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SGUARDI DALLA COMBA

(Appunti su Écart di Jacques Dupin)

di Gilberto Isella

 

Ricettacolo e matrice, scrigno di enigmi notturni e custode di un’arcaica ‘volontà di potenza’, la «comba oscura» rappresenta per Jacques Dupin l’ultima versione di un simbolo familiare. Pur mantenendo i tratti del biografema indicante i luoghi dell’infanzia, in Écart essa si carica di connotazioni multivalenti. Un luogo fisico, all’inizio: valle stretta e allungata tipica del Jura, ma che ricorda il paesaggio accidentato di altre regioni della Francia, in particolare la terra nativa di Dupin, quell’Ardèche che ha lasciato molteplici segnali, anche se non sempre appariscenti, nella sua opera. L’espressione geografico-geologica si traduce tuttavia presto in metafora scrittoria, confermando una tradizionale linea di condotta. Anche il paesaggio poetico di Dupin è per natura impervio, scosceso, franoso, ricco di avvallamenti e faglie che operano continue deviazioni e cesure rispetto al terreno uniformemente soleggiato della langue, alla confortevole linearità di essa. Che incidono sulla stessa grana della voce, che ne determinano il ritmo, le cadenze spezzate. Nessuno, meglio dell’autore, potrebbe riassumere le ambizioni di questa poetica:

 

Poésie, conjonction de traits épars et de débris érigés, lien tressé de linéaments ennemis. Autorité fragile du souffle infini de la voix brisée. Mise à nu par le feu qui fait surgir la langue à travers le corps – poignée de tourbe, de sel, de cendres – la langue même, la langue sans la langue – et son rire balafrant la nuit, illuminant l’autre nuit qui se dresse et prend le relais (L’ongle du serpent, in Écart).

 

Come ogni luogo nascosto o ripiegato su di sé, la «comba oscura» richiama la scena primaria dove l’io poetico riconosce il proprio destino di ‘essere-per-la-scrittura’ in quanto ‘essere-per la-morte’(non avvertiamo forse, in un verso della raccolta, l’assonanza tra «combe» e «inscription de la tombe»?). La sua oscurità non genera oblio, bensì una memoria intermittente e anamorfica. Una memoria tanto prodiga nel dispensare i pittogrammi della lontananza ‘interiore’, quanto implacabile nel manometterli, nel sottrarli alla presa diretta della significazione, nel vomitarli sotto forma di scorie o rovine, di scarti dunque.

Ma la comba è soprattutto lì per suggerirci le coordinate topologiche entro cui avverrà la produzione poetica del senso, lungo un percorso costellato di antitesi e ossimori. Potrà allora configurare la «cage indestructible» ma anche la sua soglia, la camera oscura del dormiente ma anche la luce invisibile che vi si raccoglie; e ancora l’implosione della parola e del respiro e nel contempo lo spiraglio (la «brèche dans le mur», leggevamo in una poesia di L’épervier) o la finestra: «L’ombre traverse la fenêtre quand je dors». Passaggi che consentono evasioni, o per dire meglio, il sempre problematico dupiniano ‘arrischiarsi’ verso il fuori. Persino quando si riconfigura nella sottospecie umile di «galetas», «cagibi» e «souillarde», la comba garantisce vie d’accesso all’aperto:

 

Moi j’occupe à fleur de peau

le galetas le cagibi la souillarde

 

le ciel ouvert

crachin de langue, succulence

d’un gratin de cardons dans le four

 

Tracce e fantasmi del «lointain intérieur» trovano ospitalità in questi luoghi segreti, e la «brèche» sarà il canale sensitivo e memoriale attraverso cui essi affluiranno al ‘qui e ora’. Sensi primari, legati alle esperienze infantili. Dapprima il gusto («crachin de langue»), poi, con crescente raffinatezza, l’odorato, la cui incidenza, malgrado venga espressa secondo parametri postmoderni, sembra porsi in sintonia con la poetica baudelairiana: «Face à rien, sans masque et sans nudité, nous forçons la fugacité d’un parfum comme s’il était la révélation d’un cachot, le secret derrière les grilles d’une cage indestructible».

