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FRANCESCO SCARABICCHI, La figlia che non piange, Torino, Einaudi 2021, pp. 160, € 13,00.

 

(pp. 113-114).

 

Apparso postumo, a pochi mesi dalla precoce scomparsa dell’autore, La figlia che non piange segna, fin dal titolo, una continuità con le numerose opere precedenti ma insieme un sussulto che si potrebbe definire quasi sperimentale. A partire dal libro d’esordio, La porta murata (del 1982), molti dei titoli di Scarabicchi sono stati caratterizzati da una forma ricorrente: un sostantivo, seguito poi da un aggettivo o da un sintagma non di rado negativi: La porta murata, Il viale d’inverno, Il prato bianco, nei quali l’assenza, la cancellazione, la precarietà (indotti dall’azione inesorabile del tempo, nel primo caso; o dall’intervento del campo metaforico dell’inverno, negli altri due) sono immediatamente dichiarate. Così è anche in questa raccolta, che tuttavia affida la negazione a una citazione da Stella variabile di Vittorio Sereni: primo elemento di anomalia nella continuità e probabile allusione al valore quasi testamentario dell’opera, come accadde al grande libro di Sereni. Ancora prevale, in quest’opera per molti versi estrema, il tema dell’assenza, della vita affermata e negata, e anzi condotta al suo limite ultimo; ma in passato l’assenza che premeva sull’io proveniva innanzitutto dall’esterno (il trauma fondativo dell’orfanità, cui seguiranno altri motivi di lutto e di mestizia, altre scomparse brucianti), accendendo nei testi poetici la costante coscienza della finitezza, della scomparsa, del nulla e, per converso, potenziando a partire da lì l’istante luminoso e irripetibile, la cosa che davvero conta, splendida nella sua fragilità. In questo libro, invece, l’assenza che si respira, soprattutto nella sezione forse maggiore dell’opera, significativamente intitolata Lettere dall’esilio, è legata alla coscienza della fine imminente, al prossimo venir meno dell’io: «qui regna il tempo che scompare» recita un incipit memorabile, cui fa eco poco dopo «Si disfa ad ogni passo, vita d’ogni altra vita», o ancora, nella sezione Dediche, «Ah, il tempo che passa alle mie spalle». Una simile, dolorosa meditazione su quella che con Antonio Porta potremmo chiamare L’aria della fine porta con sé un altro motivo fondamentale dell’opera, cioè il motivo del tempo, che in questo libro è contemporaneamente tema costante e elemento strutturante. Sin dal Prologo, infatti, il tempo è chiamato alla sbarra nella sua essenza impalpabile, inarrestabile e sfuggente, responsabile del venir meno di tutto: «Si decida il contabile del tempo / a restituirci gli anni non vissuti, / tutti i sogni, le cose, i persi sguardi, / le idee che vanno, veloci, a scomparire. / Che si decida presto a rimborsare / quanto ognuno ha mancato, / smarrendo dell’amore il caro nome». La parola poetica, secondo un’antichissima dialettica, prova ad opporsi a questo inesorabile svanire delle cose e della vita stessa, con «l’illusione precaria di ogni verso / credendo di salvarlo almeno in parte / quel lucente frammento tolto al buio, / quell’oro di granelli che si perde, / quel segreto mistero inesistente» (sono i versi conclusivi di Una residenza): ma è una lotta impari. Il tempo, tuttavia, agisce anche in altro modo, come vero e proprio collante dell’intero assetto del libro: che inizia e finisce con due sezioni marcate da una data (1990, all’inizio; e Album 1980, in chiusura di volume), e che contiene nella parte centrale un’altra ampia sezione in cui il suo fluire è subito rilevante, cioè i Frammenti dei giorni, dei mesi e delle stagioni. I lettori di Scarabicchi non faticheranno a ritrovare, nei versi de La figlia che non piange, la voce esatta, scandita, che è da sempre uno dei tratti riconoscibili di questo poeta: la voluta chiusura nel giro dei metri canonici (l’endecasillabo, l’amatissimo settenario), la lingua