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ANAMORFOSI E TROMPE-L’ŒIL

UN’INTRODUZIONE ALLA POESIA DI MARY JO SALTER

di Mariacristina Natalia Bertoli

 

Sentiti ringraziamenti alla Sig.ra Salter per aver

permesso – grazie alla sua instancabile collaborazione –

la realizzazione di questo articolo.

 

In occasione della recente pubblicazione dell’antologia poetica di Mary Jo Salter, A Phone Call to the Future (New York: Alfred A. Knopf, 2008, recensito in «Semicerchio» n. XXXIX), presentiamo un florilegio di sei poesie esemplificative dello stile di questa autrice americana, finora tradotta solo episodicamente in riviste ed antologie[1].

La carriera letteraria di Mary Jo Salter comincia dopo gli studi ad Harvard (1976) e a Cambridge (1978), all’epoca del lavoro come editore presso la celebre rivista letteraria bostoniana «The Atlantic Monthly». È proprio grazie a questo ruolo che la giovane Salter entra in contatto con Amy Clampitt, che – pur avendo superato da tempo le soglie della mezza età – a quell’epoca si affaccia al mondo letterario inviando le proprie poesie a riviste come l’«Atlantic». Dall’ammirazione di Salter per alcune delle sue opere nasce uno scambio epistolare che si trasforma ben presto in un’amicizia che durerà per tutta la vita della Clampitt (stroncata da un tumore nel 1994) e che influenzerà la produzione poetica di entrambe[2].

Influenze e somiglianze reciproche sembrano trovare una radice comune nella produzione di quella che – nell’immaginario collettivo americano – è probabilmente la poetessa novecentesca per antonomasia, ovvero Elizabeth Bishop. Non si tratta di un caso fortuito, visto che Salter aveva avuto modo di conoscere personalmente Bishop ai tempi di Harvard, dove era stata una sua studentessa. Tuttavia, l’influenza di Bishop sulla poesia americana contemporanea si estende su un raggio ben più ampio di quello coperto dalle sue relazioni personali. Il suo stile, infatti – caratterizzato dall’uso di un sermo humilis inteso a descrivere elementi della quotidianità concreta fino ai dettagli apparentemente più insignificanti – da una parte eredita un penchant per l’iperrealismo inaugurato già da Marianne Moore[3]; dall’altra sviluppa questa tendenza facendole raggiungere il suo apice[4] Naturale, dunque, che molti autori della generazione successiva abbiano guardato a lei (più o meno volontariamente) come ad un modello. E questa ammirazione per la poetessa del piovanello che, come uno «student of Blake», ignora il mare che gli romba accanto per contemplare tutto il mondo nei granelli di sabbia tra le sue zampe, si riverbera in poesie come Beach Glass di Clampitt (in The Kingfisher, 1983) – in cui si afferma che «for the ocean, nothing / is beneath consideration» – e A Case of Netsuke di Salter (in Unfinished Painting, 1989).

In questo testo un oggetto minuscolo ed apparentemente insignificante come un netsuke (un ninnolo usato un tempo in Giappone per assicurare le allacciature del kimono) non solo appare «grander than Rodin’s Balzac», ma assurge persino a mezzo di rivelazione dello scopo ultimo dell’arte. Il microscopio dell’osservazione poetica, dunque, si rivela essere non uno strumento di osservazione oggettivo, ma piuttosto una lente deformante che restituisce immagini anamorfiche dalle proporzioni distorte. È pertanto in una poesia come A Case of Netsuke che la tendenza iperrealista converge con un’altra corrente tipica della poesia americana, ovvero quella playfulness che permea la produzione di poeti quali Wallace Stevens e James Merrill[5]. Tale (apparentemente paradossale) miscela di realismo ed illusionismo si riscontra in numerosi autori americani[6], ma nella poesia di Salter essa sembra peculiarmente funzionale ad indagare il complesso rapporto tra il reale e la sua rappresentazione fittizia e soggettiva all’interno dell’opera d’arte. Le poesie di Mary Jo Salter sono dunque spesso autoreferenziali, e – nell’auto-riflettersi come specchi – manifestano apertamente il proprio carattere di rappresentazione.

Un esempio di questo gioco di specchi è costituito dalla poesia Trompe l’œil (in Open Shutters, 2003), nella quale Salter descrive i caratteristici trompe-l’œil che adornano le case di Bogliasco, nel Genovese[7]. Come è noto, il trompe-l’œil è un’immagine che mira a creare un’illusione ottica; in questa poesia, l’osservazione dell’illusione creata dalle finte ante aperte delle case di Bogliasco innesca un complicato meccanismo di parallelismi, metafore e paragoni in cui risiede il nocciolo stesso del testo, ingannevole al pari dell’oggetto che descrive. Anche la poesia – proprio come i trompe-l’œil di Bogliasco – si rivela una rappresentazione fittizia della realtà: di qui il parallelo tra il finto bucato steso ad asciugare al sole e le parole appese al verso (line in inglese, proprio come il filo per stendere) della poesia stessa. Come nella rappresentazione iconica realtà e finzione si mescolano per creare l’inganno, così anche in quella linguistica della poesia le lettere sono altrettanto trompeuses, come nel caso della seconda l di l’œil, che «only looks like an l, and is silent». Ecco dunque che, nel rivelare la menzogna dell’immagine, l’inganno della poesia smaschera la propria natura fittizia attraverso l’artificio dell’autoreferenzialità.

Un simile meccanismo opera anche in Costanza Bonarelli (in A Phone Call to the Future), ekphrasis di quel celebre ritratto marmoreo dell’amante di Bernini che è da molti considerato come l’epitome dell’arte barocca. Salter trae ispirazione per questa poesia da una leggenda secondo la quale Bernini avrebbe punito l’infedeltà della sua musa-amante facendola sfregiare in volto; ne risulta un testo in cui si denuncia la discrepanza tra la realtà imperfetta e la sua rappresentazione idealizzata. È infatti la confusione tra queste due dimensioni che scatena la tragedia, perché – secondo Salter – nella mente dello scultore la Costanza in carne ed ossa e quella in marmo sono indissolubilmente connesse in una relazione di reciproca necessità, rappresentando rispettivamente il significato letterale e quello figurato di uno stesso stesso paradigma di sensualità e fedeltà. Tuttavia, la realtà è ben diversa, in quanto la Costanza marmorea e quella vivente sono i due significati del pun più comune nella lingua inglese, quello sulla parola lie (‘giacere’ e ‘mentire’). Infatti, se da una parte la sensualità esplicita della Costanza di marmo è resa fedele dall’essere «true to life», dall’altra la vera Costanza è «untrue», e pertanto la sua sensualità è un lying (‘giacere’) che implica sempre una lie (‘menzogna’). Il contrasto tra l’amante di marmo – oggetto passivo su cui si esercita il potere creativo di Bernini – e la donna in carne ed ossa – soggetto attivo delle proprie azioni e decisioni – è reso a livello linguistico attraverso l’opposizione tra il participio passato «designed» riferito alla statua, ed il participio presente dello stesso verbo riferito a Costanza, che viene definita «a designing woman». La dicotomia tra la donna agente e la statua paziente si dipana in una lunga serie di opposizioni (parted-parting, undone-to-be-done-to, in-constant-Costanza, true-to-life-untrue, coiled-loose, singular ideal-two-faced mistress) che creano l’effetto di una serpentina. In questo modo, la poesia risulta essere meta-artistica non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche di quello della struttura, dal momento che vi si descrive la «quintessence / of the sinuous baroque» attraverso quello stesso accorgimento stilistico all’origine della sinuosità Barocca, ovvero la linea serpentina.