Quando privilegia le tracce olfattive la parola di Dupin si fa eccezionalmente euforica. Nel celebrare quel profumo che investe il paesaggio e lo innalza a insegna della natura, essa lascia sottintendere che la natura è promessa di nascita, nel senso di far ‘a-venire’ di continuo il già avvenuto. Il profumo di lavanda s’impone in particolare: «Fuseaux bleus des lavandes contre le bleu de l’air. Echancrure de parfums». Fiore che per contiguità metonimica chiama in causa lo sciame incontornabile delle api, ovvero l’inarrestabile sciame nutritivo dei fonemi, il miele arcaico e materno della lingua: «Arôme unique pour une abeille qui est mille, pour mille abeilles qui ne sont qu’une seule vibration de l’air et de la chaleur. Un seul voyage zigzagant dans l’ivresse de la succion». E ancora: «Simplicité de l’essaim. Je le touche. Une poche bruissante et mouvante, un sac d’effervescence contenue, vibrant, grondant, accroché au volet d’une fenêtre». Dove lo sciame, se inteso come metafora di disseminazione linguistica che scompone la parola fino all’«elementarità del proprio corpo significante» (Bigongiari), ci riconduce a un tratto tra i più distintivi della poetica dupiniana. Sotto la regia del puro significante, esso traduce le vibrazioni, i flussi di quell’essere-stato che si predispone a-venire:

 

Bascule dans le jour un poème abstrait mais configuratif: lignes, points, intervalles, vitesse, espace…Des schèmes se dessinent, s’orientent, accèdent à la visibilité, liés encore à tel gisement terrestre et passionnel, tendus par des énergies compulsives, hasardeuses…

 

«Un poème abstrait mais configuratif», in perpetua, luminosa oscillazione («bascule dans le jour») sopra un magma che evolve. Ne va della poesia di Dupin – che coniuga il rigore di Kandinsky («lignes, points, intervalles») con la matericità delle partiture visivo-visionarie di Pollock, Hajdu, Soulages o Tàpies – come del terreno naturale da cui essa trae succhi e umori. Se ne può solo toccare l’interna distanza da sé. Al presente non è ancora. Avverrà forse, ma dopo aver subìto, esattamente come quel terreno, contraccolpi, scarti e scoscendimenti d’ogni sorta, e sempre rischiando di trasformarsi in un ammasso di rovine. Ora la vediamo agitarsi, fetale, in una «comba oscura», nel grembo di una «nuit, recluse dans les mots, la nuit qui pousse, qui s’étire…».

 

Tutto è in latenza, in questa poesia, ma in quanto prefigurazione nascosta di significato. Dupin, nella sezione in prosa L’ongle du serpent, confessa di non saper nulla delle «figures qui pourraient surgir, ni de leur origine qui devra manquer». Confessa quindi l’impossibilità di dire – riguardo al proprio io e alle figure, all’io-figura – l’origine, la nascita, e di conseguenza la natura in quanto evidenza che si fa tale al toccare, al percepire, o alla mente che dovrebbe trascriverla in totalità, in Idea. Il suo non-sapere è bagnato dalla grazia terribile e inebriante della noche oscura, che testimonia l’attraversamento infinito e privo di mappa di un’estensione non misurabile, al di fuori di qualsiasi relazione assiale ‘da luogo-a luogo’:

 

Dans la nuit, un corps. De l’écriture le combustible et le conducteur. Un corps. Terre immense, ouverte, qui embaume. Qui n’a pas de mesure. Ni centre, ni aiguilles, ni lisières. Une terre, ou un corps, sans origine – insomniaque, inhumain – offert à la jouissance des monstres, et dérèglant les rythmes, bousculant les vides de la feuille et les espacements du souffle.

 

È su questo corpo tellurico notturno che inciampa il puro non-sapere. Immerso in uno spazio adimensionale, il corpo-di-terra ignora la linea demarcativa tra anthropos e physis. La sua condizione è quella intermedia degli organismi vibratori, mostri ectoplastici che ricordano lontanamente la Cosa rilkiana dei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Soggetto e oggetto, indistinguibili l’uno dall’altro, giacciono in una sorta di magma energetico («combustible») che non accenna, metaforicamente, a una semplice avvisaglia di scrittura, poiché forse dispone già della forza articolatoria sufficiente per inaugurare il passaggio a una fase successiva di consapevolezza: dal non-sapere a un sapere umbratile, «en contrebas», un sapere dello scarto e del distanziamento che ‘dà a vedere’ soltanto l’infinitamente differito. Forse questo a-venire (o avvento del passato più arcaico) che trascende il tempo lineare andrà a raccogliersi per un attimo in qualche «icône du vrai dieu». Si tratterà peraltro di un’icona decaduta, resa mozza «dans l’élargissement subit de la langue, brassée, secouée par le ressac d’une misérable théologie négative – ou le choc d’un grain de granit».

