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ANNE CARSON, Eros il dolceamaro, traduzione di Patrizio Ceccagnoli, Milano, Utopia 2021, pp. 224, € 21,00.

(pp. 98-99).

 

È abbastanza comune che uno studioso pubblichi la propria tesi di dottorato, anche a distanza di anni dalla prima stesura, eventualmente dopo averla modificata o, in alcuni casi, riscritta per la gran parte. È meno frequente, invece, che una tesi di dottorato sia raffinata dal punto di vista scientifico e, al tempo stesso, comprensibile e piacevole da leggere anche per i non addetti ai lavori. Eros il dolceamaro è entrambe queste cose. Il primo saggio pubblicato da Anne Carson (1986), tradotto in italiano da Patrizio Ceccagnoli per Utopia (2021), riprende la sua tesi di dottorato dedicata a Saffo. Non è necessario conoscere la lingua o la letteratura greca, per seguire i ragionamenti di Carson, perché tutte le citazioni sono presenti in lingua originale, in inglese (cioè nella traduzione di Carson stessa) e in italiano (in una traduzione controllata dall’autrice). Lo scopo del libro è molto semplice: è uno studio sull’eros, per il quale Saffo ha il merito di aver dato la definizione più icastica che si possa immaginare, ossia «dolceamaro» (glukupikron). In inglese questo aggettivo viene tradotto da Carson con sweetbitter, che ricorda il più comune bittersweet; tuttavia le due parole non coincidono, perché la dolcezza è l’emozione che percepiamo per prima, nell’innamoramento, mentre solo in un secondo momento subentra l’amaro della sofferenza, che può derivare dall’impossibilità di realizzare il desiderio – come nel caso del frammento 31 di Saffo, più volte commentato nel libro – oppure dalla sua fine.

Eros il dolceamaro si compone di trentaquattro capitoli, che sono dedicati soprattutto a Saffo, ma non esclusivamente: vengono commentati anche frammenti di Archiloco, Pindaro, Aristofane, Catullo, Dante, Donne, Rilke, Barthes; infine, nella seconda parte, viene dato molto spazio al Fedro di Platone. Ciò che accomuna questi testi è che descrivono i paradossi al centro del desiderio amoroso: ad esempio, la compresenza di piacere e dolore, parti integranti e inevitabili del desiderio; oppure il legame fra amore e assenza. Nel momento in cui l’amore si realizza, il desiderio svanisce («Chi potrebbe desiderare ciò che non se n’è andato? Nessuno. I greci sono stati molto chiari su questo. Per esprimerlo, inventarono l’eros», p. 25). I lirici greci hanno rappresentato l’eros come una mancanza, e per farlo hanno elaborato varie strategie letterarie, come la triangolazione del desiderio. L’azione di Eros non unisce come un filo diretto amante e amato, bensì ha una struttura triangolare, cioè comprende anche un terzo componente che si insinua fra i primi due per ostacolarli: può essere un’altra persona, dunque un rivale, oppure una serie di vicende sfortunate che comporta una separazione. Questa distanza fra amante e amato – rappresentata, nel caso del frammento 31 di Saffo, dall’uomo che ascolta la ragazza della quale è innamorata la poetessa – è indispensabile per mantenere vivo il desiderio, e per mettere in moto il processo di espansione e di ridefinizione del sé («sostantivo in senso stretto, l’eros agisce ovunque come verbo») che si innesca in una persona innamorata, cambiandola profondamente. Eppure, Eros viene sempre descritto con parole riconducibili al campo semantico della dissoluzione o dell’aggressione: l’ampliamento di conoscenza che deriva dall’amore, insomma, è il risultato di una conquista dolorosa.

A questo punto inizia un paragone che è forse il fulcro del libro: quello fra eros e linguaggio, nonché fra eros e letteratura. L’alfabetizzazione, ricorda Carson, è arrivata in Grecia intorno alla seconda metà dell’ottavo secolo, e ha determinato non solo un cambiamento della forma, ma anche della materia della poesia: se l’unità minima della composizione epica era la frase, quella della poesia è la singola parola, che permette l’espressione di nuove idee e di nuovi stati d’animo («L’estensione della narrazione epica si comprime intorno a un’emozione; il novero dei personaggi è ridotto a un solo io; lo sguardo poetico penetra nel soggetto come un unico fascio di luce», p. 69). Rispetto all’ascolto, la lettura e la scrittura richiedono più concentrazione, dunque uno sforzo fisico maggiore; questo sforzo è anche un modo per arrivare a percepire se stessi, esattamente come l’amore.

