« indietro QUANDO IL POETA EVOCA:
APPUNTI SU YOSHIMASU di Hideyuki Doi La presenza di Gozo Yoshimasu, poeta che include nella sua ricerca espressiva anche la fotografia e il ready made, è un fenomeno particolare, un vero unicum nel panorama della poesia giapponese (e forse anche al di fuori). Così, la sua poesia deve essere vissuta in tutte le dimensioni percettive.
Ascoltando Yoshimasu, la sua voce suona delicata, con un timbro alquanto acuto. La sua poesia, altrettanto gen tile, si permette solo di evocare. La ricordo fin da un in tervento a Palazzo Vecchio (International Poetry Confe rence «Asia», ottobre 2005), in cui il poeta commemora va Ivan Illich, che aveva fatto studi medici a Firenze, no minandolo ripetutamente con il suffisso onorifico -san nel tono gentile: «Ivan I-li-i-chi san, Ivan I-li-i-chi san...».
Altre volte il poeta è paziente, attende che la poesia risorga. Ci vuole un verso, o anche una sola sillaba, o un fonema, come catalizzatore, per avere un segnale di rive lazione dell’insieme del testo. Per esempio, leggendo Yeats, Yoshimasu tenta di immedesimarsi con il momen to stesso in cui nell’orecchio dell’autore irlandese risor ge la poesia The Lake Isle of Innisfree: in particolare l’in cipit «I will arise and go» (cit. in G.Y., Porta poesie in tasca: viaggi ai poeti amati, Tokyo 2003). Secondo Yo shimasu un’immaginazione uditiva – messa in moto spe cialmente dal verso «I hear lake water lapping [...]» giustifica la scelta di verbi arcaici, che creano un ritmo lineare nella poesia di paesaggio di Yeats.
Oppure il poeta si sofferma sulla sonorità di un g estratto dal «grillon» bretoniano. Questo g è, secondo Yoshimasu, «UTSUKUSHII» («bello», «splendido»), un aggettivo trascritto in maniera inconsueta – anche per il gusto pre-moderno – con quattro ideogrammi: «il g di grillon, in Breton, è BELLO», così suona il ritornello de La luna è fatta di tessuto di Yoshimasu, quinto componi mento di The Other Voice (ed. giapponese, Tokyo 2002). Per giunta si citano in corpo minore i versi originali di Breton che formano la parte finale di Tournesol: «Et pour tant le grillon qui chantait dans les cheveux de cendres / [...] / M’a jeté un coup d’œil d’intelligence / André Bre ton a-t-il dit passe».
Nella sua lettura il poeta estrae la consonante g; allo stesso modo egli può incidere una singola lettera su una lastra di rame, oppure leggere i propri testi, rendendo equivalente il valore sonoro di ogni sillaba in una emis sione vocale che, seppure convulsa, rimane in un certo modo suadente (l’abbiamo constatato in occasione di un incontro fiorentino del marzo 2005).
Di riflesso, la scrittura stessa traccia la dizione del poeta con scomposizioni delle singole unità sillabiche. Citiamo un settenario, uno dei versi più ricorrenti del poema Gorogoro (un termine onomatopeico che indica il movimento di rotolamento o, come suggerisce il poeta, la «frizione di un dito sulla palpebra chiusa»; dalla rac colta omonima, Tokyo 2004), trascrivendo il suono del l’originale:
Sumino O (ô) no hô Il verso si riduce semanticamente a «Sumino hô» (un quinario in metrica giapponese), cioè «verso l’angolo». L’allungamento della vocale o dell’ultima sillaba di «Su mino» restituisce il suo suono alla superficie fonetica, come appare graficamente subito dopo con la lettera del l’alfabeto O. E si riprende immediatamente per concludere il sintagma con «no hô», ovvero un richiamo al proustiano «du côté de ...» (una citazione esplicita, precisata dall’autore stesso).