La scrittura, residuo granitico di un’aspra teologia negativa, allegorizzerà allora il viaggio del dio che – consumata la passione cristiana o il dilaceramento dionisiaco – declina nell’inerzia inquieta del proprio sepolcro: spettacolo di un macigno minerale avvolgente, multiplo esacerbante del «grain de granit». Ma essa dirà nel contempo la béance, ovvero l’inesauribile svolgersi-aprirsi di questo minerale – cripta, comba, catacomba o ‘doppio’ simulacrale del proprio corpo – verso l’alto, verso l’iridescenza della natura sempre a-venire nella memoria. Il cui emblema più pregnante potrebbe essere l’antica montagna effigiata nell’infanzia. Lassù, sulle alture, quel minerale farà da scenario e schermo al primo manifestarsi della parola come produzione alimentata da un soffio nomade, consustanziale sia al respiro del soggetto che al manto aereo, avvolgente, della natura; là dove si indovina il fondo musicale e preverbale (la khôra semiotica, come direbbe Julia Kristeva) della lingua, voglio dire dell’idioma poetico peculiare di Dupin:


Partant de la musique, l’écriture aurait tenté de s’unir à la transparence d’une course dans la montagne. Des mots affluent, provoquent. Une odeur entêtante de branches et de terre détrempée s’étire, s’abandonne. Courir le risque de la pente. Respirer, reprendre souffle, en réactivant à chaque bouffée inhalée un arpent du récit ancien. Racines extirpées, consumées….


Poi il luogo inferiore e chiuso invocherà di nuovo i suoi diritti, lasciando presagire un infinito movimento circolare basso-alto-basso: «Je donne ma vie à la traversée des orgues de basalte, à la dégringolade par une pente de broussailles et de ronces jusqu’à la gorge rocailleuse, jusqu’à la combe obscure au fond du ravin».

 

La scrittura poetica – nella sua indicibile genesi incisa nella storia del soggetto – è il sonno che illumina («Dormir en marchant, en écrivant»), e anche la traccia del disorientamento di trovarsi qui e in nessun luogo. Essa è sempre, come insegnano Rimbaud e Char, posta «en avant», per cui vale ancora l’osservazione di Georges Raillard: «Ce que Dupin recevait de Char confirmait donc la plus haute leçon apprise de Rimbaud, à l’adolescence: le principe que la poésie, sauf à être ressassement ou jeu décoratif, est toujours ‘en avant’» (Jacques Dupin). Osservazione riformulata recentemente da Jean-Luc Nancy, per il quale la poesia essendo in generale produzione di senso (nella doppia accezione di ‘sensibile’ e ‘intelligibile’), non può che generare «une tension insoutenable vers un ‘en avant’ (ou un ‘en arrière’) du sens» (Les Muses).

Essere «en avant», sopravanzare – e solo grazie a questa ‘oltranza’tentare paradossalmente la mimesis della natura a-venire in quanto frutto di reminiscenza – significa per la poesia di Dupin saggiare fino al limite estremo le virtualità cognitive dello spaesamento-spossessamento, in altri termini riconoscersi progettata in un’avventura del segno e del senso non ascrivibile a un sapere preliminare o a una tesi ontologica. Secondo le parole di Jean-Pierre Richard: «Tout ce travail ne s’accompagne d’aucun savoir, d’aucun regard. Il se poursuit dans l’absolu de l’ombre, peut-être du sommeil» (Onze études sur la poésie moderne). Ed è stato il poeta medesimo ad individuare i fondamenti del proprio agire scrittorio nei luoghi irrappresentabili della cecità e del sonno: «Écrire, est-ce un sommeil plus mobile et qui s’entoure de comparses?» (Moraines), o ancora: «La cécité signifie l’obligation d’inverser le termes et de poser la marche, la parole, avant le regard» (Ibid.), così da raggiungere pienamente, in Écart, l’esperienza della morte simbolica, condividendo con Blanchot l’idea che lo scrivere sia strettamente implicato con la morte. Morte come anticipazione di se stessa («en avant») nel presente: «Appréhender, ressaisir, tenir dans la main comme une branche lisse la pensée que je suis mort, que je marche mort. Et qu’il faut que je meure une ultime fois, pour écrire enfin».