Un analogo artificio caratterizza anche Young Girl Peeling Apples (in Sunday Skaters, 1994), calligramma ecfrastico ispirato ad una tela dell’olandese Nicolaes Maes che Salter considera come «the perfect pun»[8]. Come suggerisce il titolo, il dipinto raffigura una ragazza che sbuccia mele e che – secondo l’interpretazione di Salter – è al tempo stesso «the apple of the painter’s eye» le cui rotondità ed il colorito vivace la rendono simile essa stessa ad una mela. Tuttavia, oltre ad essere trasfigurata dagli occhi innamorati dell’artista in una ‘mela del peccato’, la ragazza assurge anche a metafora del mondo stesso, che – nel suo incessante flusso di cambiamento e trasformazione – ruotando si avvolge in una spirale rappresentata dalla buccia di mela che ciondola dalla sua mano. Così, tutto il testo è modellato secondo l’andatura di questa spirale sia a livello lessicale (grazie alla contrapposizione di coppie antonimiche quali tightly-loose, red-white, fills-falls empty, knife-life, making while unmaking) che a livello prettamente visivo, grazie alla disposizione versastica ispirata al genere del calligramma.

Non è certo un caso che la fonte d’ispirazione di questa poesia sia un dipinto che Salter considera come il pun perfetto, dal momento che la sua produzione è caratterizzata proprio dalla massiccia presenza di giochi di parole. Tale predilezione non è una marca distintiva di Salter soltanto, ma costituisce una tendenza che permea l’intera poesia americana moderna e contemporanea, decisamente influenzata dallo stile di Emily Dickinson. La ‘reclusa di Amherst’, – pur essendo vissuta tra il 1830 ed il 1886 – pubblicò soltanto una decina di poesie nel corso della sua vita, e la sua fama non esplose che agli inizi del Novecento, quando gli autori modernisti riconobbero in lei un’inconsapevole antesignana[9]. Da allora l’influenza di Dickinson non ha mai cessato di esercitarsi – in maniera più o meno esplicita – sulla produzione dei suoi connazionali (tra gli altri: Auden, Frost, Wilbur e Roethke). Tuttavia, questa influenza è particolarmente evidente nella poesia di Salter, che per più di venti anni – dal 1984 al 2007, quando si è trasferita a Baltimora per insegnare scrittura creativa alla Johns Hopkins University – si è dedicata allo studio e all’insegnamento della poesia dickinsoniana (insieme a quella di altri autori) presso il Mount Holyoke College. Il modello dickinsoniano si riverbera all’interno degli scritti di Salter non solo grazie alla massiccia presenza di puns, ma anche e soprattutto attraverso il loro carattere di enigmatica ambiguità, che sovente li rende simili ad indovinelli. In The Riddles of Emily Dickinson, Anthony Hecht sostiene che il potere espressivo di una poesia come The Soul selects her own Society risieda proprio nella presenza di un «suppressed riddle, an unstated but implied parallel»[10]. Ebbene, un meccanismo analogo sembra sottendere molti tra i testi di Salter come, per esempio, Aurora Borealis (in A Phone Call to the Future), in cui tanto il titolo (che sembra preannunciare un testo descrittivo) quanto il testo stesso (che non soddisfa le aspettative suggerite dal titolo) risultano ingannevoli, costituendo così una sorta di indovinello. Per definizione, infatti, un indovinello è una domanda deliberatamente ambigua destinata ad essere disambiguata da una risposta inaspettata[11]; allo stesso modo, Aurora Borealis è una lunga domanda la cui struttura circolare ricalca quella degli indovinelli. Inoltre – proprio come in un indovinello – la risposta è sorprendente, perché si afferma che ciò che si cerca nella fioca ed incerta luce di un’aurora boreale è l’aurora boreale stessa; si crea così ancora una volta quell’autoreferenziale gioco di specchi caratteristico della produzione di Salter. Analogamente, anche il calligramma Poetry Slalom (in A Phone Call to the Future) si pone all’insegna dell’ambiguità dickinsoniana. Il testo, infatti, presenta lo slalom come una metafora della composizione poetica; tale parallelismo viene esplicitato attraverso l’uso ambivalente dell’espressione «Olympian skill», la quale si riferisce sia allo sci come disciplina olimpica (e dunque all’abilità dello sciatore di schivare i montanti) che all’abilità divina (e dunque olimpica con riferimento agli dei dell’Olimpo) del poeta di superare l’ostacolo linguistico del banale, dell’ovvio, ovvero della «thing / to be evaded».

Questo componimento esemplifica inoltre la musicalità propria della poesia di Salter, che si realizza sia attraverso variegate combinazioni metriche che attraverso ripetizioni fonetiche quali la rima (thrill, skill, downhill, trill), l’assonanza e l’allitterazione (less, slalom, slam, thrill, Olympian, skill, etc.)[12]. Gli stessi accorgimenti fonetici caratterizzano anche Wreckage, una poesia che, nel descrivere le sensazioni semiconscie del risveglio, riesce a ricrearle concretamente attraverso l’uso di una linguaggio evocativo ed eminentemente musicale[13], come appare evidente in questi versi:

 

I realize, as I rise from the billowing

sail of the pillow, and sink again,

that I myself am wreckage

 

from the ship that smashed miraculously

the instant it broke

consciousness; am driftwood

toyed with at the edge of the tide,

a floating, disembodied arm

left to record the dream

 

it does not remember […] (vv. 4-13)

 

Il metro semi-regolare qui utilizzato è il risultato dell’ibridazione tra un trimetro giambico irregolare ed il verso libero vero e proprio; tale scelta stilistica è preposta a veicolare a livello prosodico le sensazioni confuse del risveglio, inteso come uno stato di semi-coscienza in cui la mente oscilla tra il lucido raziocinio e l’oblio onirico. Una tale coscienza vacillante predispone la mente all’intuizione immediata delle somiglianze tra i diversi oggetti del reale, istantaneamente tradotte in metafore. Così, il letto diventa una nave «that smashed miraculously / the instant it broke / consciousness», mentre l’io lirico – naufrago dal mare dei sogni – si trasforma in «driftwood toyed with at the edge of the tide». La logica si allenta anche nel linguaggio, che stempera il significato fino a ridurlo a puro suono, a musica che riproduce lo sciabordio delle onde attraverso la ripetizione martellante di sibilanti (realize, rise, sail, sink, consciousness, ship, smashed), liquide (billowing, pillow, miraculously) e dentali («driftwood toyed with at the edge of the tide»).

