« indietro LUIGI SPAGNOLO, Premessa a Traduzioni della Commedia in lingue orientali. Una Giornata di Studi. (pp. 6-8)
Dato che la traduzione comincia ad assumere gravi implicazioni storiche, culturali, politiche e religiose a partire dalla diffusione dei vangeli (nell’intreccio tra aramaico [presunto in una fase orale], greco di koinè, e, infine, lingue romanze), non sarà fuori luogo spiegare il lavoro del traduttore con una parabola, discorso allegorico ricorrente nell’insegnamento di Gesù, nonché etimo di parola (per antonomasia). «Un contadino, la cui frutta e verdura godevano di ottima fama nella provincia, si recò al mercato con il suo bel carretto, pieno di cassette di mele, pere, pesche, fichi, pomodori, zucchine, cavolfiori ecc. A metà del tragitto, colto da sonnolenza, decise di sdraiarsi sotto una quercia a riposare, giusto per pochi minuti. Tuttavia, a causa della grande stanchezza, finì per addormentarsi profondamente. Passò di lì un altro contadino, i cui affari non andavano affatto bene: i suoi prodotti erano pochi e di mediocre qualità. Appena vide il carretto abbandonato sul ciglio della strada, si guardò intorno, stupito: accortosi che l’agricoltore benestante ronfava sdraiato sull’erba, decise di scambiare le cassette e ripartire subito alla volta del mercato. Quando il dormiglione si svegliò e tornò al carretto, non ci mise molto a rendersi conto che qualcosa non quadrava: le cassette erano invertite, i fichi erano pochissimi, le mele troppe, le pere scarse; inoltre, provando ad assaggiare, sentì che il sapore era decisamente meno gradevole, a volte orribile. Quel giorno vendette la roba per un pugno di monete e rincasò infuriato con sé stesso: non si sarebbe mai più addormentato per farsi derubare sotto il naso!»
Come si può facilmente intuire, il primo contadino è l’autore, che porta a vendere il suo testo, ricco e sapido; il secondo, invece, è il traduttore, che sostituisce le parole cercando di salvare i concetti, ma spesso rischia di perdere elementi preziosi (i fichi), di aggiungerne altri in modo arbitrario (le mele), di dare al lettore una qualità scadente anche dal punto di vista stilistico e formale.
Ma tradurre significa rubare? In parte sì, anche se il furto è giustificato per due ragioni: da un lato, far conoscere dei testi a lettori che non potrebbero apprezzarli nella loro veste originaria; dall’altro, offrire un’interpretazione, ovvero condensare nel lavoro traduttivo i risultati di un’intensa attività filologica. Dunque non basta sostituire a caso frutta e verdura: occorre distinguere le mele dalle pere e, se possibile, mantenere le stesse quantità e conservare i sapori. Il ladro-traduttore, in ultima analisi, avverte l’esigenza di non farsi scoprire, in questo senso avvicinandosi alla figura del falsario: non a caso il più bel complimento, per chi traduce i versi di un poeta vivente, è sentirsi dire dall’autore che li avrebbe scritti così se avesse parlato la lingua di arrivo.
Ancora valida e condivisibile è la seguente riflessione di Umberto Eco: «anche se si accettasse l’idea che la poesia è per definizione intraducibile – e certamente molte poesie lo sono – il testo poetico rimarrebbe come una pietra di paragone per ogni tipo di traduzione, perché rende evidente il fatto che una traduzione può essere considerata veramente soddisfacente solo quando rispetta (in qualche modo da negoziare) anche le sostanze della manifestazione lineare, persino quando si tratta di traduzioni strumentali, utilitaristiche e dunque prive di pretese estetiche» (Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzioni, Milano, Bompiani, 2003, § 11.5). Al contempo, occorre evitare l’unilateralità da cui metteva in guardia Schleiermacher, in una memoria letta il 24 giugno 1813 (testo citato da Siri Naargard nella sua rassegna storica di traduttologia, La teoria della traduzione nella storia [Milano, Bompiani, 1993]): «Quant’è pure difficile che il traduttore, là dove l’occasione lo richiede, risarcisca imparzialmente e per davvero quello che ha dovuto sottrarre a ognuno e non finisca vittima, sia pure inconsciamente, di un’ostinata unilateralità, dato che la sua propensione è rivolta più a un elemento artistico che a un altro! Se infatti nelle opere d’arte la sua preferenza va al contenuto etico e alla sua trattazione, egli sarà meno in grado di accorgersi dove avrà fatto torto all’aspetto metrico e musicale della forma e, invece di pensare al risarcimento, si accontenterà di una traduzione di questa mirante sempre più al facile e, per così dire, al parafrastico. Se però capita che sia un musico o uno che se ne intende di metrica, il traduttore tenderà a trascurare l’elemento logico per impadronirsi appieno soltanto di quello musicale; e nella misura in cui si smarrisce sempre più in questa unilateralità, egli sarà costretto a lavorare tanto più a lungo quanto con maggiore insoddisfazione, per cui se, nel complesso, si confronta la sua traduzione con l’originale si troverà che, senza accorgersene, egli si è venuto sempre più avvicinando a quella banalità scolastica in cui, oltre al particolare, va perduto anche il tutto; se infatti, per salvare la somiglianza materiale dell’accento e del ritmo, si traduce in una lingua con espressioni pesanti e urtanti quello che in un’altra è reso con levità e naturalezza, è evidente che nei due casi si avrà un’impressione del tutto diversa».