Si può prelevare di seguito un altro esempio simile, sparso in diverse poesie degli ultimi anni (si veda ad esem pio l’edizione italiana di The Other Voice, passim):
Te-te (tei, tei)
Vi si potrebbe trovare un verso primitivo, di pura materialità. Dal suono di «te» («mano») viene fatta generare la vocale i: un fenomeno in cui riecheggia, cioè, l’accento dialettale dell’isola di Amami; quindi una de standardizzazione della lingua giapponese, studiata in altre sedi con il mescolamento del coreano nei testi giapponesi (da tempo Yoshimasu tenta più volte la traslitterazione in coreano di alcuni termini). Ora, la vocale scavata si visualizza come mero suono assieme alla ricomparsa del luogo della poesia, del luogo che la evoca, appunto Amami.
Ebbene, il poeta ricorda l’origine della poesia che conserva un carattere contingente: lo sfondo fiorentino di Illich che desiderava morire ed essere sepolto nel capo luogo toscano, o quello celtico di Yeats intriso nei paesaggi di un lago ideale. E non nasconde, nel caso appena citato, le isole di Amami e di Okinawa, l’arcipelago sud ovest del Giappone – esprimendo quindi un’alterità – in cui la poesia di Yoshimasu risorge. Le precisazioni toponomastiche rendono possibile l’insediamento della poesia nel reale (o, in senso esteso, il «radicalizzarsi sul mondo» heideggeriano): un fattore assente, a mio avviso, nella poesia contemporanea giapponese. Circa l’avvento della sua poesia, esistono due componimenti legati tra loro tramite una eco meccanica (per l’effetto straniante della grafia katakana applicata normalmente ai termini di origine forestiera), «Il mio nome è Kadena». Le due opere concatenate si intitolano Kadena e Fussa, Futtsua, entrambe facenti parte dell’edizione giapponese di The Other Voice. Da Kadena, una località di Okinawa nota per l’immensa base americana, l’immaginazione del poeta torna a Fussa – il luogo natio di Yoshimasu, dove risiede l’aeronautica statunitense – riletta ora come «Futtsua» (da pronunciarsi fuzza) con la variazione sonora in un’affricata -za, come accadrà anche nell’esempio che segue. Con l’articolazione del suono, e quindi con la sua metamorfosi, anche i verbi si trasformano in semplici suoni che si susseguono privi di ogni cadenza, posti in paratassi:
Interrompere, interrompere, rerere, ...... Interrompendo haiku
e waka, persino poesie cinesi antiche, come luna e meteorite,
come
frammenti solitari (lanciando su nel cielo, ...... «facendo don-
dolare sul vento più basso» [Kafka]......), («fluttua al vento», «la luna illimpidisce»)
per ascoltare il respiro degli uomini antichi, ascoltare, rerere, rerere.
(Con adattamenti della disposizione grafica dei versi, da Shijima no kotoba «Parola del silenzio», in The Other Voice, ed. giapponese; si veda il testo originale).
Il poeta gentile, che evoca soltanto, non si impone mai; egli asserisce, casomai, affermazioni che gradualmente si sfasano: ricorre pertanto all’uso di numerose annotazioni in corpo minore, intercalate nel testo poetico, contenenti varie note. Queste fungono da promemoria: date, nomi di persona, persino dichiarazioni che si oppongono al testo principale. Queste ultime, al massimo tono, si esprimono in un’ipotesi seguita da puntini: «Poteva essere altrimenti [...] ......». Il poeta chiama questa tecnica misekechi (ripresa dai copisti antichi), ovvero frasi e parole semi-de pennate, quindi visibilmente conservate. In realtà le annotazioni di Yoshimasu non sono semi-cancellate, bensì esigono una connotazione circoscritta al testo vero e proprio, creando anche una stratificazione polisemica. I vari livelli significanti, generati nel suo testo, subiscono col tempo ancora più approfondimenti, fino a divenire una spiccata peculiarità della scrittura del poeta.