Wreckage, tuttavia, non è solo un peana a quella semi-coscienza rivelatrice delle connessioni segrete tra gli elementi del reale; è anche una poesia descrittiva in cui si ritrovano echi e suggestioni di Robert Frost, i cui componimenti ispirati dai paesaggi del New England sono stati definiti da Pound «modern georgics»[14]. In particolare, l’immagine del caffè trasfigurato in un ruscello che «smells like thought and is drinkable» è memore dell’excipit di Directive (in Steeple Bush, 1947)[15], e ciò testimonia la presenza di una vena descrittivo-naturalistica che permea una parte della produzione di Salter. Tra le poesie che manifestano più palesemente tale tendenza si annovera The Twelfth Year (in Sunday Skaters), un testo in cui il mondo della natura si trasfigura in specchio del microcosmo dell’anima dell’uomo, secondo un procedimento tipico della poesia frostiana. L’autunno diventa dunque la metafora della crisi coniugale descritta nella poesia, in cui l’amore sembra ormai appassito e avvizzito come le foglie autunnali; quest’immagine richiama alla mente la frostiana Reluctance (A Boy’s Will, 1913), in cui la riluttanza ad accettare la caducità delle cose si riflette nell’immagine malinconica delle foglie autunnali[16].

Chiudendo questa breve parentesi sulla tenue vena naturalistica delle poesie di Salter, torno alla questione della musicalità, che è da considerarsi come uno dei fattori distintivi dello stile di questa autrice. In una recensione scritta nel 2006, Salter elogia proprio la musicalità come uno dei tanti pregi della poesia di Robert Lowell, a proposito della quale scrive:

 

At the end of his career, in the poems of Day by Day, Lowell resumed something of the middle style of Life Studies and of For the Union Dead, a style that had mined his peerless gift for clustered assonances and consonances that weren’t exactly rhyme, and sure, cadenced rhythms that weren’t exactly meter. It was Lowell’s much-imitated, but only partly imitable ear for a sort of High Free Verse that changed the face of twentieth century poetry more than the ‘confessionalism’ that he purportedly embraced, and actually rejected. Almost any two lines from my own favorite of the life studies, My Last Afternoon with Uncle Devereux Winslow, will give a sense of Lowell’s aural gift: «…Aunt Sarah, risen like the phoenix / from her bed of troublesome snacks and Tauchnitz classics». One can hear the crackling of fire – or of cracker-crumbs on the sheets. But the pleasure here isn’t merely onomatopoetic. The repeated, recombined sounds ramify like verb conjugations in a foreign language we want to learn: ‘troublesome’ to ‘Tauchnitz’; ‘phoenix’ to ‘snacks’ to ‘classics’. And in the midst of elegy, the off-rhyming of high and low worlds of reference (‘phoenix’ and ‘snacks’) also relieves us with a giddy humor. Lowell could be terribly funny[17].

 

Anche la poesia di Salter appare dotata di quella stessa musicalità elogiata nel suo predecessore. Ne è esempio Shisendo (in Henry Purcell in Japan, 1985), descrizione poetica dell’atmosfera meditativa che si respira nell’omonimo eremo di Kyoto, fondato nel 1641 dal poeta Ishikawa Jozan. Poiché Jozan era uno studioso di poesia cinese, l’eremo fu dedicato a 36 tra i poeti più famosi della storia letteraria cinese e venne destinato alla meditazione ed alla scrittura:

 

But for us

It’s enough to know each letter’s packed with secrets,

like the shi of Shisendo, or ‘poetry’:

composed of two linked characters – a ‘tongue’

jangling like the clapper on the bell

of ‘temple’ – it rings but half a change

on the word for ‘word’ itself: ‘tongue’ joined to ‘leaf’.

No accident, perhaps, that the words

drifting above the poets’ head may call

up silently the leaves that you see falling

still through the pavilion’s doorway. (vv. 112-122)

 

In questi versi Salter riesce a tracciare parallelismi tra il significante ed il significato delle parole giapponesi (così come tra la forma degli ideogrammi che compongono le poesie appese nella Sala dei Poeti sotto forma di cartigli e le foglie caduche del giardino) attraverso l’uso sia di analogie che dei puri suoni. Per esempio, il ritmo cadenzato creato dall’allitterazione in l nel verso «jangling like the clapper on the bell» rende concretamente udibile il suono della campana descritta, rinforzando in tal modo la connessione tra la forma dell’ideogramma che rappresenta la parola ‘tempio’ e quella delle campane, oggetto-simbolo di questo luogo di culto. Inoltre, la ricorrenza della s nei versi 119-122 crea un doppio effetto: da una parte, imita onomatopeicamente il fruscio delle foglie autunnali che cadono nel giardino del tempio; dall’altra, suggerisce che questo fruscio abbia lo stesso suono della poesia giapponese, dal momento che la frequenza di suffissi come -san, -sai o -masu nella lingua nipponica ingenera nell’ascoltatore straniero la sensazione di una cantilena basata su questo suono. Infine, la rimalmezzo «it rings but half a change / on the word for ‘word’itself: ‘tongue’joined to ‘leaf’» insiste ancora una volta sia visivamente che auditivamente sullo stretto legame tra la l’ideogramma come forma di rappresentazione e la cosa rappresentata[18].

Qui – così come in molte altre poesie di Salter che, per ragioni di spazio, non possono essere trattate in questa sede – l’ispirazione lowelliana si traduce non solo a livello musicale, ma anche sul piano dei contenuti autobiografici. Il confessionalismo[19] di Lowell trapela infatti in numerose poesie spiccatamente autobiografiche, come quelle dedicate al marito – il poeta e romanziere Brad Leithauser, sposato nel 1980 (Love Poem for a Poet, Aubade for Brad, The Twelfth Year, Video Blues – e alle figlie Emily e Hilary (Expectancy, I Lose You for an Instant, Emily Wants to Play, Lullaby for a Daughter, Hilary in her Glory, The Age of Reason, Marco Polo, Snowed-on Snowman e For Emily at Fifteen). L’intera produzione di Salter può essere letta in prospettiva autobiografica come una sorta di percorso di vita ed un itinerario di viaggio, dal momento che quasi ogni volume trova una fonte d’ispirazione nei viaggi e nelle lunghe permanenze all’estero dell’autrice. Così, Henry Purcell in Japan può essere considerato come una summa dei tre anni (1980-1983) in cui Salter e Leithauser vissero a Kyoto; Sunday Skaters appare decisamente impregnato dalle suggestioni della lunga permanenza a Reykjavik nel 1989, mentre A Kiss in Space (1999) racchiude numerosi ricordi dei soggiorni a Parigi nel 1992-94 e nel 1996-97[20].

Nonostante – come si è visto – la poesia di Salter sia caratterizzata dalla compresenza di ispirazioni e tendenze quantomai variegate, molti critici si sono limitati a iscrivere la sua produzione all’interno del cosiddetto New Formalism[21]. Si tratta tuttavia di una definizione quanto meno discutibile, dal momento che non designa né una scuola poetica né una un qualche tratto distintivo condiviso da una cerchia di poeti, ma si focalizza piuttosto sulla generica tendenza verso una poesia di tipo formale (ovvero, non versoliberista). Oltre a peccare di genericità, questa etichetta porta con sé una serie di connotazioni negative, in quanto fu coniata nel 1985 da Ariel Dawson per denunciare il ritorno alla poesia formale da parte di alcuni poeti dell’epoca come uno strumento destinato a veicolare ideologie conservatrici e (quel che è peggio) un materialismo di stampo «yuppie»[22]. In realtà, il rinnovato interesse verso l’uso di forme tradizionali apparso negli anni Ottanta non era esattamente un ‘ritorno’ alla poesia formale, ma piuttosto la naturale conseguenza di una tendenza sviluppatasi a partire dalla prima metà del ’900, quando alcuni poeti si rifiutarono di adottare il verso libero dei padri del Modernismo Eliot e Pound. Questi poeti – tra i quali si annoverano nomi del calibro di John Crowe Ransom, Allen Tate, Richard Wilbur e Anthony Hecht – sono stati spesso associati al New Criticism, una scuola di critici impegnati ad enfatizzare (in opposizione alla critica cosiddetta ‘biografica’) il carattere autotelico dell’opera d’arte, il cui valore risiederebbe unicamente nelle sue qualità tecniche e formali, e sarebbe pertanto indipendente da qualsiasi fattore esterno[23]. È significativo il fatto che due tra gli autori legati a questa corrente, Richard Wilbur ed Anthony Hecht, siano stati in rapporti di amicizia con Salter[24], che – come loro – rifiuta la dicitura di ‘neoformalista’ per rivendicare la necessità del legame tra forma e contenuto in poesia:

