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TOMMASO OTTONIERI, Cinema di sortilegi, Milano, La Vita Felice, 2024, pp. 148, euro 15,00.

 


«Ogni più autentica ricerca di poesia […] [riesce a] suscitare, per via magica e come sciamanica, una concretezza di reale, tramite e anzi nell’astrattezza medesima del codice linguistico che egli, il poeta, non può fare a meno di osservare», si legge a p. 24 del saggio Il rovescio di un minuto. Nel cinema della scrittura da Zavattini a Zanzotto di Tommaso Pomilio (edizioni del verri, 2023). Un libro, e un’affermazione, da leggersi a specchio del nuovo lavoro creativo del didimo suo Ottonieri, Cinema di sortilegi, opera in cui si conferma, calata nella prassi, la ferma persuasione che l’artista sia sì un riproduttore del vero, ma che non si dia positiva rappresentazione del vissuto se non per via oltre-oggettiva, fantasmagorica, antimimetica.

Ottonieri torna a vestire i panni di un magus rinascimentale che, nel rilevare e interpretare le interferenze fra più livelli della realtà, si misura col dato psico-fisiologico di una modernità alterata dai sortilegi percettivi che incantano la specie, a partire da quello bruciante-illuminante (Zanzotto docet) del “cine”. «(che cosa è il sé se non il mucchio, l’intreccio di mostruose commessure, rovine orizzontali di gementi babilonie, fili nervi fasci epiteli, riboboli di cellule, arterie che fin dal nascere hanno sognato di staccarsi dalla servitù delle caverne)», si legge a p. 36: dove l’allusione platonica riporta all’esperienza della sala, al corpo vincolato alla poltrona loco carceris, ben sapendo che quel “carcer tetro” è condizione necessaria all’esperienza luminosa (e ustoria) della proiezione: sicché in ultimo sarebbe da concedere che il cervello è prolungamento dello schermo, e non viceversa.

Il volume appare strutturato alla maniera di un long play, secondo un itinerario iniziatico-filosofale che dall’intro (per inerzia di schiume) porta al compimento dell’outro (rubedo). Incorniciate da questi due componimenti in versi ci sono dieci sequenze o episodi testuali non immediatamente riconoscibili come poesia. Nella nota di accompagnamento al libro Vincenzo Frungillo parla di prosa metrica, a rimarcarne opportunamente la spiccata valenza fonico-ritmica. Come se componesse musica, o oratoria sacra, Ottonieri lavora su ripetizioni, variazioni, melodie alla deriva: nelle volute del suo svolgersi l’andamento a spirale del flusso tipografico-acustico trascina chi legge con sé, tirandolo per l’orecchio. L’autore stesso poi definisce le sue composizioni (p. 145) «ambienti narrativi», a sottolinearne il carattere installativo-performativo. Dal canto mio aggiungo che si tratta di una serie di riti di reviviscenza, giacché nell’antro alchemico del piccolo ipertrofico il morto precipitato di vissuto/suoni/visioni esperiti si fa pulsante battito di segni performanti, per cui chi legge è costantemente sollecitato a riprocessare il sempre mobile nesso lingua-immagine.

Per questa opera di sublimazione che mira a far risorgere la materia dalle sue ceneri più che di intertestualità parlerei allora di détournement, giacché nelle sue pagine Ottonieri procede a “deturnare” stimoli e suggestioni provenienti da vari regimi dell’immaginario. Per il campo letterario si va ancora una volta dalle pepite delle origini – il titolo stesso della collana che ospita il volume, Adamàs, evoca il Guinizzelli “alchemico” di Al cor gentile rempaira sempre Amore: «com’adamàs del ferro in la miniera» – agli esiti cristallini del Novecento più mitico-perturbato (lungo l’aureo filone che da Campana e D’Annunzio porta a Poe, Breton, Lovecraft). Non di rado l’autore ricombina a proprio talento fasci aggregati di parole ereditati dalla tradizione: la robusta fibra del romanzo novecentesco, da Gadda a Landolfi, da Savinio ad Arbasino, è qui finemente filigranata. Un esempio per tutti: il deturnamento di Nel fondo del mare, da Tragedia dell’infanzia, in serrato gioco d’echi con la voce sommersa di Nivasio: «Il tuo nascere, dal fondo, serba il suono d’antiche mescolanze, come l’ombelico d’un rumore bianco. Non è il sogno a dormire a flutti dentro il sogno di te, è solo trasparenza, trasparire, scomparsa nel fitto corridoio della corrente che da sotto trapana il peso intero dell’oceano, per condurti capovolto al cospetto del tuo mostro.» (39). Per la musica, si spazia dagli inesauribili giacimenti dei King Crimson al Tim Buckley di Song to the Siren, fino al Rossini callasiano del Barbiere di Siviglia. Quanto alle reminiscenze filmiche, molte d’estrazione orrorifica, tante le cine-forme baluginanti nel rutilare delle metamorfosi: sarebbe impossibile tentarne qui un censimento. Chi scrive, leggendo, si è più volte trovato vis à vis con il sorriso di Dita Parlo, radiosa creatura equorea de L’Atalante di Jean Vigo. Ma, soprattutto, Ottonieri si adopera a deturnare se stesso, attraverso (scrive nella Nota finale) «differenti» o «divergenti» «sviluppi» di lavori del passato, con uno sfruttamento multifocale e direi multiversale della propria fucina che ricorda, più che la variantistica poetica, la prassi discografica del remix.