Sonno mortale e non-sapere (o sapere «en contrebas») si coimplicano, dunque. Sul loro sfondo c’è, mi pare, una questione visiva. Essa riguarda proprio lo sguardo «avant le regard», lo sguardo circonflesso attorno alla propria sorgente annerita o rimossa e che tuttavia, dopo essersi assuefatto all’oscurità divergente e dirompente (écartante-écartelante) della comba, diventa condizione irrinunciabile di un incontro ‘inedito’ e traumatico con il regno delle figure. Saranno figure circoscritte ai luoghi bassi – vivacizzate talora da qualche esile bagliore ‘gotico’ – in ogni caso figure dell’assenza:

 

dans la cour d’école

 

lisse d’obséquieux méplats

de masque funèbre

 

terrain de fouilles, entame

de hauts-fonds

 

o produzioni della reminiscenza, emerse durante un cammino rituale che Dupin evoca non senza ricorrere a una suggestione baudelairiana («il marche il porte à la bouche / les tronçons d’une vie antérieure / interminable»), oppure figure ‘catabasiche’, che dunque accennano alla caduta o all’espulsione traumatica: «le troupeau / des folles qui m’ont mis bas / dévale la combe obscure». Figure date per scarti, a cui manca la sintassi gratificante della descrizione ‘realistica’, figure interrate.

Con pertinenza Richard affermava, a proposito di Les brisants: «Tout entière l’existence se bouche, s’enfonce, s’enterre, ou plutôt se terre. Car si je me convertis ainsi au souterrain c’est encore pour m’y réfugier, pour y fuir la double catastrophe extérieure de l’espace: écroulement des choses et assaut sadique de l’Histoire» (op. cit.). Nemmeno la comba – che dovrebbe passare per arci-immagine testuale – si descrive, in quanto evidenza ‘esteriore’. Nel primo componimento della sezione Combe obscure, essa sembra già trovarsi iscritta (o riflessa) nelle operazioni decostruttive che la scrittura riserva ai cosiddetti ‘effetti di realtà’:

 

Tabulaires, fond et cime

 

et selon l’écliptique creusant

le songe à midi

 

n’étant que l’ample griffure

d’une trace morte

 

fond et cime allégés soudain

 

par l’encre qui s’évapore

 

Il paesaggio tabulare, spoglio e cadaverico, ridotto fin da principio all’astrazione di uno schema, («cime» e «fond», che sono poi le coordinate strutturali di Écart) è lì a testimoniare l’«ample griffure / d’une trace morte». Gli è solo concesso di sovraesporsi, alleggerirsi («fond et cime allégés soudain») fino a raggiungere, per opera dell’«encre qui s’évapore», una sorta di imponderabilità alle soglie del divenire fantasma, della scomparsa. Si sta compiendo l’eterno rito di morte-rinascita (o distruzione-ricomposizione) consustanziale al poiein, come lascerà supporre, qualche pagina dopo, la prosa affabulatrice di L’ongle de serpent: «La soif de massacrer, l’illusion de détruire réintègrent le paysage».

 

Se in Dupin la scrittura è implicata geneticamente con il corpo, ne deriva che anche la geografia corporale s’impernierà sulla scissione e sullo scarto in tutte le sue variabili: faglie, combe, avvallamenti oscuri. È il corpo, è questa ‘singolarità plurale’ (come interi capitoli dell’arte occidentale novecentesca documentano, da Klee a Mirò, da Dubuffet a Wols) che dà il via al processo metaforico più intrigante nella poesia dupiniana. C’è un passo di Écart in cui l’impossibile ricongiungimento delle membra entro l’unità corporea trova un parallelismo, più fisico che mai, nel campo della lingua:

 

On tire des traits vénéneux. On se touche. Ce mot est une épaule, ce mot est un genou, cet autre le nombril de l’épouse asymptotique. Celle qui respire la lavande et la voie lactée. Je rameute les lettres du livre que j’ai brûlé. Je lance les couteaux, tu déploies l’épervier. Bougie contre bougie, dans la nuit plus noire, et la transparence d’une libellule de mer.

