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SERICA DELECTA

CINQUE CIMENTI PARAFRASTICI

a cura di Massimo Scorsone






Testimonianza di una privatissima e inveterata consuetudine di interpretazione e traduzione da un idioma tuttora noto a chi scrive in maniera poco più che indiretta, le versioni inedite proposte in questa sede alla lettura costituiscono, in realtà, altrettanti esperimenti di libere rielaborazioni da alcuni dei maggiori lirici cinesi di età aurea (tutti astri della folta pleiade T’ang [1]) nella lingua [2] appresaci da Orazio e da Catullo, non plagosi magistri.
Opzione pretensiosa, discutibile, e artigianale quanto si vuole ; ma a proposito della quale non parrebbe incongruo rivendicare, almeno in accezione a minori, qualche affinità con la pratica poetica imagista, strettamente funzionale a una più aderente comprensione di testi – e, ad essi sotteso, di un ethos linguistico e culturale – altrimenti impervi al profano, sinologo non per dottrina ma per temeraria curiositas, cui talvolta è occorso di notare, con stupore appena mitigato dalla consapevolezza [3], qualche candido barbaglio di marmi tra il monotono verzicare dei bambù. (E qui ci fermiamo. Un po’ di cautela è doverosa: il passo successivo, fatalmente, ci condurrebbe – ci ha già trascinati – all’anamorfosi). 
 All’orecchio educato il compito dunque di cogliere, attraverso il gioco degli adattamenti e delle mutue corri spondenze tra modelli lirici sovranamente formalizzati, gli echi suscitati da tali fuggevoli impressioni. Più costante, la nota di sottofondo della barbitos – o della p’i p’a – ri suonerà a onore di Federico Madaro, che con paziente e amicale indulgenza ha propiziato l’allestimento di code sto minimo Cathay provvedendo a reperire i testi degli originali, sommariamente snelliti di ideografie troppo arcaizzanti ed esemplati sulla scorta delle migliori edizioni disponibili. 
 
 Nota: perite di lettere siniche, le pie non meno che audaci lettrici (o lettori, se ancora ve ne sono) di poesia non cerchino in questo vuoto sepolcro risorti Du Fu o Qian Qi – ché ammettiamo di condividere qualche ceronettia na riserva nei confronti delle «snaturate trascrizioni» del pinyin –, di cui forse rinveniranno appena le sfocate fat tezze riprodotte sui latini lini funerari provveduti dalla nostra malaccorta devozione di dilettanti. Gli immortali cui intendiamo rendere omaggio nella lingua dell’impe ro gemello di Ta Ch’in risulteranno invece catafratti, con forme la tradizione gesuitica, in astrusi quanto giovevoli adattamenti onomastici ‘alla latina’ (o ‘alla greca’) quali Typhoius, Quinctius, eccetera. A meno, naturalmente, di non venire corsivamente evocati in apparato come Tu Fu, Ch’ien Ch’i e così via, juxta Wade-Giles.
 

 

 

 

 

THYIADII
(Chia Tao)
[4]

Anachoretam quemdam quaerit poeta,
neque tamen invenit

Pinus subter, ab assecla
Deserti dominum jure requirimus.
Is vero «procul hinc pater:
Herbas jam medicas ipse per ardua


Terrarum, atque virentia
Collecturus abit, nubibus abditus
Spissis,» inquit, «et aëre.
Quo secedat... io! me penitus latet.»[5]

 
 

VANNEII
(Wang Wei[6])


Ad Thamum praefectum responsio


Tardus extrema fugientis aevi
Luce, at ipse umbris, otioque pronus,
Omnium nulla remorante rerum
Fata subibo,

Plurimis fessam gravibusque curis
Denique abducens, pia corda, mentem
Semet a spe quae pariter, metuque
Vindicet ipsam.

Nil mihi celsum, neque grandiora
Vota jam propono animo; sed imo
Restat haec, et parva quidem, cupido
Pectore sola:

Vix virum tandem memori suique
Prisca lucorum huic homini silentia
Altaque obtingat petere, atque silvae
Nocte recondi.

Pineis motante igitur sub antris
Spiritu cinctum tunicamque solvo,
Cum vagam plectro recinam sopora
Per juga lunam;

Illius causas tamen, illiusve
Num rogas Fortis nimis implicatas?
Litora immo, audi, fluvialis afflat
Vltima cantus.



QUINCTII
(Ch’ien Ch’i[7])

Ad Janum censorem invitatiuncula,
e cubiculo Cucuphate quod vocitatur data

Dumos inter et aggeres profundus
Ad tectum stipulis harundinetum
Ducit rivulus, et casas virentes,
Sursum camphorinis uterque truncis
Coelum dum paries rubore tinctum
Concludit, reserantibus procellis;
Fragrat post pluviam nitetque gramen,
Nec mons vespere displicet, severae
Cum, jam deficiente sole, rupes
Et moles nemorosa, saltuumque
Prono lumine lustra vestiuntur;
Mature vetus, ut solet, revisens
Passis ardea commeat cubile
Alis, atque pia manu caducos 
Autumnus remoratur ipse flores:
Quare nuper ( heri modo ) salebras
Purgavit puer et viam quibusque
Sarmentis, monet ut decor, jubetque,
Praestolans aditum tui serenum.

