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Recensioni

 

BERNARD LEWIS (a cura di), Ti amo di due amori - Le più belle poesie della tradizione araba, persiana, turca ed ebraica, traduzioni di Anna Linda Callow (arabo ed ebraico), Mario Casari (persiano), Roberta Denaro (turco) e Annalisa Merlino (dall’inglese dell’edizione originale), introduzione di Bernard Lewis, Donzelli Editore, Roma 2003, Collana Narrativa.

 

 

Ti amo di due amori,/ uno di passione, uno a Te dovuto: l’edizione italiana di Music of a Distant Drum [1] prende il titolo da questi versi di Rabi‘a al-‘Adawiyya, poetessa mistica vissuta a Bassora nel IX secolo. Ma il religioso non è che uno dei generi rappresentati in quest’antologia, che si propone come una breve storia della poesia «islamica» dal VII al XVIII secolo. Bernard Lewis, professore di Studi Mediorientali alla Princeton University, autorevole osservatore del mondo dell’Islam storico e politico («uno degli ultimi Orientalisti», secondo Edward Said), raccoglie un saggio significativo degli autori e del le scritture poetiche classiche e nel contempo più originali: componimenti di vanto tribale, d’elogio, d’invettiva, trovano posto accanto ad elegie, lamentazioni, liriche d’amore e d’eb brezza (mistica e non).

Nell’ampia e onnicomprensiva introduzione, Lewis illustra il suo tentativo di andare oltre le frontiere geografiche, culturali e linguistiche tra le singole tradizioni, individuando il parametro di fondamentale unità nell’autorità poetica della cultura dominante, arabo-islamica, dai generi e canoni ben definiti. La forte distanza tra i limiti temporali dell’antologia e la restrizione a 129 testi non neglige la rappresentazione delle singole componenti identitarie e delle voci poetiche più eterogenee. Poeti neri come Suhaym (m. 660) e Nusayb Ibn Rabah (m. 726), che infondono la fierezza della négritude nei versi e nei ritmi intensi e preziosi dello stile arabo più rigoroso, o l’albanese Yahya di Tashlica (m. 1575), che compone in turco un elogio alla sua stirpe. Il persiano Nezami (XII secolo) rielabora la storia del re sasanide Cosroe Parviz (m. 628) e dell’amata Shirin, riscrivendo (e rileggendo) l’immaginario dell’epica iranica alla luce della nuova sensibilità araba. È ben evidente, tuttavia, che quando un poeta ebreo dell’XI secolo, Shlomo Ibn Gabirol, usa nell’inneggiare a Dio la metafora di ‘rocca’, di ‘rifugio’ e di chiara la propria impotenza senza la grazia divina, il riferimento intertestuale ‘naturale’ è da istituire con le forme poetiche della tradizione ebraica, in questo caso con le invocazioni del Libro dei Salmi [2].
 L’assenza del testo a fronte penalizza, com’è ovvio, il lettore specializzato; la traduzione gode tuttavia di uno stile ‘naturale’, che ha il doppio pregio di una lingua semplice e attua le, senza artifici, e di un’efficace resa delle immagini e dei movimenti ritmici del testo – quasi una vittoria per lingue come l’arabo, in cui spesso il valore estetico è affidato alla complessità del periodo e ai preziosismi arcaizzanti del lessico. Gli interventi dei traduttori, nella prima parte del volume, con chiarezza e rigore illustrano le strategie, i criteri usati e le difficoltà della resa. È un caso raro e degno di nota, se tradurre è interpretare e il traduttore mette al servizio del testo una prospettiva co munque individuale, il background di formazione e l’orientamento personale e ‘storico’ su cui fonda il rapporto con il mondo.
Tradurre è in un altro senso tradurre (trasferire) l’alterità nei nostri mondi possibili: la poesia orientale ci parla di schiavi e cammelli, di occhi segnati dal kohl, di notti d’incenso e giardini odorosi. Ma il gioco è senza tempo nel campo comune del senso poetico e nelle nuove strade che apre allo sguardo: così per Ibn al-‘Arabi (1165-1240) «l’amore siede come un sultano» nell’anima, per Ibn Sahl al-Andalusi (1212-1251) i rami sono «la schiera di lance», le foglie «le bandiere spiegate» della primavera, mentre il turco Seyh Galib (1757-1799) ha sul petto, incise dall’amore divino, «ferite come tulipani». E, in giorni in cui all’affermazione dell’alterità si attribuisce la carica polemica dello ‘scontro delle civiltà’, della chiusura nell’integralismo e quindi della distanza incolmabile, vale la pena leggere la dichiarazione di tolleranza di un autore anonimo: «[il mio cuore è] un tempio di idoli, una Ka‘ba per il pellegrino,/ le tavole della Torah, il sacro Libro del Corano. / Solo l’amore è la mia reli gione, e in qualunque modo / Si voltino i suoi cavalli, quella è la mia fede e il mio credo».
 
 Fulvia Di Luca
 
NOTE
 
1 Princeton University Press, Princeton e Woodstock 2001.
2 Il legame con la tradizione biblica non è solo tematico-contenutistico ma investe anche l’andamento strofico: «All’alba ti cerco / mia rocca e mio rifugio,/ mattina e sera prego / al tuo cospetto./ Mi fermo sgomento / dinanzi alla tua gloria [...] perciò ti loderò / finché sarà in me anima divina!, cfr. Salmo 62 (63), 1-5: O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco [...] Così nel santuario ti ho cercato,/ per contemplare la tua potenza e la tua gloria. [...] Così ti benedirò finché io viva, nel tuo nome alzerò le mie mani». 

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Il saluto del Direttore Francesco Stella

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11 settembre 2023
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8 ottobre 2021
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28 maggio 2021
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30 aprile 2020
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