Il primo lirico greco del quale abbiamo una testimonianza scritta è Archiloco, che è anche il primo ad avere usato– in riferimento al corpo di un innamorato – la parola frenes, traducibile con ‘polmoni’ o anche con ‘cassa toracica’. Secondo le credenze fisiologiche del mondo greco, la cassa toracica era sede del respiro: Eros, infatti, viene spesso descritto come alato, trasportato dal respiro, così come le parole; Peiq?, d’altronde, è sia la divinità della seduzione d’amore sia quella della persuasione retorica. L’alfabeto greco, prosegue Carson, per la prima volta nella storia della scrittura, ha creato un confine per le unità sonore assolute (le vocali), attraverso le consonanti, che demarcano i confini del suono. Amore e scrittura, dunque, sembrano condividere la necessità di percepire e creare dei limiti, esercitando un controllo su se stessi e sulla realtà («E l’amore è una questione di controllo. Cosa significa controllare un altro essere umano? Controllarsi? perdere il controllo? », p. 145).

Riprendendo il discorso sulla triangolazione, Carson spiega il paragone tra amore e letteratura anche riprendendo la definizione di «punto cieco» data da Foucault, a proposito del punto di vista prospettico in Las meninas di Velázquez: nel dipinto lo spettatore non può vedere se stesso, ma fa parte del quadro attraverso il proprio sguardo; il punto cieco dell’amore, come quello di Las meninas, è un punto cieco spaziale e temporale. L’innamoramento altera la percezione del tempo: il desiderio è qualcosa che rende presenti a se stessi nel qui e ora, ma è anche tensione verso l’appagamento futuro; quando c’è appagamento, d’altronde, l’eros viene meno. Anche questo aspetto del paradosso amoroso è stato rappresentato magistralmente da Saffo, che (come molti lirici greci che hanno descritto l’amore) usa l’avverbio d??t?, intraducibile se non per approssimazione (è il risultato di una crasi fra d?, che rinvia al momento presente, e a?t?, un avverbio che indica ripetizione nel tempo). Anche leggere e scrivere sono modi per intercettare e manipolare l’esperienza del tempo, dunque per guadagnare un controllo su di esso.

Nell’ultima parte del libro viene dato spazio al Fedro di Platone, che contrappone due visioni: quella di Lisia e quella di Socrate. Lisia dà consigli molto pragmatici riguardo all’amore: è meglio tenersene lontani, concedendosi a qualcuno del quale non si è innamorati, per evitare di soffrire. Nell’opera di Platone Fedro legge il testo di Lisia e se ne innamora, al punto da leggerlo ad alta voce a Socrate, usandolo come strumento di seduzione; ma Socrate la pensa in modo diverso, perché non considera l’amore dal punto di vista della sua fine, bensì nel momento del suo inizio, come forza insieme distruttiva e vivificante («la nostra storia inizia nel momento in cui Eros entra dentro di noi. […] Nel gestirlo, entriamo in contatto con ciò che è dentro di noi, in modo improvviso e sorprendente. Percepiamo ciò che siamo, ciò che ci manca, ciò che potremmo essere. Cos’è questa percezione, così diversa da quella ordinaria, che può essere definita come follia?», p. 178). Secondo Socrate non bisogna sottrarsi alla mania d’amore, cioè a quello stato di alterazione della normalità che Eros produce.

Nelle pagine di Eros il dolceamaro Carson commenta i frammenti di Saffo (e, come abbiamo visto, di Platone) con vere e proprie explications de texte, scendendo nel dettaglio del testo greco; al tempo stesso, compie uno studio su due fra gli argomenti più universali e generici che esistano, cioè l’amore e la scrittura. La rappresentazione dei paradossi del desiderio amoroso si intreccia alle origini della lirica stessa; analogamente, in gran parte dell’opera di Carson il discorso ermeneutico, il commento alle pagine altrui, è parte del suo percorso poetico e conoscitivo. In questo primo saggio l’individualità dell’autrice è meno in primo piano, rispetto a quanto accada in altri libri di Carson, tuttavia l’io svela la propria presenza in modo più esplicito in un punto, circa a metà del saggio: «Quello che vorrei capire è perché queste due attività umane, l’innamorarsi e il conoscere, mi facciano sentire veramente viva. C’è un che di elettrizzante in loro. Sono sensazioni diverse da qualunque altra, eppure tra loro si somigliano. In che modo?» (p. 89). Nelle pagine finali, tirando le fila dopo aver parlato del Fedro, Carson definisce «uno spazio erotico» ogni atto del pensiero in cui la mente cerca di raggiungere l’ignoto, collegandolo al già noto, ma mantenendo anche una separazione: «Quando la mente si protende per conoscere, lo spazio del desiderio si schiude e ne sgorga un’invenzione. È in questo spazio, nel punto in cui i due processi del ragionamento si intersecano, che Socrate localizza Eros» (p. 199). È in questo spazio, dove si intrecciano desiderio e letteratura, che Carson situa anche la propria personale ricerca letteraria.

                                                                                                                                                     (Claudia Crocco)


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