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IN SEMICERCHIO, RIVITA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 61-67

CLAUDIA POZZANA, Cina. Operai e poesia nel (post-)comunismo (scarica il pdf)


Il nodo operai-comunismo, che ha svolto un ruolo cruciale nella politica moderna, è oggi completamente disfatto. In un’epoca che si è conclusa da quasi mezzo secolo, il comunismo statale del Novecento aveva affermato il pieno riconoscimento politico e sociale della “classe operaia” sotto la guida del Partito Comunista. La poesia degli operai migranti cinesi degli ultimi due decenni sorge invece nelle condizioni dell’azzeramento di questa promessa comunista. Essa vive nell’epoca della restaurazione della regola capitalistica, fondata sull’inesistenza sociale e politica dei lavoratori salariati.
Si tratta di poesie di grande valore, già riconosciute sulla scena letteraria cinese odierna. Questi nuovi poeti, nuotando controcorrente rispetto alle condizioni di radicale precarietà sociale dei salariati, e in particolare delle centinaia di milioni di operai migranti, manifestano un intenso desiderio di esistenza artistica e una notevole perizia stilistica. I loro versi, oltre al loro intrinseco valore poetico, sono una radiografia del deserto politico contemporaneo e nello stesso tempo ci permettono di allargare lo sguardo retrospettivo sul rapporto operai-comunismo.
La situazione degli operai in Cina non è sempre stata quella odierna. Possiamo distinguere almeno tre epoche. Nel primo quindicennio della Repubblica Popolare, il rapporto operaio-fabbrica era stabilmente inscritto nel comunismo statale, sotto la direzione incontestata del partito. Nel decennio successivo, quello della Rivoluzione Culturale, sotto la spinta di una estesa insofferenza degli operai rispetto al partito, furono sperimentate forme nuove di gestione della fabbrica che puntavano a valorizzare l’attività intellettuale degli operai.
Ci furono molteplici esperimenti di limitazione della divisione del lavoro che rimodellavano i rapporti tra operai, tecnici e dirigenti. Furono aperti nelle fabbriche università operaie e gruppi di studio teorico d’ogni tipo, letterari, politici, filosofici, economici ecc. All’orizzonte c’era la visione di Marx che considera la differenza di principio tra uno scaricatore e un filosofo inferiore a quella tra un cane da caccia e un cane da guardia. L’obiettivo comunista della limitazione della divisione del lavoro in fabbrica richiedeva l’innalzamento intellettuale degli operai. 
Questi esperimenti, e dunque questi obiettivi politici comunisti, furono soppressi da ??? Deng Xiao-ping, come fonte di disordine assoluto e di anarchia. Le “riforme” hanno anzitutto ripristinato l’ordine capitalistico in fabbrica, in forme sempre più intransigenti. Il grande attivismo politico operaio dei lunghi anni Sessanta nel mondo, però, non fu affatto una serie di convulsioni insurrezionali. Esso fu animato dalla ricerca di nuove possibilità di esistenza politica degli operai, al di là del quadro del comunismo statale. Gli esperimenti, nelle fabbriche cinesi di quegli anni, alteravano in modo inedito la struttura dispotica della fabbrica moderna, su cui la diagnosi di Marx resta ancora decisiva. In quei tentativi della Rivoluzione Culturale di reinventare la fabbrica socialista si aprirono spiragli di democrazia. 
?? Yu Jian, grande poeta contemporaneo e professore di letteratura, in un seminario tenuto assieme ai nuovi poeti operai, ha ricordato con acume il clima di una fabbrica cinese negli anni della Rivoluzione Culturale. La fabbrica che lui racconta, sulla base della sua decennale esperienza di operaio, è sicuramente sfaccettata, ma caratterizzata da almeno due aspetti originali: un significativo allentamento della rigida disciplina militaresca propria della fabbrica moderna, e parallelamente l’apertura di sorprendenti spazi di libertà per attività intellettuali di ogni genere.
“Nella mia fabbrica c’erano personaggi del passato definiti di destra, ex attori di cinema, pittori, ballerini, proprietari vari della vecchia società, discendenti di capitalisti e intellettuali. Erano persone altamente istruite, una sorta di libri di testo viventi, e sono diventati i miei insegnanti. Ricordo bene il periodo in fabbrica, la cosa più divertente era quando si raccontava una storia, tante persone raccontavano storie e a metterle insieme sembravano romanzi in cui parlavano tutti. In quella fabbrica c’erano frequenti interruzioni di corrente, quindi avevamo tutto il tempo per raccontare storie. Ora, a pensarci bene, la fabbrica era come una segreta scuola d’arte, aveva svelato l’identità dei macchinari per la produzione del carbone e delle attrezzature, ma non l’identità delle attività artistiche clandestine. Ricordo che in fabbrica avevo tempo per scrivere poesie, cantare, suonare il flauto, c’era la pittura, la scrittura di poesie antiche, lo studio della filosofia della scienza, si ascoltava la Voce dell’America...leggevamo anche gli autori occidentali del XVIII e XIX secolo, opere circolate in privato, ho letto anche le poesie di ?? Shi Zhi, ho letto gli opuscoli di Robespierre, e anche Herzen e Cechov.”
Yu Jian racconta con humor alcune condizioni particolari che nella sua fabbrica favorirono la sua formazione intellettuale ed artistica, come la presenza di operai colti (declassati), o anche l’interruzione dell’elettricità che lasciava tempo libero. Tuttavia, quella energia mentale rivolta alla poesia antica e moderna, al flauto, alla pittura, alla filosofia e allo scambio di romanzi europei dell’Ottocento, era il risultato “rizomatico” dell’apertura sperimentale di quegli anni, sotto l’imperativo di reinventare la fabbrica socialista attraverso una mobilitazione intellettuale di massa. 
Anche molti tra i poeti menglong ???? (menglong shiren), come ?? BeiDao, ?? Shu Ting, ?? Mang Ke e altri, che sono stati operai in fabbrica negli anni della Rivoluzione Culturale, hanno riconosciuto quel periodo come fondamentale per la loro formazione artistica. Yu Jian dipinge con efficacia il clima di quel decennio intermedio in fabbrica, completamente diverso dall’attuale ripristino della disciplina capitalista, ma anche lontanissimo da quello degli anni Cinquanta.
Di quel periodo iniziale della fabbrica socialista cinese abbiamo testimonianze di operai poeti, che erano peraltro omogenei al discorso governativo dell’epoca. I loro versi erano intonati ad un pathos “eroico” di partecipazione all’impresa politica collettiva, ma erano altresì soffocati da una retorica encomiastica.  
Mattino in fabbrica, una poesia scritta nel 1957 da ? ?? Li Xue’ao, è un esempio di quel clima ideologico.