 

TYPHOII
(Tu Fu[8])

Lunam hortatur,
ut offuso lumine castra tyrannica
fastidiose deficiat


Instans apertis jam patente insignibus
Notatur autumnus polo,
Quo plena longe luna diffuso viris

Lateque fulget lumine:
Ita, noxiali lenta bufo gurgite
Securus insilit vada,
Longaeva ut ille tundit in mortario
Lepus, teritque gramina.
Gliscit sed unus igneis dolor mihi
Praecordiis trementibus,
Parum repexas candidum magis comas
Dum fit senescenti caput.
At, desuper quae contueris omnia
Ab arce, luna, caerula,
Parmisne cernis ut redux hostilibus
Pilisque clauditur via?
Carente voltus Occidentis finibus
Aufer, precamur, sidere.[9]

 

TYPHOII


Semet a patriis laribus poeta queritur absentem,
parvoli filii desiderium aegre ferens


Quam me lusciniae verno piget exulem sub aestu
Meoque longe Mannulo[10] carentem!
Tamque levi sine te labi pede tempus, ac fugaci,
Demiror ipse; sed, rogo, quis unquam
Dum laeto crescis, puer, augmine, nunc meam videbit
Prolem? fragosi fontibus tumores,
Devius an per agros trames? focus aedium malignus,
Pagana canis anne opaca silvis?
Sic miser excrucior, placida quoad, impotens, parumper
Somni quiete mergor, et teporis,
Cum desiderium demum mihi sublevetur ingens
Pigris foventi terga fulcimentis. 

 

 

 

NOTE

1 La vistosa assenza di Li Po/Leporius è, almeno in parte, giustificata dalla recente pubblicazione di un trittico di Latinae paraphrases da carmi del medesimo in appendice a M. Scorsone De Li Tai Po clarissimo Sinorum poeta speciminibus quibusdam eius operis additis, «Vox Latina», fasc. CXLVIII (t. XXXVIII), 2002, pp. 183-191.
2 Lingua ‘mandarina’ anch’essa, per noi, e codice perfetto di elocutio artificialis che solo, azzardiamo, potrebbe forse rappresentare, in astratte condizioni di reciprocità culturale, l’espressione simbolica di una serie di istituti approssimativamente analoga a quella veicolata dal sistema semico originale.
3 «Molte poesie dell’epoca T’ang hanno accenti oraziani» (G. Bertuccioli); ma anche tibulliani, se non ci inganniamo, e vergiliani, e properziani...
4 Monaco buddhista (Fan-yang, Hopei, 777-841), compose quat tro libri di liriche in metro vario, da cui la tarda antologia del T’ang shih san pai shou distilla quest’unico, meditativo componimento bre ve, in bilico sul nulla ma non ‘insignificante’, e materiato anzi di una rarefatta percezione d’inanità.
5 La suspension of disbelief – il sentimento di ‘sospensione’ tout court – è sortilegio irradiato sul discepolo ignaro dall’elusiva presenza del romito, arhat cercato e non trovato, come lo sponsus del Cantico, celato com’è tra nebbie e monti al di là dell’ultimo verso della quartina (o, per dir meglio, del chüeh chü «ottava interrotta»).
6 Pubblico funzionario, medico e pittore (Ch’i-hsien, Shansi, 699 759) noto anche come «vicepresidente Wang» – Wang Yu ch’eng dall’alto incarico ricoperto al termine di una lunga e, tutto sommato, fortunata carriera governativa. La malinconia, lo struggente disincanto, tra buddhistico e taoistico, espressi dal carme originale, in penta sillabi ‘di stile nuovo’, si aureola in parafrasi (forse inevitabilmente) di un nimbo di spiritualità epicurea, ma scevra di ogni orgoglio, di ogni corrivo disprezzo. Il mormorio del vento tra i pini, l’allentarsi del cingolo e della veste alludono e preludono miticamente al mo mento in cui si spiccherà il volo sulle ali della gru: al vagheggiato attingimento dell’immortalità.
7 Originario del Wu-hsing, Shansi (floruit ca. la metà del sec. VIII), fu legato di cordiale amicizia con Wang Wei. Ravviata in impeccabili stilizzazioni ecfrastiche, la gracile eleganza di questa garbata paraklesis, da gentiluomo a gentiluomo, ne riscatta facilmente gli stereotipi d’obbligo, la rigidità un po’ inamidata del dettato: non più di educata routine, di verseggiatura d’occasione che, quantunque meno affettata, richiama tuttavia dappresso, in contesti non troppo dissimili, esempi altrettali – pensiamo soprattutto a certa sussiegosa produ zione ‘epistolare’ spätantike, da Ausonio ad Apollinare Sidonio, modello ad analoghe fatuità rinascimentali – di una poesia intesa come pratica di quotidiano commercio sociale, prestigioso diporto di lette rati-burocrati e alti funzionari.
8 Il «poeta-santo» della tradizione (prefettura di Ch’ang-an, 712 770); «il più grande poeta cinese» (E. Masi), o comunque l’unico a poter contendere tale primazia all’«immortale» Li Po.
9 Lirica dell’amarezza e della lontananza, il componimento sfrut ta sapientemente gli effetti contrastivi di filigrane fiabesche – le figure in orbe lunae care all’immaginario popolare estremoorientale: la fuggiasca mutata per malìa in rospo, il coniglio che triturando erbe nel suo mortaio prepara l’elisir della longevità – allo scopo di dare sfogo e risalto alla nostalgia della patria lontana e, più ancora, a un lealismo politico apertamente professato. Le drammatiche circostanze storiche (e biografiche) sono quelle ben note della guerra civile che, scoppiata nel 755 con la ribellione del magister militum sogdiano An Lu-shan, colse inopinatamente Tu Fu oltre le linee nemiche, a lungo impedendogli di raggiungere la corte imperiale dell’augusto Hsüan-tsung in esilio a Ma-wei.
10 Chi Tzu «Puledrino» è ‘nome infantile’ del primogenito del poeta. Più volte tramandato, il signum del figlio prediletto sigla discretamente l’intero ciclo lirico che potremmo convenzionalmente indicare come ‘canzoniere del rimpianto’. 

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