Yoshimasu non si esprime quasi mai all’imperativo. Per questo ci colpisce il refrain «imita la pupilla di una bocca muta» (The Other Voice, dall’omonima raccolta di cui ci si avvale ora nell’edizione italiana). A costo di una di una forma imperativa il poeta questa volta tenta di evocare - detto con una sua espressione frequente dei primi anni - il «centro rimasto innominato» (da Volontà di centralità, un saggio del 1967). Allora il giovane poeta intendeva arditamente «tagliare con spada di parole il mondo appoggiato sul palmo»; ciò rappresenta il punto «dove inizia la [sua] speranza». Solo una tale ingenuità è capace di di mostrare una determinazione (ossia un concreto ordine in tono imperativo), e semmai un incessante senso di paura. Il curatore di The Other Voice, Marco Mazzi, chiama in causa gli studi psicologici di Piaget sull’infanzia per un confronto riguardo al temuto orifizio originario (parago nabile al «centro rimasto innominato»), in conseguenza dell’apertura del quale, come osserva dolorosamente Artaud, l’esperienza è concessa solo come traccia. Il nucleo della poesia di Yoshimasu, appunto la «pupilla di una bocca muta», o la «bocca-nera» (sempre dalla poesia The Other Voice), è dunque corporeo, così come la dimensione interiore del poeta, che si proietta integralmente sul corpo. Nelle sue performance il poeta legge, scandendo tutti i fonemi, mentre la cantante Marilya Corbot lo ac compagna con interventi vocali. In pubblico, inoltre, il poeta scalfisce tutte le lettere con linee di puntini su una lastra di rame che porta sempre con sé.
La prima pubblicazione di Gozo Yoshimasu (Tokyo 1939) in Italia, The Other Voice. L’altra voce (Scheiwiller, 2005), è uscita a cura di Marco Mazzi. Dal numero speciale su Yoshimasu del mensile «Gendaishi techô» («Taccuino di poesia contemporanea», ottobre 1999) sono state tratte due composizioni: Sotto la luce, strati di farfalla e quella eponima. È stata composta esclusivamente per l’edizione italiana la poesia Aka Uma. Cavallo Rosso, dove Yoshimasu, sollecitato dal curatore, ha dato spazio a un decentramento linguistico del dettato poetico con l’inclusione di parole italiane nel suo testo. Questo esperimento è stato ulteriormente rafforzato dalla ri-traduzione in giapponese (da parte dei curatori) dei termini italiani inseriti. Si è inoltre aggiunta una delle ultime poesie (del 2004), A Derrida, cadeva un tronco dove non c’era l’albero, pubblicata sulla rivista di filosofia «Gendai shisô» («Pensieri contemporanei», dicembre 2004, all’interno di un dossier dedicato al filosofo deceduto pochi mesi prima).
Il debutto di Yoshimasu risale al 1964 con la raccolta Shuppatsu «Partenza». Tra le altre opere rilevanti: Ôgon shihen «Versi d’oro» del 1970 e Osiris, ishi no kami «Osi ris, il dio di pietra» del 1984.
YOSHIMASU, Gozo
The Other Voice. L’altra voce, a cura di
Marco Mazzi, Scheiwiller, Milano 2005.
The Other Voice, Shich-sha, Tokyo 2002.
Gorogoro, Mainichi shinbun-sha, Tokyo 2004.
KO UN, YOSHIMASU GOZO , Sulle sponde dell’Asia, Asia no nagisa de, Tokyo, Fujiwara Shoten, 2005, pp. 243, 2200 yen. Marinetti non è mai pensatore così acuto come quando rifiuta di invocare l’idea di «creazione e produzione» (di poiein se vogliamo) per motivare la poesia, reclamando così la vicissitudine dinamica del discorso poetico. Improvvisamente «la poesia è azione», e quella dell’azione è forse una via che conduce al segno. Cominciare dalle grandi difficoltà del reale, della storia e della cultura, trasformarle in qualcosa di interiore, di cosciente. Quale poesia non è scaturita dall’impossibilità di una lingua o di un universo che sembrava senza vie d’uscita?
Nello sfogliare il libro Sulle sponde dell’Asia che raccoglie dialoghi e carteggio fra il poeta coreano Ko Un (di cui è recentemente uscita in Italia la raccolta Fiori di un istante, curata con grande e raffinata sensibilità da Vincenza D’Urso), e il famoso poeta e artista visivo giapponese Yoshimasu Gozo, mi viene fatto di pensare al controverso concetto di «azione». Non solo «la poesia è azione», ma per di più è un’azione proibita, capace di affermare il duplice orizzonte della resistenza e della rinascita.