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Mattino in fabbrica 

L’eroico camino è l’albero della nave,

che si erge al centro della fabbrica,
il maestoso capannone è la gigantesca stiva,
il segretario del partito è il nostro pilota rosso.
Quando intorno tutto è ancora immerso nel dolce
sonno
noi salpiamo al fischio della sirena.
Portando milioni di ambizioni,
avanziamo dentro un giorno più vasto

Nella poesia di ??? Yu Decheng Primavera nel reparto si legge un atteggiamento altrettanto entusiasta per il progetto comunista, e altrettanto falsato dall’enfasi propagandistica. Sulla scena di un’arcadica armonia, viene perfino tratteggiato uno sguardo innamorato, non si sa bene se più per la ragazza, o per la fabbrica. 

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Primavera nel reparto

Gli scarti di ferro variopinti sono peonie che sbocciano
lo spruzzo di raffreddamento zampilla da una fontana
volante.
Le file di macchinari sono alberi verdi
da cui pendono frutti di lampi dorati.

Una ragazza ruota la maniglia come se volasse
indossa solo un camice verde chiaro
il sudore le scorre sul viso
come gocce di rugiada su un fiore d’ibisco…

Le lampade nell’officina sono file di oche selvatiche
un getto d’aria calda ci balza sul petto.
Anche se fuori nevica forte
nel reparto è sempre primavera.