 

Dove il compimento dell’unità è ostacolato, a livello scenico, da un lancio notturno di coltelli e dal «déploiement» dello sparviero: «Tu déploies l’épervier». Uno sparviero che da lungo tempo ha depositato le ali e il grifo nei golfi invisibili di questa poesia per simboleggiare il principio stesso, ontologico e semiotico, della lacerazione. Un agire distruttivo e notturno della lettera a cui la mente diurna del poeta oppone a fatica atti riparatori volti al ricomporre e ricongiungere: «Poésie, conjonction de traits épars et de débris érigées, lien tressé de linéaments ennemis».

Il sovvertimento dell’ordine cosmico e dell’armonioso, ‘naturale’ concatenarsi delle cose – di cui noi siamo ingenui spettatori – trova origine proprio negli impulsi rapaci e dirompenti della scrittura. Dupin ce lo sta dicendo fin dai tempi di Moraine: «Commencer comme on déchire un drap, le drap dans les plis duquel on se regardait dormir. L’acte d’écrire comme rupture, et engagement cruel de l’esprit, et du corps, dans une succession nécessaire de ruptures, de dérives, d’embrasements. Jeter sa mise entière sur le tapis, toutes ses armes et son souffle, et considérer ce don de soi comme un déplacement, imperceptible et presque indifférent de l’équilibre universel».

Lo scrivere è un rito catastrofico che ha la sua pointe nel ferire, nel sui-ferire della parola, rito autosacrificale necessario alla medesima per accedere all’ordine del poiein. Il quale, è vero, perseguirà sempre una «conjonction de traits épars» – secondo il dispositivo modulare e la sintassi ellittica che caratterizzano lo stile dupiniano – ma facendo dei singoli «traits épars» i veri punti di fuga del testo, attraverso cui l’affioramento del rimosso, o di ciò che risulta semplicemente remoto (il tormentato romanzo familiare, il paesaggio minerale dell’Ardèche) è reso possibile. Potrà così riverberarsi in noi anche la «nuit remue», il «lointain intérieur» di una voce amica (Henri Michaux) che fa appello ai nostri ricordi più cari: «La nuit remue, écrivait un ami lointain et le plus proche, lointain intérieur, vraie voix des écorchés vifs et la plus sensitive des fleurs nyctalopes». Voce «des écorchés vifs», parole incise sul corpo come l’inesorabile sentenza della macchina nella kafkiana Colonia penale. Ferite, abrasioni del testo che culminano con il suo dissolvimento, quando alla vista e all’ascolto non rimane della parola che lo sciame fonetico primario, centrifugo e senza leggi:

 

De ces poèmes qui talonnent, agrippent, qui sont les vrais empêchements d’écrire, j’aime le grondement, le cri, le flux. L’aphonie des consonnes pulvérisées et des voyelles dissoutes dans l’air. J’aime la fange, les brindilles.

 

Ha perciò ragione Richard nel paragonare l’esperienza del poeta – il suo istinto di predatore, «nictalopo» e dolente – a quella dello sparviero o falcone, il nobile rapace impedito nello sguardo perché incappucciato, che la lirica medievale romanza aveva ricoperto di fasto araldico e che Dupin ha fatto assurgere a emblema della fulmineità dilacerante e cieca:

 

Je marche interminablement.

Je marche pour altérer quelque chose de pur,

Cet oiseau aveugle à mon poing

Ou ce trop clair visage entrevu

A distance d’un jet de pierres.

J’écris pour enfuir mon or,

Pour fermer tes yeux. (La soif, in L’épervier)

 

Ecco dunque il pro-ferirsi, il dirsi dello strazio: rotta interminabile («Je marche interminablement») verso la preda da sottrarre all’astratta purezza dello spazio che la contiene. Una rotta inaugurata da una sorta di slancio immobile che, dietro la simbologia dello sparviero («Lo sparviero è il simbolo, più del predatore, della preda riportata al punto di partenza del volo del rapace», scrive Bigongiari), ci riporta agli artifici dislocanti della scrittura («jet de pierre», «éboulement»), alla legge della sua transitiva intransività; qualcosa di diverso, insomma, dalla generica dimensione autoreferenziale. Qualcosa che va oltre.