 

I’m fascinated by the messages, you could even say instructions, that different languages seem to offer poets. Take some of the most common rhymes in English: night-bright (which suggests contrast in meaning); light-bright (which is nearly synonymous); or grief-relief (which suggests a hoped-for sequence of feelings), etc. Those particular conjunctions of sound and meaning are inherent in the English of our time, and depending on the sort of poem you’re hoping to write, you’re either going to aim for or away from them. But you can’t pretend they’re not there. Not only that: your goals are different if you’re writing with French words, and within French grammar and culture. To the extent that forms live ‘naturally’ in language, they only live within a particular language in a very specific way. Forms come out of such distinctions.[25]

 

Se qui il legame tra questi due poeti e Salter appare evidente, è invece impossibile citare tutti gli altri autori che possono aver influenzato la sua poetica. Come afferma Dickinson, infatti, «Art is a House that tries to be Haunted»[26]; la matassa dei fili che compongono il tessuto linguistico e culturale di un poeta risulta inestricabile. A maggior ragione fra gli autori di uno stesso ambiente non si può determinare fino a che punto le somiglianze siano dovute a prospettive comuni, a influenze reciproche, oppure a quella criptomnesia che, in fondo, sottende la rielaborazione del patrimonio culturale all’interno dell’opera di qualsiasi autore. Così, è impossibile stabilire l’influenza che ogni singolo autore tra i cosiddetti ‘Amherst poets’ (da Brad Leithauser a Richard Wilbur, da Joseph Langland a David Hall, da Agha Shahid Ali[27] a David Sofield, etc.) può aver esercitato su Salter e viceversa. Compito del critico e del lettore non è dunque, in questo caso, un’esasperata ricerca delle fonti, ma piuttosto una disamina del modo peculiare ed innovativo in cui l’autore è riuscito a rielaborare il patrimonio culturale di cui è erede, creando così – per dirla con Eliot – « an awareness of the past in a way and to an extent which the past’s awareness of itself cannot show»[28].

 

 

 

A CASE OF NETSUKE

(Unfinished Painting, 1989)

 

Wise, size of a peachpit, nut-

brown, wizened, intricate,

 the Badger Dressed in Lotus Leaf

stands tall in his sheet: as grand

or grander than Rodin’s Balzac, and

 

even smacks of evil, as

he has the full, unruffled gaze

 of the Wolf under Grandmother’s nightgown.

The better to draw you close, my dear,

To a museum-case of obscure

 

Japanese bibelots. Each

a tangible anecdote, they reach

 first to us from English tags:

Starving Dog, Herdboy with Flute,

Dutchman with Moneybag, or Stoat

 

on Pumpkin, Bean Pods, Pile of Fish…

As if that wordless, brimming wish

 to get everything said before

we’re dead might be fulfilled at last,

they speak to us of a lost

 

life we may have lived once, though

it’s daunting we should think so –

 for what could we have had in common

with Seated Demon or Drunken Sprite?

And by what twist does Thwarted Rat-

 

Catcher call up the aim of Art?

Yet that look of his, of being thwarted,

 as he crouches over the empty cage

and, too, late, lifts his club to thwack

the rat scaling his own back,

 

is intimately familiar – like

the downturned, howling mask of tragic

 theater. If somehow the play

of his features also shows he’s half-

laughing, it may be at himself:

 

grinning, with a shrunken skull’s

grim triumph. Or like a set of false

 teeth that’s doubled over in

age-yellowed ivory,

he’s detached from his unsavoury

 

and blunt stabs at success. The gift,

he chides himself, is to be swift

 and tireless; to hit on a connection –

not just pummel the rat but tell

the whole tale in a nutshell.

 

 

 

 

 

 

 

 

YOUNG GIRL PEELING APPLES

(Nicolaes Maes)

(Sunday Skaters, 1994)

 

                  It’s all

            an elaborate pun:

the red peel of ribbon

       twisted tightly about the bun

            at the crown of her apple-

 

                round head;

           the ribbon coming loose in the real

apple-peel she allows to dangle

          from her lifted hand; the table

              on which a basket of red

 

                apples

           waits to be turned into more

white-fleshed apples in a water-

         filled pail on the floor;

              her apron that fills and falls

 

               empty,

         a lapful of apples piling on

like the apron itself, the napkin,

       the hems of her skirts – each a skin

          layered over her heart, just as he

 

             who has

      painted her at her knife

paints the brush that puts life

        in her, apple of his eye: if

           there’s anything on earth but this

 

            unbroken

     concentration, this spiral

of making while unmaking while

       the world goes round, neither the girl

            nor he has yet looked up, or spoken.

 

 

 

WRECKAGE

(A Kiss in Space, 1999)

 

Torn from the moorings of sleep

one morning, grasping not even a scrap

of whatever I was dreaming,

 

I realize, as I rise from the billowing

sail of the pillow, and sink again,

that I myself am wreckage

 

from the ship that smashed miraculously

the instant it broke

consciousness; am driftwood

 

toyed with at the edge of the tide,

a floating, disembodied arm

left to record the dream

 

it does not remember, while all the other

passengers heavily go down

to an oblivion where no

 

plumb line of a memory

of having had a memory

can reach. I alone on the beach

 

am real, and stand at last to fill

the funnel of the coffee filter

with spooned black heaps of sand,

 

watch as the hourglass spills the grains

of millions of associations

drop by drop in the O

 

of sentience that swells to a runnel

smells like thought and is drinkable

and clarifies the thinking:

 

so early it’s already too late

to say I never wanted to cross

into a wholly rational state,

 

to upend the coffee grounds like a sand

castle into the sink and rise

to the occasion of day, another

 

impermanent construction washed

down the drain; didn’t want to dissolve

in the shower now these unseen cells

 

in the foam – little parts of the selves

I can’t be part of anymore;

didn’t want to walk away dry.

 

 

TROMPE L’ŒIL

(Open Shutters, 2003)

 

All over Genoa

you see them: windows with open shutters.

Then the illusion shatters.

 

But that’s not true. You knew

the shutters were merely painted on.

You knew it time and again.

 

The claim of the painted shutter

that it ever shuts the eye

of the window is an open lie.

 

You find its shadow-latches strike

the wall at a single angle,

like the stuck hands of a clock.

 

Who needs to be correct

more often than once a day?

Who needs real shadow more than play?

 

Inside the house, an endless

supply of clothes to wash.

On an outer wall it’s fresh

 

paint hung out to dry –

shirttails flapping on a frieze

unruffled by any breeze,

 

like the words pinned to this line.

And the foreign word is a lie:

that second l in l’œil

 

which only looks like an l, and is silent.

