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ROSARIA LO RUSSO, Anatema, Pavia, Effigie 2021, pp. 131, € 15,00;Unamedea, Installazioni di Riccardo Bargellini, con una nota di Paolo Maccari, Livorno, Premio Ciampi - Valigie Rosse 2021, pp. 53, € 10,00.

 

(pp. 104-105).

Dalla performance al libro (e ritorno), Rosaria Lo Russo ha saputo inventare uno spazio ‘pagina/palco’ unico, identificativo di una scrittrice che va considerata come ‘aumentata’ dall’artista performativa. La presenza di 'due artiste in una' porta con sé una sorta di condanna all’amplificazione che ha come manifestazione più immediata l’abbondanza quasi barocca di timbri, voci e registri che caratterizza da sempre i libri della poetessa fiorentina. L’invenzione linguistica non deve però fare dimenticare l’investimento, crescente, sulla forma progettuale dei testi. I due libri più nuovi, usciti a breve distanza nel 2021, sono formalmente molto diversi ma hanno però una figura tematica/strutturante in comune: quella della sposa. L’autrice posa in abito bianco sulla copertina e poi, corsettata in sinistri corpetti anatomici, nelle pagine interne di Anatema (foto di Enrico Donzellotti). Medea, la principessa barbara sposa di Giasone, è quindi abbandonata in vista di un altro matrimonio, quello con la grecissima figlia del re di Corinto, in Unamedea. Il messaggio non può essere più chiaro: la figura della sposa è quella della vittima sacrificale (il delitto di Medea che uccide i figli e la rivale è rubricabile come ‘legittima difesa’) e si offre dunque come condensatore di una lettura propriamente gendered di entrambi i libri. Mentre in Anatema, il filo è scopertamente autobiografico (il tema matrimonio di per sé non sembra avere rilevanza se non aneddotica), nel secondo, la rivisitazione del mito non deve ingannare. Come scrive Paolo Maccari nel saggio di presentazione del volume: «l’autobiografia» è «un tratto fondamentale dell’ispirazione di Lo Russo», l’«interferenza teatrale» crea una «continua dialettica tra confessione e cammuffamento». Insomma, anche Medea, in quanto performata, è figura autobiografica.

In Anatema, la storia personale di un’educazione (o diseducazione) fiorentina e sanfredianina, conosce il suo prolungamento generazionale (e la scoperta del ‘noi’ è tematicamente una novità in Lo Russo): «Noi del baby boom siamo nati nell’età dell’utopia»; dai tumultuosi anni Settanta (con «linus e gli indiani metropolitani») si va incontro al riflusso dei decenni successivi (in quarta di copertina, Vito Bonito, che già si è misurato con l’esperienza degli ‘Anni di piombo’ nel suo Di non sapere infine a memoria, 2021, parla di «forte chiasmo tra autobiografia e storia»). Il percorso inizia nel segno di un’iniziazione sessuale e politica che intreccia libido e violenza, soprattutto subita ma liberata/sublimata nella lingua, un declamato in cui il lapsus («Mangio le polpette della colpa // le colpette // è quaresima») prende uno spazio quasi assillante, in tono con la rappresentazione di una caduta, dall’infanzia alla nevrosi adulta. Saliscendi nell’uso dei registri, come al solito, non mancano: dal triviale ralenty da spaghetti-western alla Morricone (l’indimenticabile «sciom sciom», colonna sonora di Giù la testa), al vernacolo (la traslitterazione «la tìciar», la prof d’inglese), al mistico («Mi rinchiuderò nel recinto di Dio»). La costruzione abbandona gli spazi metrici rosselliani delle ultime raccolte per riannodare il filo metrico palazzeschiano, dove la voce si fa querula. I vuoti metrici tra un verso (o gruppo di versi) e l’altro potrebbero invece avere un valore installativo, se rappresentano plasticamente quel «vuoto-pieno» descrittivo del campo neurofisiologico dell’orgasmo femminile. Pesa qui l’omaggio a Valerie Solanas e al suo Scum Manifesto. Il fatto che il libro appaia come tappa della Bildung dell’autrice impedisce comunque (fortunatamente) di farne un ‘concetto guida’ rigido e strutturante, tanto più che il maschio fallocrate (ed è questa la vera eredità di Solanas) non è un nemico serio. O agisce per ragioni sociali (come i ragazzi delle case popolari che ‘stuprano’ la bambina borghese all’uscita della scuola) o è un cinico borghesotto come il Giasone di Unamedea. Anche la violenza, quella vera, sembra un affare da donne. La sua liberazione mitica e sensuale nella figura di Medea la barbara, ha un ambiguo rovescio nella cugina Francesca di Anatema, amica e stupratrice e ha, nello stesso libro, una sua caricatura nella menade da palcoscenico, «parrucchiera e parruccona», che sembra adombrare fenomenologie festivaliere alla Mariangela Gualtieri («Ave poeta, piena di gioia / avvocata nostra di impegno civile e umana empatia / ammantata di vacua eloquenza e umana semplicità / allupata di successo nelle / gare nazionali e internazionali / di calocagazìa performativa»). La lezione fiorentina di Scum manifesto è insomma che è inutile prendere a revolverate il nemico che per manifesta debolezza trova già abbondante smascheramento e punizione.

