« indietro PAROLE IN COINCIDENZA Tradurre in versione ‘biologica’ di Dominique Sorrente
Esistono certamente in mezzo al mondo degli Oggetti poetici non identificati, forme incerte che non rientrano nelle solite categorie, eppure siamo attratti dalla loro carica di possibile, dallo spirito d’avventura che testimoniano. Il gemellaggio poetico, come l’abbiamo provato a vivere, partecipa a questa dimensione sconosciuta di figura improbabile e da portare avanti per questa stessa ragione. Si è voluto come la traccia viva di una costellazione del linguaggio per sempre in divenire. Da una parte, un gruppo di poeti riuniti a Marsiglia attorno a un luogo metaforico, lo Scriptorium; dall’altra, una città toscana, Pistoia, intrisa di poesia e desiderosa di entrare veramente nel gioco degli scambi fra esperienze. È così che una carovana insolita si è messa in cammino, senza nessun formalismo, ma con la volontà di far poesia con momenti e parole portate fino all’incandescenza. Il gemellaggio è venuto così nella sua gioiosa geometria, con la pratica di incroci molteplici, alcuni ricercati, altri accolti come metafore che rappresentano la parte bella di queste improvvise apparizioni. Gli atelier di traduzione «I mattutini» sono stati uno spazio indispensabile per provare il rischio della parola straniera e, in modo analogo, il desiderio di ospitalità linguistica che è stata alla base di tutti i nostri lavori e, per così dire, li ha messi in luce. Bisogna sottolineare che l’ambito di questa collaborazione è stata la Biblioteca San Giorgio, simbolo di una fertilità culturale contemporanea sorta in mezzo a un’area industriale dismessa. Se la parola ‘coincidenza’ si trova al nocciolo del movimento animato dallo Scriptorium, da dieci anni, è perché richiama un atteggiamento di risonanza nella propria pratica di poesia; e anche in quanto muove con forza la convergenza dei passi degli uni verso gli altri, affinché sia possibile far nascere un’opportunità, un ‘kairós’: per questo, il gemellaggio delle voci, com’è stato proposto a Pistoia, costituisce un’importante applicazione della coincidenza. E come non salutare in primo luogo la coincidenza che ci ha condotti sul percorso poetico di Piero Bigongiari e ci ha permesso di incontrare la sua presenza. Abbiamo imparato ad ascoltarlo in un moto simultaneo di attenzione e di abbandono, e l’abbiamo accolto come in un gesto di coincidenza differita, desiderata, nato da una doppia voce sentita, la stessa che, in un doppio movimento di chiamata e di attesa – nella poesia Nice-Pisa all’inizio del suo terzo libro Il corvo bianco (1954) – «insiste ‘Viens...’, quasi scandisse / un altro tempo, mentre sulla baia / degli Angeli candisce la maretta.» e che confida al poeta: «Ma tu aspetta, tu aspetta, cuore grigio, / se quest’empito è quello della morte / le scintille dei fari non l’accendono». Figure della coincidenza, di cui il poema diventa il crogiuolo. Oggigiorno, quando è di moda scommettere sul proprio individualismo, portato all’estremo in una messa in scena di se stessi, con ciascuno il proprio corteo di ‘buzz’, come tante bolle mediatiche, è cosa preziosa evocare la fraternità che si è mossa a Pistoia, la scorsa primavera, al di là delle differenze di scrittura, come un altro modo di vivere in poesia: sempre soli, ma sempre collegati. L’alleanza fra il cielo aperto e le parole, le pagine coniugate all’eco delle voci, la pratica del cammino sulle mura e della scrittura di paesi sperati, le risate scoppiate a mo’ di punteggiatura: ecco un po' di questa utopia qui rivendicata. A nome dei poeti dello Scriptorium, sono infinitamente riconoscente a Paolo Fabrizio Iacuzzi ed agli autori di cui ha saputo circondarsi, per aver capito che c’era qualcosa di fervido in gioco. Le poesie che seguono e che sono state tradotte durante quei momenti, nel mese di aprile del 2009, sono la testimonianza di questa buona sorte ricevuta tutti insieme. Una vibrazione sonora che ci chiama verso nuovi scambi in Provenza, ormai. Visto che, sui passi dei precursori – da Piero Bigongiari a René Char – altre stagioni ci aspettano per disegnare l’Oggetto poetico non identificato, che non si lascia scrivere in noi stessi. Con transalpino entusiasmo.