L’afflato alchemico-stregonesco della silloge è confermato da alcune costanti, in primis quella dialettica tra il trascorrente e il mineralizzato che già informava il precedente Geòdi: flusso e reificazione, condensazioni e dissolvimenti dovuti allo stato instabile della materia, disfarsi dei solidi-poliedri o coagularsi dei liquidi. Non di rado in queste pagine gli opposti si rovesciano, con inversione dei valori diurni e notturni, oppure coesistono su un piano multiplanare di compossibilità. Coerente con la prospettiva d’en bas, discenditiva, del suo immaginario stratigrafico, in più occasioni Ottonieri ci sprofonda nell’orrore del sottosuolo (i tunnel di lava; le gallerie di carne) e del mondo subacqueo (i fondali marini, i corridoi irrorati delle vene), accompagnandoci in oscuri recessi dove (quasi) tutto è morto alla vita, o in abissi marini dove niente è tangibile e permanente. A specchio di questo mondo ctonio e nettuniano, comprensivo di zone amniotiche e pre-natali, si accampa poi, en haut, il piano celeste-siderale, lo sterminato nulla degli iperspazi, evocato tramite il richiamo a paesaggi venusiani e a figure aliene-divine incastonate in un altrove temuto/anelato.

Non mancano elementi tematici già presenti in altre prove d’autore, e che tornano qui con significative variazioni: spicca su tutti il motivo odeporico, con l’attraversamento di un territorio rizomatico e a tratti apocalittico comprensivo delle aree interne e remote del Paese e dei meandri della stessa anatomia corporea. Altre questioni sciolte nel flusso discorsivo: la dimensione metaletteraria della prassi scrittoria, ripetuta in più luoghi per allusioni segniche (lo stilo, il grafo, la scalfittura) e sigillata in clausola da versi esemplarmente stilnovistico-avanguardistici: «è da lì che mi scrivi, sillaba assente, / e per inchiostro il sangue, che in me stilla: / spingi da lì, dal fondo della cella, / l’aguzzo stilo in, mia, cera bollente» (143). O, ancora, il nodo amoroso stretto nei modi d’un petrarchismo schizo-mediale, tra segnali in estinzione e diaframmi inintelligibili, mentre ci si estenua nel perdersi e cercarsi da distanze incomunicanti e incomunicabili, come nel folgorante attacco di Da una conca: «Ti scrivo dal fondo d’una teca, / dal cavo d’una conca, dal letto d’un’ampolla: / seme d’osso o di schiuma, / serrato qui nel riflesso rappreso dei secoli come insetto nell’ambra.» (9).

Con Cinema di sortilegi prosegue il percorso di una delle poche voci della nostra letteratura attuale che, rifiutando gli statuti impoveriti della mimesi di primo grado, e salutarmente incurante delle barriere merceologiche imposte dal mercato, persegue la propria ricerca autoriale in caparbia autonomia e orgogliosa rivendicazione del libero gioco combinatorio della fantasia, pur con esiti di millimetrica compattezza stilistica. Concretezza di reale nell’astrattezza medesima del codice linguistico: ogni autentica ricerca poetica, si potrebbe allora concludere, nasce per Ottonieri sullo schermo allagato-allucinato della mente, spazio su cui scorre senza posa quella ribollente materia del mondo che ci forgia i corpi per fusione elementale, che ci modella le sinapsi per continui incidenti neurali. Il risultato è un materialismo oniroplastico che produce ludus e ribollente verbigerazione chimerica attraverso rigore, e algore, di forma. Il poeta-magus è un gran fingitore, e in questo consiste la sua intima verità, così necessaria in tempi di immaginario pre-montato.

(Riccardo Donati)


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