 

In che misura, allora, la scrittura aggredisce il reale per dimostrarsi ‘en avant’? Dupin potrebbe estendere a se stesso l’osservazione che un giorno riservò all’amatissimo Mirò: «Il recule les limites du territoire qu’il explore et qu’il fertilise. Il multiplie les incursions, les coups de sonde, les lancers de filets, avec désinvolture et alacrité» (L’impromptu, l’intempestif). Anche nella poesia dupiniana l’incursione comporta l’indietreggiamento dei limiti del territorio esplorato. Sia perché questa poesia agisce spesso, analogamente alla pittura di Mirò, come una macchina di difesa che anticipa le mosse di un ‘fuori’ a sua volta aggressivo e assiderante, sia perché l’atto difensivo si rivela nel medesimo tempo un mezzo per incorporare l’altro da sé, per ‘assoggettarlo’ ai dispositivi segnici. Altri testi ci informano nondimeno che l’esterno, piuttosto che il nemico da abbattere, è una montagna simbolica da scalare come imperativo, in virtù di un’ossessiva coazione a ripetere: «Te gravir, et t’ayant gravie – quand la lumière ne prend plus appui sur les mots, et croule et dévale – te gravir encore. Autre cime, autre gisement» (Gravir). Il ‘fuori’ s’impone inoltre contro gli svalutati interessi dello psichismo e dell’interiorità: «Le dehors, la violence l’abrupt, contre les miasmes et la fétidité du dedans. La récolte du hasard, la récolte du dehors» (Tapies aujourd’hui). Nell’esterno, leggiamo da qualche parte, è in agguato il brusco sradicamento che ci acquieta.

 

Aggredire, secondo l’etimologia latina, significa letteralmente avanzare (gradi) verso (ad). Questa solidarietà semantica tra procedere e aggredire, nella poesia di Dupin, si traduce in elemento performativo: è lo svolgersi del cammino notturno attraverso gli scontri tra il sé e l’altro da sé, con la sua scia di ferite e scarti. Una specifica modalità della poesia, insomma, di essere «en avant». Ma in Écart la tipologia della violenza si estende allo stesso arto locomotore, mettendo a rischio fisicamente e metaforicamente l’‘andare avanti’. L’io poetico qui si assume il ruolo dello zoppo («Je marche en boitant, j’écris en boitant»), mentre l’energia della gamba è trasferita a un sostituto inorganico, la stampella. Una condizione che il seguente brano descrive appoggiandosi senza inibizioni al registro pàtico (non privo di fremiti autobiografici):

 

Obèse. Souterrain. Grand âge. Appuyé sur canne, et tendon brisé, hanche à vif. Claudiquant, louvoyant, achoppant, ralenti par la lourdeur des poisons injectés qui répugnent à se dissoudre. L’œil fixé sur la terre entrouverte, allant moins loin, moins encore. Par le massif d’un sommeil disloquant.

 

Ne risulta un gioco serrato di corrispondenze. Se alla gamba spetta per eccellenza il contatto con la terra, e se essa è per così dire il prolungamento sensibile dell’occhio, si capisce come l’invalidità dell’arto debba conferire a questo contatto (che adombra un legame destinale) accenti parossistici. È come se la terra – divenuta centro dolente dell’attenzione – moltiplicasse le proprie esigenze di venir toccata, vista, indagata nei significati più nascosti. Rivestendo la natura di ‘doppio’, la stampella potrà allora farsi straordinario sensore e medium poetico («Poème de contrebande,/ il dissout l’autre, et les dieux/ il résonne dans ma béquille») o al contrario richiamare «l’ignominia» della «gamba più corta» e, su un asse metonimico, il suo declino, che si materializza nella discarica dove essa rischia di essere gettata («à peine hissée de la décharge/ jetée aux chiens»). È a questo punto che l’inizio si annoda alla fine. Luogo edipico di castrazione ed espulsione evocato con livore beckettiano, la discarica entro cui si strazia l’animo del poeta claudicante va a incontrare la culla degli albori: «Mon père, ma mère qui ne se sont jamais rencontrés, jettent un berceau vide, et lourd, à la décharge publique».

La differenza, lo scarto si neutralizzano così in un’identità ambigua e spettrale: nascita e morte congiunti nell’alveo della «comba oscura», viso non ancora apparso alla luce che già prefigura il «masque funèbre». Enigmi dietro i quali sta all’erta la cecità veggente del poeta. Come si leggeva in Le chemin frugal:

 

Chaque pas visible

Est un monde perdu,

Un arbre brûlé.