Nonostante la netta contrarietà di Dante («nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia» [Convivio 1.7]), peraltro condivisa da Jakobson (Aspetti linguistici della traduzione [in Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 56-64]), si devono provare a mettere sui due piatti della bilancia da un lato i «sacrifici » (così li chiameremo, nel senso di perdite negoziate nel nobile compromesso tra significante e significato), dall’altro i «salvataggi» (la conservazione di elementi che rischiano di naufragare in una traduzione poco attenta ai valori formali della poesia e che dovrebbero compensare le perdite), in modo da poter dire, con Benjamin (Il compito del traduttore), alieni da ogni vuoto idealismo, ma consapevoli delle virtù materiali del testo: «La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua». Non a caso Antoine Berman osserva che «la traduzione è uno dei luoghi dove il platonismo è simultaneamente dimostrato e confutato»: in astratto si vagheggia lo spirito della poesia, ma in concreto si verifica, nel tradurre, quanto il piacere estetico derivi dalla scelta e dalla disposizione delle parole.
Ma come si può trasportare la poesia della Divina Commedia (per Dante, Comedìa) nelle lingue del Medio e dell’Estremo Oriente (arabo, giapponese, coreano, cinese), tanto lontane dal dominio romanzo? Il seminario Traduzioni della Commedia in lingue orientali (Unistrasi, 11 ottobre 2021) ha offerto preziosi approfondimenti al riguardo, grazie alla competenza di Akeel Almarai e Muauia Aabdulmagid (Le traduzioni della Divina Commedia in arabo: aspetti culturali e linguistici), Maria Gioia Vienna (Dante e la Divina Commedia in giappone: studi, traduzioni, suggestioni), Sangyeob Ii (Dante in Corea: le difficoltà nella traduzione della Commedia) e Alessandra Brezzi (Cent’anni di traduzione: la Divina Commedia in lingua cinese), ai contributi dei quali rinvio.
Da profano mi limito a una considerazione relativa alla metrica, dimensione ritenuta fondamentale dai traduttori cinesi: l’endecasillabo (unico verso del poema dantesco) gode di una sostanziale continuità nella letteratura italiana, sino ai giorni nostri. Perfino i poeti contemporanei, che perlopiù coltivano il verso libero, spesso e volentieri compongono perfetti endecasillabi: ad es., Franco Buffoni, in Vento di Marte (2019), scrive «Non può esserci vita in superficie», che è appunto un endecasillabo a maiore (con cesura dopo il settenario). Tuttavia nella tradizione cinese si registra una profonda frattura tra la metrica tradizionale, basata sui toni, con versi di quattro-nove caratteri (ciascuno di essi monosillabico), e quella novecentesca, con piedi di uno, due o tre caratteri (essendo i piedi di quattro caratteri scomponibili in piedi da due); entrambi i sistemi prosodici [cinesi] sono più rigidi in una caratteristica fondamentale del verso dantesco, la cesura, ossia la pausa interna che mette in rilievo la parola finale del primo emistichio e che in Dante è più varia (dopo il quinario o il settenario, raramente dopo il quadrisillabo). Per quanto riguarda la terza rima (o rima incatenata), essa rinvia alla numerologia trinitaria, estranea alla mentalità cinese, nonché all’andamento del sillogismo aristotelico, tipico della logica occidentale. Dunque la fedeltà assoluta a un modello metrico predefinito non pare indispensabile; potrebbero risultare di una certa utilità i seguenti consigli:
- conservare il più possibile (ma senza forzature semantiche) le parole in rima o in clausola;
- limitare le perdite agli elementi più sacrificabili, anche attraverso l’ellissi (ad es., un possessivo facilmente desumibile dal cotesto);
- non scartare a priori soluzioni efficaci soltanto perché sono simili a quelle dei traduttori precedenti e si vuole perseguire a tutti i costi l’originalità;
- mantenere le innovazioni d’autore;
- evitare di abbellire il testo secondo il proprio gusto o di inserire zeppe nei versi;
- rifuggire da improprie sovrapposizioni di concetti che sembrano simili ma che in realtà appartengono a orizzonti ideologici completamente diversi.
Tradurre è sempre un’attività filologica, per cui l’interpretazione del testo è preliminare e, si spera, consustanziale alle scelte traduttive.
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