*** Il traduttore è traditore, lo sappiamo bene. Non appena l’autore ha voltato le spalle, si vede il traduttore con il suo muso di falsario sottrargli le poesie, infliggendo a queste tormenti dai quali, né le poesie né il poeta, si rialzeranno prima di un lunghissimo tempo. Ecco qua la versione ‘hard’ della tragedia-traduzione, che sempre si ripete appena una poesia prova ad uscire dalla sua lingua di origine per correre nel vasto mondo o per lo meno nel prato vicino. Il mondo dell’impossibile Babele lo troviamo in mezzo a noi ed ha il suo grande sacerdote: il traduttore. A quale versione affidarsi? Quella precedente o quella ‘light’, sorridente, desiderosa di una Pentecoste delle parole, mai raggiunta ma sempre da raggiungere, quella che ci convince che senza traduzione le poesie rimarrebbero sublimi compagne sconosciute? Addiritura così sconosciute che molte dovrebbero darsi da fare per diventare al minimo amiche... che ognuna, a forza di stare nel proprio recinto, un Dio in frammenti finirebbe per non riconoscere persino se stesso! Visto così in questa versione ‘light’, si direbbe che bisogna concedere ai testi letterari l’opportunità di varcare la sponda, sperando ovviamente che non perdano troppe piume strada facendo, che rimangano presentabili, che diano l'essenza del loro essere. Ma che infine qualcosa si trasmetta all’orecchio o all’occhio. In questo modo, nell’atto di tradurre, la poesia cede un po’ delle sue ali ma intanto, nella metamorfosi, guadagna sempre anche una nuova esistenza: tale è la fiducia che ci mette in cammino. Ora ecco che interviene la piccola verità che vorremmo suggerire. Come ha detto in modo giusto Emil Cioran, «non si vive in un paese ma in una lingua». La lingua detta materna è il bene comune nel quale condividiamo i nostri modi di espressione. Ma la lingua è anche confine che ci impedisce di giungere agli altri universi linguistici del mondo senza la fatica del passaggio. Bisogna così ricorrere all’ospitalità linguistica, affinché diventi una delle dimensioni dell’etica. Quando si parla di poesia, la parola viene rivestita di un estremo valore, dato che la poesia si nutre della stessa esperienza del linguaggio. È quindi in una lingua con i suoi principi, le sue strutture e le sue tonalità che la poesia ad esempio viene consegnata. La missione della traduzione allora è doppia: 1. individuare gli attributi della lingua originale come quelli della lingua di arrivo; 2. vedere in che modo la poesia si è mossa nella propria lingua e come si possa incontrare l’equivalente nell’altra lingua. ‘Trasposizione’ sarebbe allora il termine idoneo, piuttosto che parlare di ‘traduzione’. Da ogni punto di vista, un vasto programma! In questo procedimento, il dispositivo dell’atelier di traduzione, com’è concepito allo Scriptorium, potrebbe ben rivelarsi una versione ‘biologica’ della traduzione. L’idea è semplice: si tratta di lavorare in gruppi di due o più nazioni, in presenza degli autori. Nella formula più equilibrata, ogni poeta propone la traduzione di un testo e diventa anche lui, nella fase successiva, un traduttore. Nella riflessione comune, la poesia può essere interrogata sia complessivamente, sia nei suoi particolari. Il poeta è chiamato a dare un riscontro dell’oggetto verbale che ha fatto nascere. Nel dibattito si potranno confrontare, nello spazio della pratica del poeta, non solo i vocaboli ma anche la forma, la sintassi, gli accenti e la punteggiatura. Ecco un bel modo di buttarsi nell’avventura e c’è un maggior interesse, come un maggior piacere, se le proposte vengono discusse. Ogni volta, l’autore deve riprendere in mano la sua poesia. Una delle domande, fra le più banali e le più imbarazzanti, che spesso tormentano chi pratica la poesia potrebbe risvegliarsi: «secondo te, perché, nella tua lingua, questa poesia è una buona (o una scarsa) poesia?». Scommettiamo che acute saranno le risposte al termine dell’atelier.
(Traduzione di Valérie Brantôme e di Paolo Fabrizio Iacuzzi)
Dominique Sorrente è nato nel 1953, vive a Marsiglia dove è professore di Cultura e Umanità nell’Insegnamento superiore. Nel 1975 fonda la rivista «Valanga». Le sue prime poesie vengono pubblicate nella rivista «Sud» negli anni Ottanta. Scopre la città di Sorrento nella baia di Napoli e sceglie di abitarne il nome. Dà inizio allo Scriptorium nel 1999. È stato onorato con parecchi premi letterari per la sua opera che include una ventina di libri, antologie e lavori collettivi e una centinaia di pubblicazioni in riviste francesi ed internazionali. Pubblica nel 2009 due libri digitali Ce que raconte la fabrique (Éd. Publie.net: http://www.publie.net) e un’antologia cartacea che rintraccia trent’anni (1978-2008) del suo itinerario poetico: Pays sous les continents, Éditions MLD: http://www.editions-mld.com). Il sito web dello Scriptorium è: http://www.scriptorium-marseille.fr Poesie tradotte ai «Mattutini»: Garder le tempo, Peuple des nombres e Une apocalypse, en passant, inediti tratti da una raccolta intitolata Nombres premiers, nombres derniers.
Due poesie di Dominique Sorrente tradotte da Maura Del Serra
Una poesia di Maura Del Serra tradotta da Dominique Sorrente
(Da L’opera del vento. Poésie 1965-2005, Marsilio, Venezia 2006) ¬ top of page |
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