Chaque pas aveugle

Reconstruit la ville,

A travers nos larmes,

Dans l’air déchiré.

 

Intravediamo in lontananza la città interrata, la comba oscura della scena originaria invisibile, là dove si concepì la tragica solidarietà di corpo e scrittura.

 

 

P. S.

 

I due maggiori interpreti italiani di Dupin, Piero Bigongiari e Delfina Provenzali, ci hanno lasciato. Il primo, poeta tra i più noti dell’ermetismo e sottile esegeta, firmò qualche notevole saggio, tra cui ricordiamo, per l’acume ermeneutico, Jacques Dupin, «un agonisant debout» (1984). La seconda, a sua volta poetessa, impiegò il suo estro di traduttrice a volgere nella nostra lingua alcuni testi tra i più significativi del corpus dupiniano. Voglio ricordare Ballast-Massicciata (Scheiwiller, 1980), e soprattutto la bella antologia Divenire della luce (con prefazione di Bigongiari), uscita nella prestigiosa collana poetica di Garzanti nel 1986, e fino a oggi lo strumento più importante a disposizione del lettore italiano per conoscere Dupin. Poi, nel 1994, fui io a invitarla a tradurre il trittico Nulla ancora, tutto ormai (Rien encore, tout déjà) per la collana «Alea» del piccolo editore Armando Dadò (Locarno, 1994), collana che allora dirigevo. Delfina stava ultimando la versione di Le grésil, quando la morte la colse.

Il mio ruolo è stato più limitato, ma forse non del tutto trascurabile. Conobbi Jacques a Parigi nel maggio del 1991. Ero andato a intervistarlo nel suo ufficio della Galerie Lelong, confesso con un po’ di ansia, perché ai suoi occhi ero un perfetto sconosciuto. Ma la reciproca circospezione si sciolse in convivialità già al termine dell’incontro ‘di lavoro’; più tardi maturò l’amicizia. Quell’intervista, unitamente a un mio articolo (Linee di rottura, linee di scoscendimento) e alla traduzione di un frammento poetico, sarebbe apparsa nel 1993 nel n. 26-27 di «Bloc notes», una rivista di cultura che si pubblica nella Svizzera italiana e di cui sono redattore. Ci fu in seguito un’importante occasione: il convegno che l’Università degli Studi di Milano, sotto la direzione di Francesca Melzi d’Eril, dedicò all’«Ephémère» (25.11.1999), con la stimolante presenza di Jacques, che era stato uno degli animatori di quella storica rivista parigina. Fui anch’io tra i relatori. Il testo (Dal nevischio al detrito) confluì negli atti pubblicati nel 2001 presso Alinea Editrice.

Continuerò senza dubbio a occuparmi dell’amico Dupin; e lo farò con convinzione, dal momento che la sua opera merita di esser meglio conosciuta in Italia. In attesa di poter dare alle stampe la traduzione integrale di Écart, ne ho proposto una sezione (Combe obscure) alla piccola ma dinamica casa editrice LietoColle di Faloppio. Ora il libro, con i testi francese e italiano ‘a specchio’, è a disposizione dei lettori. Successivamente ho pubblicato altre due parti della raccolta: Enoncé, in «Viola» 3, Lugano, 2007 e Ventouse, in «La Mosca di Milano» 17, Milano, 2007.


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11 giugno 2021
Laboratorio Poesia in prosa

4 giugno 2021
Antologie europee di poesia giovane

28 maggio 2021
Le riviste in tempo di pandemia

28 maggio 2021
De Francesco: Laboratorio di traduzione da poesia barocca

21 maggio 2021
Jhumpa Lahiri intervistata da Antonella Francini

11 maggio 2021
Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

7 maggio 2021
Jorie Graham a dialogo con la sua traduttrice italiana

23 aprile 2021
La poesia di Franco Buffoni in spagnolo

22 marzo 2021
Scuola aperta di Semicerchio aprile-giugno 2021

19 giugno 2020
Poesia russa: incontro finale del Virtual Lab di Semicerchio

1 giugno 2020
Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

30 aprile 2020
Laboratori digitali della Scuola Semicerchio

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