Sulle sponde dell’Asia non è un libro politico, almeno non nella sua natura esteriore, ma una testimonianza sul destino della let teratura e della coscienza dei poeti. Una distinzione profonda si potrebbe ora tracciare fra questi nomi. Ko Un è un poeta lineare, candidato al Premio Nobel, autore di una poesia caratteriz zata da uno spiccato elemento civile e politico. La ricerca di Yoshimasu Gozo include, oltre alla scrittura, media come la fotografia e il video, e non a caso in questo libro compaiono fotografie scattate dal poeta. Autore fra l’altro di poesia tattile e vi siva (il suo legame con i poeti concreti brasiliani, primo fra tutti Haroldo De Campos, di cui Yoshimasu ha tradotto parte del libro-flusso Galaxies, è ben noto), si esibisce in complesse per formance con l’intenzione di riunire in un’unica formula espressiva molteplici aspetti del suo lavoro. Sulle sponde dell’Asia non è certo il primo libro che vede Yoshimasu dialogare con un altro esponente della cultura contemporanea. Il libro Dolce, per esempio, è un dialogo a tre voci fra Yoshimasu, il regista Alexander Sokurov e Shimao Miho. Sulle sponde dell’Asia non è dunque un libro politico, nel senso che ciascun autore non si esprime qui né come portavoce di un popolo, di un paese o della sua storia, ma piuttosto della lingua che incarna, e con la quale egli instaura un rapporto di reciproca scoperta. Lingua che è trincea, voce resistente e orgogliosa che non si arrende e si oppone, come quella di Ko Un, che non può identificare il suo dolore o la sua speranza. Gli scrittori parlano del loro mestiere, dei loro strumenti di lavoro proprio come due artigiani, due ebanisti o due tecnici. Nell’eco di questo raffinatissimo laboratorio i poeti cercano di risalire all’esperienza stessa, originaria della poesia. Non si legge di un rapporto con l’occidente inteso come universo compatto, inconsapevole della sua sete di alterità, ma con voci isolate come quella, delicata e altissima, di Baudelaire o di Emily Dickinson. Ovunque ci porti il discorso siamo sempre sulle sponde, e non nel cuore, di un luogo della vita presente, di una cultu ra o di una lingua. Perché se Ko Un scrive in coreano, le opere di Yoshimasu non sono scritte in giapponese tout court. Se Ko Un incarna un’unione disperata e sensuale con la sua terra, quella «distesa di rovine» (come il poeta chiamava la Corea in occasione di un incontro al Gabinetto Vieusseux di Firenze) che partoriva le anime di poeti, e con una lingua assediata, sospinta via via nelle riserve, in territori sempre più ostili, in grotte sempre più oscure, la coscienza poetica di Yoshimasu si muove come una massa di significanti strappata al divenire, ed estranea a ogni demarcazione di potenza dello spazio. Ogni reazione di Yoshima su è una lettura dell’esperienza che isola frammenti la cui apparizione ribadisce l’eterogeneità dell’insieme. Anche le nazioni, gli stati, o le razze sono fantasmi di gruppo, di cui la poesia denuncia il pericolo e l’incoerenza.
Il dialogo fra Ko Un e Yoshimasu Gozo è prima di tutto la testimonianza di poeti proibiti. Sappiamo bene la vicenda tragica di Ko Un in una dittatura fascista: punito, censurato, tortura to, obbligato a modificare i suoi testi. Ma come sarà proibita la poesia in una realtà democratica, nella nostra o in quella di Yo shimasu Gozo ? I libri escono senza censura, si organizzano convegni e festival. Eppure, Yoshimasu ne è sempre più convinto, la poesia non è che raramente presentata nella sua naturale, autentica vocazione eversiva, ma come pratica di intrattenimento che nasce prigioniera dentro una finzione, dentro i limiti che la macchina sociale le impone e alla quale è sottomessa. Una pratica che può esprimersi entro quell’unico mezzo offerto da un sistema, e da questo costretta ad apparire sterile e inoffensiva. Sulle sponde dell’Asia appare come la reciproca decifrazione di due distinti universi di condizione poetica prima che di scrittura. L’esperienza del dialogo diventa portatrice di un significato in tersoggettivo, intersituazionale. Da questa dignità e questo ge sto libero essa è diventata ciò di cui avvertiva realmente la ne cessità: un segno.
Marco Mazzi
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