capacità di aderenza della traduzione alle inflessioni idiomatiche e di carattere del testo. In una sorta di filologia della propria storia, dalla prima raccolta Scorie del viaggio (1979) agli inediti del 2004 il tema centrale resta la ricerca d’identità e di libertà, con un anelito alla composizione dei contrari rappresentato dal progressivo avvicinamento fra la lingua madre e quella adottiva: il titolo Viola d’amore (1986) diventa emblema della coincidenza mancante (così ben tradotta da Diana Battaggia sovrapponendo il fiore e lo strumento musicale nella bella copertina del libro), poi armonizzata in Epica minima. L’esercizio critico-comparativo lo è anche di vita e questa va di pari passo con la poesia (Esercizio di polifonia): è sempre la lettura delle cose infatti a cambiare le carte in tavola con un felice gioco di abilità, nell’intento impegnativo di rendere transitiva e dialogica la realtà solidificata nella retorica: in questo si rivela la finezza della scrittura della Russotto, la versalità che sa trarre dalla riserva linguistica adombrata nell’«argilla» di Eredità, resto di una distruzione e materia plasmabile che riaffiora dall’intimo, dove si genera il riflettere-agire che vive per «Irradiazione» nella parola (Ricerca della parola perfetta). Per questo in tante immagini folgoranti e audaci d’inventiva, come lo «scorpione dorato» raffigurante la morte e la vita presenti nello scrivere, la Russotto sa custodire un fondo di fresca schiettezza, una parola spoglia che esce dalla propria morte e dalla stessa distruzione dei libri, perpetrata in Un’altra biblioteca in rovine, come incapace di attenersi alla sola letteratura e alle sue immancabili finzioni per rivolgersi dall’esperienza personale al dialogo con l’altro. Dicendo femminile questa capacità di creare prospettiva e di suonare autentica della lingua inventata all’incrocio di più mondi non vogliamo generalizzare, poiché sarebbe far torto alla sua originalità. È vero però che essa raccoglie nelle sue pieghe un’esperienza tutta femminile nel risalire per via intellettuale all’enigma della propria origine e verificarne i punti morti e i varchi trascurati, rifare la strada che possa proporre con il senno e il dolore di poi un senso diverso, non unilatera le, né bellicoso ma conciliato con l’esistenza. Ecco che in luogo di feticci del potere sociale maschile (il patriarca o il dio irato) e di stereotipi del femminile, il deserto fattosi attorno prospetta un altro inizio e il dies irae della realtà contemporanea si presenta come un secondo diluvio (Immane diluvio) in cui, caduti tanti idoli comuni, resta la pura acqua del mare (Marina) che asseta e abbaglia e, parte delle due geografie dell’autrice, comprende le differenze ed esprime e genera libertà: «Al mare torneremo / continuamen te / perché ciò che divide / anche ricon giunge», così come tenta o propone il linguaggio in senso alto che questa poesia sceglie senza esitazioni.
 
Lucia Valori
 
 

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