Proprio per questo, la sconfitta di Medea non è tanto dovuta alla maschia vigliaccheria di Giasone («devi portare a termine il tuo compitino di oggi, omarino greco, franco e civile»), ma, in modo felicemente riuscito, è di natura sociolinguistica. Medea, «la ragazza ferragna dai seni pesanti e i capelli ammassati / come nasse gonfie di sale nero, nasse in risacca / la tua pelle scabrosa, escoriata nei boschi », portatrice di una sensualità animale («Quando stavamo laggiù con quelle tue tettone dure mi ricordavi le pecore d’oro dei vostri pascoli immaginari, mi facevi godere forte quando mi sbattevi in faccia le tue tettone sode»; «ti ho trascinato per boschi di pornografia e di riproduzione») soccombe perché è la rappresentante dell’altro, di tutto ciò che è straniero e diverso. Giasone è infatti «Il primo colonialista della nostra storia leggendaria». Nella lingua sono la sconfitta e l’oltraggio patiti da Medea. Tecnicamente e con traduzione in una sensualità stavolta ‘elegante’: «se Medea fosse esistita e avesse parlato forse avrebbe parlato megrelio, una lingua cartvelica, una lingua subcaucasica, quella della attuale Georgia occidentale, una lingua piena di suoni vertiginosi e con un alfabeto dalla grafia lussureggiante e deliziosa come una mela...». Fuori contesto, diventa invece: «Straniera, allora e sempre, linguisticamente straniera Medea. Estranea a tutti noi, l’assassina di maschi. Nemica della nostra civiltà, così l’hanno voluta». Medea parla male il greco e resta per questo esclusa dall’educazione dei propri figli («Potevo neniare con i miei suoni i loro primi sonni, i loro mal di pancia dei primi mesi. Ma poi, anche se lo facevo male, dovevo parlare loro in greco, così ho parlato poco e male con loro»). La conseguenza logica e imparabile è che Medea, non più madre perché privata della possibilità di trasmettere la lingua materna, non è più un’assassina: «i tuoi figli greci sono morti, non i miei bambini». Proprio da uno dei monologhi di Medea preleviamo un elemento importante che ci riporta a Anatema e svela, insieme, un concetto applicabile a buona parte del lavoro di Lo Russo. Medea si esprime in una finta barbarolessi, fatta in realtà tutta di elementi italici dialettali/arcaicizzanti ma con effetto di pseudo-greco (si notino gli accenti, le uscite in -oi, -ei): «uccido i mei figli mèi mèi me uccido distrutta uccido me/te figli tòimèi me mèi filii tòi filii fiiiliii», cui corrisponde altrove il greco-greco me mèdomai. Anche Anatema contiene un esempio di barbarolessi di cui è facile ritrovare l’origine nel libro dell’etnomusicologo Steven Feld, Suono e sentimento. Uccelli, lamento, poetica e canzone nell’espressione kaluli (originale 1982), frutto delle ricerche ricerche sulla lingua dei Bosavi (Papua Nuova Guinea) ispirata a patterns del canto degli uccelli. Il libro figura infatti, con Scum manifesto, nella nota finale di Anatema tra i testi ispiratori di tutta una vita. Ecco i versi in questione: «Questi non sono versi / ma voci nella foresta // ne ade kibabe // ne adeloma // ne ade malobo // ne ademaka kemi // ne adeloma // Supplica ustione // se avessi * non avrei più fame». Si tratta di citazioni di frasi Kaluli tratte dal libro di Feld, il cui denominatore è la presenza dell’elemento ade, ancipite dal punto di vista del genere perché cumulativo delle nozioni ao ‘fratello’ e ado ‘sorella’, o piuttosto portatore di una «shared substance». Utilizzato in allocuzioni di uso reciproco, non è gendered grammaticalmente e di per sé anche se il suo uso dipende contestualmente di una ripartizione dei ruoli per sesso e per età. Soprattutto, Feld ha forgiato il concetto della mimesi schizofonica che descrive la separazione di un suono dalla sua fonte emittente e la sua ricontestualizzazione in una situazione diversa. Vale anche, banalmente, per ogni tipo di registrazione e dunque, pensiamo per Lo Russo, anche per la traccia transmediale che il suono lascia sulla pagina. Il riflesso sociale della decontestualizzazione del suono può portare tanto alla creazione di una lingua nuova (come nel caso della mimesi operata dai Bosavi), che, su un piano politico, allo spossessamento della libera voce. Per Lo Russo, la voce, all’atto di passare sulla pagina si trova comunque al centro di una situazione di schizofonia: porta l’impronta forte di una mimesi radicata nella storia della dizione scenica e insieme la sua esposizione sanguinosa e vitale a educazioni, repressioni, iniziazioni storiche e biografiche. La possibilità stessa di perpetuare una tale mimesi (che il prefisso schizo- lo porta a meraviglia) è, di tutta la poesia di Lo Russo, il motore intelligente e la fonte di ogni arricchimento possibile della parola scritta.

                                                                                                                                                        (Fabio Zinelli)


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