 

 

COSTANZA BONARELLI

(A Phone Call to the Future, 2008)

 

A bust that looks just-kissed,

from the blind intensity

of her gaze to the somewhat swollen

parted lips, to the parting,

above her rumpled chemise,

of two soft breasts his hands

lifted from stone, Bernini’s

 

lover was designed

to please – to have and hold

in his own eyes as forever

undone and to-be-done-to,

a melting readiness.

Oh the inconstant Costanza,

true-to-life but untrue! –

 

whose drawing power, coiled

as the heavy braid he pulled

behind her head, yet loose

as the involving tendrils

that tumbled to one side,

originated from

within a designing woman.

 

If either alone suffices

(love or art, that is)

to lead a man to believe

whole days can be best spent

lost in a woman’s hair,

how could he not have wept

at the upswept and downfallen

 

tresses of one who was

both singular ideal –

a thing he’d hewn from rock

into his own landmark

in portraiture, quintessence

of the sinuous baroque –

and all too two-faced mistress?

 

That she was capable

of deception – this was fine,

one guesses: a frisson

 

at first, that she (the wife

of his apprentice) gave

in private no resistance

to a greater man’s assistance.

 

But now the great man’s brother?

His brother? When the rumor

reached him, Bernini sent

a razor-bearing servant

to do what must be done.

He wasn’t going to kill her.

No, but he’d leave a scar,

 

A sort of Kilroy was here;

He’d affix his stamp, he’d fix her

once for all, for good –

indeed, he’d have his thug

underling slash her face,

her living flesh, with a tool

not so unlike the one

 

that he alone, the master,

had been skilled enough to wield,

watching the marble yield

to each sweet, painstaking stroke

of chisel against cheek

until, so real, she fairly

cried out for more.

 

 

POETRY SLALOM

(A Phone Call to the Future, 2008)

 

Much less

the slam

than the slalom

gives me a thrill:

that solemn, no-fuss

Olympian skill

in skirting flag after flag

of the bloody obvious;

the fractional

lag,

while speeding downhill,

at the key

moment,

in a sort of whole-

body trill:

the note repeated,

but elaborated,

more touching and more

elevated

for seeming the thing

to be evaded.

UNO SCRIGNO DI NETSUKE

 

 

Avveduto, minuto quanto un nocciolo,

marrone, raggrinzito, intricato,

 il Tasso in una foglia di loto

s’erge nel suo lenzuolo: imponente

quanto (o più?) il Balzac di Rodin,

 

e ha persino un’aria malvagia,

lo sguardo sazio ed imperturbato

 del lupo con la cuffia della nonna.

«Su, fatti più vicina, mia piccina»

a questo scrigno-museo di oscuri

 

ninnoli giapponesi. Ciascuno un

aneddoto tangibile, giungono

 a noi tramite dei nomi tradotti:

Cane famelico e Pastorello

con flauto, Olandese con borsello,

 

Baccelli di piselli, Ermellino

su zucca, Pesci impilati… Come

 se quell’augurio muto e traboccante

di possedere quanto detto prima

di morire si possa avverare,

 

ci parlano d’una vita perduta,

un tempo forse vissuta, sebbene

 tale idea sia inquietante:

cosa avremmo avuto in comune

con Demone seduto o Folletto

 

brillo? E per quale stravolgimento

l’ Acchiappatopi frustrato rievoca

 l’obiettivo dell’Arte? Tuttavia

quel suo sguardo frustrato allorché

si china sulla gabbia vuota per

 

sollevar troppo tardi la sua mazza

e cercar di colpire e schiacciare

 quel topo che gli sfugge sulla schiena,

è assai familiare – sembra la

maschera imbronciata e urlante

 

della tragedia antica. Se in

qualche modo il dramma dei suoi tratti

 svela che egli sta anche ridacchiando,

potrebbe darsi che rida di sé:

con un sogghigno di truce trionfo

 

da teschio ormai tutto rinsecchito

con i denti d’avorio ingiallito

 è distaccato da quei disgustosi

affondi che non hanno mai successo.

La cosa più importante, borbotta,

 

è esser lesti, pronti alla botta;

colpir nel segno con le associazioni –

 non tanto mettere il topo all’angolo,

ma della storia raccontare il nocciolo.

 

 

 

RAGAZZA CHE SBUCCIA MELE

(Nicolaes Maes)

 

 

                 La tela

           è una serie di bisticci:

il nastro è una buccia di mela

     che forma nei capelli stretti intrecci

          a coronarle la testa da mela

 

                 rotonda;

          il nastro si allenta nella

buccia di mela che ciondola dalla

     sua mano alzata; sulla tavola

          c’è un paniere del quale ella monda

 

              le mele rosse

         da trasformare in altre

candide mele da metter nel secchio

      ricolmo d’acqua giù per terra, mentre

           grava il suo grembiule, poi con scosse

 

             lo svuota,

       ammucchiandone manciate

proprio come grembiule, tovagliolo,

      ed orli delle gonne sono un cumulo

          di strati che avvolgono il suo cuore,

 

             come colui

   che l’ha dipinta al coltello

dipinge quel medesimo pennello

     da cui nasce tal mela del peccato:

         se c’è qualcosa al mondo all’infuori

 

        di questo continuato

   raccoglimento, questa spirale

che crea e distrugge mentre il mondo

    gira in tondo, né lui né lei ancora

       ha alzato lo sguardo o parlato.

 

 

 

ROTTAMI

 

 

Strappata dagli ormeggi del sonno,

una mattina, senza afferrare

neppure un frammento del mio sogno,

 

capisco, issandomi dalla vela

dell’ondoso cuscino e di nuovo

affondando, che son io i rottami

 

della nave infranta per miracolo

nell’istante stesso in cui irruppe

la coscienza; son relitti di legno,

 

sciabordati da sciamanti maree;

un braccio galleggiante, incorporeo,

risparmiato per tramandar quel sogno

 

che non può ricordare, mentre gli altri

passeggeri s’inabissano a peso morto

in un oblio nel quale nessun

 

filo a piombo del ricordo

di aver mai avuto dei ricordi

può giungere. Io sola sulla spiaggia

 

sono vera, e infine mi alzo

per colmar con cucchiai di sabbia nera

l’imbuto del filtro per il caffè

 

guardo la clessidra stillar granelli

di milioni di associazioni

uno ad uno, piano piano, nell’O

 

della ricettività da cui sgorga

un ruscello dall’aroma di pensiero

che, bevuto, schiarisce le idee:

 

così presto è già troppo tardi per dire

che non ho mai voluto varcar la soglia

di uno stato del tutto cosciente,

 

rovesciar nel lavello come sabbia

di un castello il fondo di caffé

ed alzarmi all’altezza del giorno,

 

un’altra effimera costruzione

sciolta giù per lo scolo; non volevo

dissolvere in spuma nella doccia

 

le invisibili cellule – piccole

parti d’essere di cui non farò più

parte; non volevo andarmene prosciugata.

 

 

TROMPE L’ŒIL

 

 

A Genova le vedi dovunque:

finestre con spalancate le ante.

Poi l’illusione diventa lampante

 

Ma non è vero. Già lo sapevi che

le ante erano solo dipinte.

Lo ricordi ogni volta che le vedi.

 

La pretesa delle ante dipinte

di poter oscurare gli occhi della via,

chiaramente, è smaccata bugia.