media, che non prevede escursioni notevoli verso l’alto o verso il basso, e insomma la fedeltà a dei modelli che retrocedono verso Saba e Leopardi, passando per le stazioni intermedie dell’amico e maestro Franco Scataglini, di quel Giorgio Caproni cui è dedicata la sezione iniziale, e di una non vastissima famiglia che ha scelto di interpretare in modo volutamente anomalo la modernità, deviando rispetto all’asse portante del ’900 italiano. Eppure questa scelta di nitore e cantabilità, in Scarabicchi come negli altri ora accennati, non fa che intensificare la forza drammatica del verso, «la smarrita armonia / che non esiste » (Visas per Francesco Scodanibbhio), «l’aspro del melograno e la dolcezza / del sonno della vita, ramo e soglia», creando un costante cortocircuito tra perfezione ritmica e tragicità del dettato. Tuttavia, anche su questo piano formale, e anzi soprattutto qui, La figlia che non piange offre un ventaglio tutto sommato inedito di soluzioni e di esperimenti espressivi: le forme che si affiancano lungo le pagine della raccolta sono in effetti assai variegate, se dai versi-versi si può trascorrere fino alle prose di Album 1980 (e la Piccola premessa che le inaugura sottolinea infatti che «chi scrive versi abita la prosa come una seconda casa nascosta»), passando attraverso la terra di mezzo dei Poemetti, testi tendenzialmente lunghi, dalla metrica ora regolare ora spuria, in cui un tratto narrativo può venire alla luce parcamente. E ancora, nella sezione Dediche si troveranno poesie che convocano esplicitamente, quasi per un ultimo saluto, alcuni degli amici e compagni di via, da Gabriele Zani a Valeriano Trubbiani, a molti altri; mentre nei Giorni Scarabicchi si concederà all’esercizio dell’acrostico. Non si tratta, si può credere, di un cedimento finale, o della compresenza casuale di tratti stilistici divergenti; piuttosto, in un autore che aveva sempre, caparbiamente tentato di perseguire un’uniformità e una coerenza espressiva perfettamente riassunte in un sintagma tutto suo, come «il garbo e la misura», si potrà leggere questa sobria apertura sperimentale come un ultimo gesto di libertà, un estremo tentativo di opporre alla disgregazione provocata dalla malattia e dal tempo una sorta di ilarità creativa, di serissimo gioco. Del resto, si potrà ricordare come anche in passato, in maniera forse più dissimulata, Scarabicchi non si era affatto negato qualche felice scorribabanda compositiva: ne fanno fede la Via Crucis (edita nel 1994 con incisioni dell’amico Giorgio Bertelli per L’Obliquo, e poi ripresa nel 2018 per L’Arcolaio) e il libro apparentemente più anomalo, quella rivisitazione in versi della vita e dell’opera di Lorenzo Lotto che si intitola Con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto, (Liberilibri, 2013); ma si potranno ricordare anche i Frammenti dei dodici mesi, che prima di giungere al presente libro erano apparsi, in dialogo con le fotografie di Giorgio Cutini, sempre per i tipi de L’Obliquo.

«Un’altra età del tempo adesso chiama, / di passi e di parole, un altro viaggio, / nell’intenso clamore del mattino»: tre versi soltanto, ma un’intera poesia, che forse meglio di altri riassume la postura dell’io che parla in questo libro, la fermezza della sua voce; ma c’è, in questi versi, anche qualcosa che riguarda il lettore, il lettore fraterno che ora scrive di Francesco Scarabicchi, nella coscienza che la sua scomparsa apre davvero «un’altra età del tempo», dentro la quale La figlia che non piange, insieme a tutta l’opera di questo poeta che troppo a lungo ha atteso di essere pienamente riconosciuto, saprà ancora interrogarci, guidarci, prenderci per mano.
                                                                                                                                                                   (Fabio Pusterla)


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