 

Capisci che i ganci sono ombre

proiettate su un singolo angolo,

come lancette di pendole rotte.

 

Chi ha bisogno di aver ragione

più spesso di una volta al giorno?

Chi d’ombra vera più che di finzione?

 

Dentro casa, ecco una scorta

infinita di panni da lavare.

Fuori, sul muro, c’è pittura fresca

 

stesa ad asciugare al sole –

camicie danzanti su ornamenti

mai increspati da aliti di venti,

 

come le parole appese a questo verso.

Anche la parola straniera è un falso:

la seconda elle di l’œil, che solo

 

sembra una elle, ma poi è muta.

 

 

COSTANZA BONARELLI

 

 

Un busto che par baciato di fresco;

dall’intensità cieca del suo sguardo,

alle carnose labbra schiuse, fino

al solco – che si schiude dalla blusa –

tra seni soffici che le sue mani

inturgidiron dal marmo: l’amante

 

 

di Bernini, intrigo per sedurre,

creata per scolpir nella sua mente

quella scioglievolezza tanto languida,

discinta, ma per sempre da discingere.

Costanza l’incostante – pur fedele

alla realtà, tanto infedele! –,

 

 

il cui disegno di allettamento –

così strettamente avvinghiante quanto

la treccia che le pose sulla nuca,

e nondimeno tanto blando quanto

quei ricci scompigliati da un lato –

è quello d’una donna intrigante.

 

 

Se anche uno solo può bastare

(tra l’arte o l’amore, beninteso)

ad indurre un uomo a credere

che si possan trascorrer giorni interi

perso nei bei capelli d’una donna,

come potrebbe egli non aver pianto

 

 

davanti al manto di chiome lascive

di quella che fu ideale unico –

un ritratto estratto dalla roccia

per diventar la sua pietra miliare,

quintessenza del morbido Barocco –

eppur amante dalla doppia faccia?

 

 

Che ben sapesse come ingannare

non era arduo da immaginare:

un fremito che ebbe all’inizio

 

 

(lei, la moglie del suo apprendista)

senza che opponesse resistenza

ad una più esperta assistenza.

 

Ma perché dopo scelse suo fratello?

Suo fratello? Appena a Bernini

giunse tal voce, egli le mandò

un bravo che facesse col rasoio

il suo dovere: non quello d’ucciderla,

ma di lasciarle una cicatrice,

 

 

a guisa di Qui passò Garibaldi;

le avrebbe impresso il suo marchio,

così l’avrebbe conciata per bene

una volta per tutte – le avrebbe

fatto sfregiar la viva carne in viso

con un arnese non molto dissimile

 

 

da quello che lui solo, il maestro,

sapeva usar con abilità

forzando il marmo alla docilità

sotto ogni dolce e laborioso tocco

di cesello sul bel viso, finché,

così reale, quasi ne reclamava ancora.

 

 

 

SLALOM POETICO

 

 

Molto meno

lo slam

dello slalom

mi procura voluttà:

quella solenne, non chiassosa,

olimpica abilità

di aggirare, montante dopo montante,

ciò che è maledettamente ovvio;

la millesimale sospensione

di un istante,

mentre si scende a gran velocità,

nel momento

chiave,

in una sonorità

che fa vibrare tutto il corpo:

la nota ripetuta,

ma elaborata,

più toccante e più

elevata

per sembrare la cosa

che va evitata.

 

 

MARY JO SALTER: BIBLIOGRAFIA

 

FONTI PRIMARIE

 

POESIA

A Kiss in Space, New York, Alfred A. Knopf 1999.

A Phone Call to the Future, New York, Alfred A. Knopf 2008.

Henry Purcell in Japan, New York, Alfred A. Knopf 1985.

Open Shutters, New York, Alfred A. Knopf 2003.

Sunday Skaters, New York, Alfred A. Knopf 1994.

Unfinished Painting, New York, Alfred A. Knopf 1989

 

CRITICA

Puns and Accordions: Emily Dickinson and the Unsaid, «The Yale Review» 79.2 (1990), pp. 188-221.

Review of A «Different Person: A Memoir» by James Merrill (New York, Alfred A. Knopf 1993), «Yale Review» 82.1(Jan. 1994), p. 161.

The Achiever, «The New York Times» del 24 novembre 1996.

The Heart is Slow to Learn, «The New Criterion» 10.8 (March 1992), pp. 23-29.

 

DRAMMATURGIA

La scena «The Death of Molière» all’interno del dramma a più mani Versailles, messo in scena sotto la direzione di David Schweizer presso la University of Iowa nel marzo 2007 (testo inedito).

Falling Bodies. Dramma messo in scena sotto la direzione di Holger Teschke presso il Mount Holyoke College nel novembre 2004 (testo inedito).

 

LIBRI PER L’INFANZIA

The Moon Comes Home, New York, Alfred A. Knopf 1989.

 

VARIE

Calling Me Awake, Breakdown in the Breakdown Lane, Is Love a Thing You Learn?; testi scritti per il CD delle Coyote Sisters Women and Other Visions (2001).

Rooms of Light (serie di sette canzoni realizzate in collaborazione con il compositore Fred Hersch) nel programma della prima al Licoln Center (New York, 18 gen. 2007).

Amy Clampitt, The Collected Poems of Amy Clampitt, ed. M. J. Salter, New York, Alfred A. Knopf 1997.

Aa. Vv., The Norton Anthology of Poetry, ed. M. Ferguson, M. J. Salter and J. Stallworthy, New York-London, W.W. Norton & Company 1996.

You were the One. Canzoni scritte per il compositore Allen Bonde e presentate nel corso del «Bonde Compositions Past and Present» svoltosi presso il Mount Holyoke College il 16 Aprile 2005.

 

 

FONTI SECONDARIE

 

Massimo Bacigalupo, A Note on Mary Jo Salter’s America, in «Rivista di Studi Nordamericani» 15-16 (2004-2005), pp. 145-149.

R. A. Benthall, Mary Jo Salter, in New Formalist Poets, ed. And introd. J. N. Barron and B. Meyer, Detroit (MI), Thomson Gale 2003, pp. 265-271.

Mariacristina Natalia Bertoli, An Insight into Mary Jo Salter’s Poetry (tesi di laurea), Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia 2007.

Jonathan Post, Ekphrasis and the Fabric of the Familiar in Mary Jo Salter’s Poetry, in In The Frame: Women’s Ekphrastic Poetry from Marianne Moore to Susan Wheeler,ed. J. Hedley, N. Halpern and W. Spiegelman, Newark (DE),University of Delaware Press 2008.

Henry Taylor, Faith and Practice: The Poems of Mary Jo Salter, in The Twayne Companion to Contemporary Literature in English, ed. R. H. W. Dillard and A. Cockrell, New York,Twayne Thomson Gale 2002, pp. 297-310 (vol. II).

 

 

 

NOTE

 

1 Trompe l’œil, trad. it. di Massimo Bacigalupo; in: Genova per noi. Testimonianze di scrittori contemporanei, a cura di M. Bacigalupo, A. Beniscelli, G. Cavallini e S. Verdino, Genova, Accademia ligure di scienze e lettere 2004, pp. 188-190. Wake Up Call, trad. it. di Marina Coslovi; in Gondola Signore Gondola. Venice in 20th-Century American Poetry – Venezia nella Poesia Americana del Novecento, a cura di R. Mamoli Zorzi e G. Dowling, Venezia,Supernova Edizioni 2007, pp. 242-43. Absolute September, The Big Sleep e Lunar Eclipse in: Paola Loreto, Un villaggio baciato dalla musa: Amherst, MA 1830-2007; in «Poesia» 237 (Aprile 2009). Musical Chair, trad. it. di Paola Loreto; in: La poesia americana dal secondo dopoguerra a oggi. La cultura USA del Novecento, a cura diG. Mariani e S. Antonelli, Roma, Carocci 2009.

2 Quest’amicizia è raccontata nella prefazione agli opera omnia di Amy Clampitt: Mary Jo Salter, Foreword; in Amy Clampitt, The Collected Poems of Amy Clampitt, New York, Alfred A. Knopf1997, pp. xiii-xxv. Parte del loro epistolario è raccolto in: AmyClampitt, Love, Amy: The Selected Letters of Amy Clampitt, ed. W.Spiegelman, New York, Columbia University Press 2005.

3 Questo penchant – tipico di Moore, la quale fu amica e mentore di Bishop – si sviluppò in seno alla corrente del cosiddetto Imagism, i cui esponenti più ragguardevoli furono Ezra Pound, HildaDoolittle e William Carlos Williams (per citarne solo alcuni). Siveda: Slawomir Wacior, Explaining Imagism: The Imagist Movement in Poetry and Art, New York, Edwin Mellen Press 2007.

4 Si vedano: Harold Bloom, Elizabeth Bishop, New York, Chelsea House Publishers 1991; Carole K. Doreski, Elizabeth Bishop: The Restraints of Language, Oxford-New York, Oxford UniversityPress 1993.

5 James Merrill (scomparso nel 1995) è stato per Salter e Leithauser non solo un modello, ma anche un caro amico con cui condividere – tra molti interessi comuni, quali la playfulness poetica - l’amore per il Giappone e per la sua forma poetica più nota in occidente, ovvero l’haiku. Per un approfondimento della playfulness della poesia di Stevens e Merrill, si rimanda a: Eleanor Cook, A Reader’s Guide to Wallace Stevens, Princeton (NJ), Princeton University Press 2007; Evans L. Smith, James Merrill, Postmodern Magus: Myth and Poetics, Iowa City (IA), University of Iowa Press 2008.

6 Si veda, per esempio: Darlene W. Erickson, Illusion is More Precise than Precision: Poetry of Marianne Moore, Tuscaloosa (AL), University of Alabama Press 1992.

7 Nella poesia, tuttavia, viene menzionata Genova perché Bogliasco è una località pressoché sconosciuta al pubblico americano al quale Salter si rivolge. La composizione di questo testo risale al 1998, anno in cui Salter soggiornò nella località ligure per un mese grazie ad una Bogliasco Fellowship. Non si tratta dell’unico soggiorno italiano della poetessa: Salter, infatti, aveva già trascorso un anno a Roma nel 1985-86 insieme al marito, il romanziere e poeta Brad Leithauser (a quell’epoca, Visiting Artist presso l’American Academy di Roma). Nel 2007 i due sono tornati nuovamente nel Bel Paese (questa volta a Bellagio) grazie ad una borsa di studio della Rockefeller Foundation.

8 Affermazione risalente ad un’intervista rilasciata l’11 giugno 2007 a Bellagio. L’intervista è riportata in: Mariacristina Bertoli, An Insight into Mary Jo Salter’s Poetry (tesi di laurea), Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia 2007, p. 24.

9 La prima edizione delle poesie di Emily Dickinson, curata dal critico Thomas Wentworth Higginson e da Mabel Loomis Todd (la ‘cognata morganatica’ di Emily, dal momento che fu l’amante di suo fratello Austin per ben quattordici anni, dal 1881 alla morte di questi nel 1895), vide la luce nel 1890, ma l’accoglienza allora riservata alla sua produzione fu contraddittoria, divisa tra critiche ed elogi. Per maggiori informazioni su Dickinson e la sua poetica, si veda: Aa. Vv., The Emily Dickinson Handbook, ed. G. Grabher, R. Hagenbüchle, C. Miller, Amherst-Boston, University of Massachusetts Press 1998. Uno studio dettagliato del linguaggio di Emily Dickinson è il volume: Cristianne Miller, Emily Dickinson: A Poet’s Grammar, Cambridge (MASS), Harvard University Press 1987. Per quanto riguarda Dickinson ed il modernismo: Patricia Thompson-Rizzo, Emily Dickinson: Modernism and Beyond, in Anglistica e .... Metodi e percorsi comparatistici nelle lingue, culture e letterature di origine europea, a cura di G. Sertoli et al., Trieste,Università di Trieste 1999, pp. 105-114.

10 Anthony Hecht, The Riddles of Emily Dickinson, in Obbligati: Essays in Criticism, New York Atheneum 1986, p.109.

11 Richard Wilbur – nell’introduzione al catalogo della mostradi Brad e Mark Leithauser Two by Two: Lines, Rhymes and Riddles al Mount Holyoke College Art Museum (2007) – fornisce la seguente definizione di indovinello: «The classic riddle, as Aristotletold us long ago, is a kind of dark metaphor, an arresting statement

of likeness, and to solve a riddle is to discern a margin of unlikeness in the comparison, and so derive the answer» (Richard Wilbur, Introduction, in Two by Two: Lines, Rhymes and Riddles, South Hadley, Mount Holyoke College Art Museum 2007, p. 3).

12 Si confronti l’uso dei suoni in Salter e in Clampitt: Jonathan Ellis, Mouthing Noises: Amy Clampitt’s Use of Sound, in «Thumbscrew» 16 (2000), pp. 78-83.

13 In un’intervista del 2001 Salter illustra gli impulsi che scatenano l’ispirazione adducendo come esempio proprio Wreckage (in A Kiss in Space): «Much has been written about the importance of dreams to the making of poetry, but I’m even more interested in that blurry time you mention ‘between consciousness and sleep.’ I’m jealous of everybody who regularly remembers dreams. I rarely do remember them, unless I’m awakened suddenly by a loud sound, say, or by a nightmare. Because I don’t remember many dreams, I’ve become particularly attached to the illogical thoughts one has in the minute or two before sleep or after waking. Only this morning, on an overnight trip, I woke up in a hotel and had absolutely no idea where I was for a full two minutes. It’s during such moments—as I write in a poem called Wreckage – that I try to elongate the fuzziness, and the attendant weird metaphors and wordplay, for as long as possible. All too soon the normal world, with its morning news and its coffee and its to-do lists, can suppress one’s imagination. (One nice thing about reading the newspaper early: sleepy readers are more prone to misreading, and sometimes the misreadings jump-start poems.) So, finally, in answer to your question... I guess I’d say that I do use literal memories in writing, and I do apply my conscious mind to crafting that artificial thing, a poem – but I hope that I have gotten myself thoroughly confused first» (Mary Jo Salter, April 2001 Knopf Question-a-Poet-Contest, in «The Borzoi Reader Online» 2001, Alfred A. Knopf (9 Nov. 2008) <http://www.randomhouse.com/knopf/authors/salter/poetsonpoetry.html>).

14 Ezra Pound, Modern Georgics, in «Poetry» 5 (Dec. 1914), pp. 127-130. 15 «I have kept hidden in the instep arch / Of an old cedar at the waterside / A broken drinking goblet like the Grail / Under a spell so the wrong ones can’t find it, / So can’t get saved, as Saint Mark says they mustn’t. / (I stole the goblet from the children’s

playhouse). / Here are your waters and your watering place. / Drink and be whole again beyond confusion» (vv. 55-62).

16 Altra prova dell’influenza decisiva esercitata da Frost su Salter è Frost at Midnight (in Sunday Skaters), una poesia dedicata proprio alla memoria di questo poeta.

17 Mary Jo Salter, Review of Robert Lowell’s «Selected Poems» (Ed. F. Bidart. New York: Farrar, Straus & Giroux 2007). Il testo di questa recensione inedita è stato gentilmente messo a disposizione dalla Sig.ra Salter. 18 Per informazioni sull’influenza dell’arte orientale sulla poesia americana, si rimanda a: Zhaoming Qian, The Modernist Response to Chinese Art: Pound, Moore, Stevens, Charlottesville, University of Virginia Press 2003.

19 Fu il critico M. L. Rosenthal a coniare questa definizione in una recensione di Life Studies di Lowell pubblicata in «The Nation» il 19 settembre 1959. In seguito, tale definizione fu applicata a molti poeti degli anni Sessanta e Setttanta la cui poesia era – come quella di Lowell – principalmente caratterizzata dall’uso della prima persona e dall’ispirazione autobiografica. Tra questi, sono certamente degni di nota John Berryman, Allen Ginsberg, Sylvia Plath, Theodore Roethke, Anne Sexton e William De Witt Snodgrass. Per un approfondimento, si veda: M. L. Rosenthal, Our Life in Poetry: Selected Essays and Reviews, New York, Persea Book 1991.

20 Negli anni trascorsi in Giappone, Salter lavorò come insegnante di inglese presso l’Asahi Culture Center di Osaka, mentre il marito lavorava presso il Law Comparative Center di Kyoto. È allo stesso Leithauser (cultore della letteratura islandese, ed in particolare del premio Nobel Halldór Laxness) che si deve la lunga permanenza islandese della coppia allorchè egli ottenne il ruolo di Fulbright Lecturer presso il dipartimento di inglese dell’Università dell’Islanda. Infine, a condurre Salter e Leithauser a Parigi la prima volta furono sia la Ingram Merrill Fellowship da lei ottenuta nel 1992 che il posto di editore ricoperto da Leithauser all’interno del Book of the Month Club; il secondo soggiorno fu invece dovuto alla Guggenheim Fellowship ottenuta da Salter nel 1996-97.

21 Le poesie di Salter Welcome to Hiroshima, Summer 1983, What do Women Want e Frost at Midnight sono state incluse in un’antologia della poesia neoformalista: Aa. Vv., Rebel Angels: 25 Poets of the New Formalism, ed. M. Jarman and D. Mason, Ashland (OR), Story Line Press 1996. Per ulteriori informazioni sul New Formalism, si rimanda a: Robert McPhillips, The New Formalism: A Critical Introduction, Cincinnati (OH), Textos Books 2005.

22 Ariel Dawson, The Yuppie Poet, in «AWP Newsletter» (May

1985).

23 Tra gli altri: René Wellek, The New Criticism: Pro and Contra, in «Critical Inquiry» 4.4 (1978), pp. 611-624.

24 Richard Wilbur è ancora oggi un amico personale di Salter; una delle loro collaborazioni più recenti risale al 2007, quando i due hanno prestato le loro voci all’audioguida della casa-museo di Emily Dickinson ad Amherst. Anthony Hecht – al quale Salter ha dedicato l’elegia Lunar Eclipse (in A Phone Call to the Future) in

occasione della sua scomparsa nel 2004 – incoraggiò la carriera poetica di Salter e Leithauser sin dagli esordi. Il loro rapporto fu molto stretto sia dal punto di vista personale (Hecht fu addirittura il padrino della loro primogenita Emily) che poetico, e si può a buon diritto affermare che Hecht sia stato per i due poeti un vero e proprio mentore. Hecht ha commentato la poesia di Salter The Rebirth of Venus (in Unfinished Painting) nel capitolo «Poetry and Painting» all’interno di On the Laws of the Poetic Art, Princeton (NJ), Princeton University Press 1995, pp. 26-28.

25 Meghan Cleary, Mary Jo Salter: Interview, «Failbetter.com», Failbetter LLC 2005 (9 Nov. 2008) <http://www.failbetter.com/18/SalterInterview.php>. Si confronti questa dichiarazione con quanto affermato da Hecht a proposito della poesia di Wilbur: «Let me try to list some of the virtues that distinguish the poetry of Richard Wilbur. First of all, a superb ear (unequalled, I think, in the work of any poet now writing in English) for stately measure, cadences of a slow, processional grandeur, and rich, ceremonial orchestration. His ‘musicianship’is of so fine and conspicuous a kind that it has often been ignored, and sometimes even mocked by those who are militantly tone-deaf. Next, a philosophic bent and a religious temper, which are by no means the same thing, but which here consort comfortably together. Wit, polish, a formal elegance that is never haughty or condescending, though, again, by those unimpressed by or envious of his skills it is taken for a chilling frigidity. […] There may be those, viewing the whole enterprise of formal poetry with suspicion or derision, who will suppose that this richness of inflections, this abundance of verbs, has been forced upon the poet by the ruthless exigencies of stanzaic form: the necessity, one way or another, of digging up a rhyme. For those to whom formal poetry is itself unnatural, or archaic, an embarrassed or twisted parlance of one who is self-consciously ill-at-ease holding the floor, any unusual feature of poetry, even its most towering graces, can be thought of as no more than the by-products, the industrial waste, entailed by meter and rhyme; and therefore (in the name of directness, of authenticity, of courage, of any number of Rousseauian virtues that

belong exclusively to the underbred and ill-educated) to be deplored as a victimization, as no grace at all but rather a crippled response to life and language. This sort of argument is marvelously self-serving to those who use it» (Anthony Hecht, Richard Wilbur, in Obbligati: Essays in Criticism, New York, Atheneum 1986, pp. 130-133).

26 Si veda la lettera a T. W. Higginson (L459): «Nature is a Haunted House – but Art – a House that tries to be haunted». La citazione è ripresa da Salter nella poesia The Upper Story (in Unfinished Painting), dedicata proprio a Dickinson.

27 A questo poeta – scomparso nel 2001 – Salter ha dedicato l’elegia An Open Book (in Open Shutters).

28 T. S. Eliot, Tradition and Individual Talent, in Selected Essays, London, Faber and Faber 1971, p. 16.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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11 giugno 2021
Laboratorio Poesia in prosa

4 giugno 2021
Antologie europee di poesia giovane

28 maggio 2021
Le riviste in tempo di pandemia

28 maggio 2021
De Francesco: Laboratorio di traduzione da poesia barocca

21 maggio 2021
Jhumpa Lahiri intervistata da Antonella Francini

11 maggio 2021
Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

7 maggio 2021
Jorie Graham a dialogo con la sua traduttrice italiana

23 aprile 2021
La poesia di Franco Buffoni in spagnolo

22 marzo 2021
Scuola aperta di Semicerchio aprile-giugno 2021

19 giugno 2020
Poesia russa: incontro finale del Virtual Lab di Semicerchio

1 giugno 2020
Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

30 aprile 2020
Laboratori digitali della Scuola Semicerchio

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