L’immagine idilliaca della sintonia tra operaio e fabbrica nel comunismo statale venne scossa alle fondamenta dall’attivismo politico operaio degli anni Sessanta e Settanta. Fenomeno certo non limitato alla Cina. La migliore sintesi artistica della caduta dell’“eroe del lavoro” viene dalla Polonia. Il film di Andrej Wajda L’uomo di marmo, alla vigilia della fondazione di Solidarnosc, svela l’amara finzione di quella retorica, che infine travolge le più autentiche intenzioni del protagonista.
La poesia degli operai migranti cinesi contemporanei è del tutto estranea a ogni intonazione “eroica”. La condizione soggettiva della vita in fabbrica non ha nulla dell’“armonia” dell’era socialista classica, ma non ci sono neanche tracce del disordinato sperimentalismo egualitario della Rivoluzione Culturale. Questi nuovi poeti cantano sì una loro esistenza collettiva, ma senza fare alcun riferimento ad una “classe”, tantomeno ad un progetto politico comunista.
Predomina anzi lo sconfinato sradicamento da qualsiasi appartenenza. Il loro “noi” è Un immenso numero singolare (????? pangdade danshu), come dice il titolo di una poesia di ??? Guo Jinniu, che è stato scelto anche come titolo della prima raccolta inglese di questi poeti migranti. Nome collettivo, che palesa la stridente dissonanza tra un singolare desiderio di infinità e una condizione di estrema assenza di socialità. L’unico rapporto con la “patria” di queste figure condannate al perpetuo nomadismo, scrive Guo con dolente sarcasmo, è il “pagamento del permesso di soggiorno temporaneo”.  

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Un immenso numero singolare

Uno attraversa una provincia, un’altra provincia,

un’altra provincia
prende un treno, poi un autobus e poi un altro autobus nero  
Prossima fermata

La patria mi ha concesso un permesso di soggiorno temporaneo.  
La patria ha accettato il mio pagamento del permesso di soggiorno temporaneo. 
(...)

Qualcuno al Sud irrompe in una stanza in affitto
Ahi! È una retata per il controllo dei permessi di soggiorno.
(...)

Ancora più crudo il tessuto di figure che si intrecciano in Pietre sul bordo della strada dell’operaia poeta ??? Ji Zhishui . Sono operai avvitati a sistemi di macchine, ma al tempo stesso costretti a roteare turbinosamente alla ricerca di lavoro, in incessanti migrazioni che li lasciano come “pietre abbandonate per strada”. La loro reciproca prossimità è un gelo condiviso, “gomito a gomito”. Proprio il contrario del tepore della “primavera in fabbrica.

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Pietre sul bordo della strada  

Un vento soffiando
ci solleva via da terra  
e ci fa cadere sui macchinari di un’altra città, su una
catena di montaggio.
Siamo impregnati di rumori, olio di macchina, nastri
rossi e neri, polvere di piombo, ruggine,
siamo battuti, avvitati, allacciati
e bloccati velocemente roteiamo.
I dialetti che parliamo, il grido, il calore delle lacrime
ci sfuggono via fino a non poterci spremere
nemmeno più una goccia di sudore.
Induriamo come pietre
abbandonate per la strada.
Anche se torniamo in campagna non possiamo coltivare
Pietre ininterrottamente accatastate sul bordo della
strada,
gomito a gomito, il gelo di uno incollato all’altro.

L’eterogeneità di pensiero e di stile rispetto alla poesia operaia degli anni Cinquanta è lampante. Le tonalità di questi versi fanno piuttosto risuonare quelle dei poeti menglong, che dalla fine degli anni Settanta hanno rivitalizzato la scena letteraria cinese. In effetti questi ultimi hanno per primi riconosciuto il valore dei nuovi poeti migranti, anzi hanno propriamente scoperto l’esistenza di questa immensa configurazione poetica contemporanea. L’incontro tra queste due generazioni di poeti è stato in parte voluto, in parte casuale, ed infine necessario.
Nel 2012 i principali poeti della generazione dei menglong hanno bandito un “premio di poesia internazionale in cinese” International Chinese Poetry Prize (??????? Guoji Zhongguo shigejiang), aperto a chiunque inviando i testi a un indirizzo on line, Artsbj. com . In pochi mesi il sito è stato inondato da 800.000 poesie di migliaia di autori, che evidentemente hanno messo a dura prova la commissione. Dopo l’inevitabile rinvio della conclusione della lettura, il 10% di queste opere è stato giudicato di alta qualità, gran parte delle quali scritte da poeti migranti.  
Risultato inatteso, frutto senz’altro della sensibilità dei poeti menglong nei confronti di novità di cui avevano sentore. D’altronde la poesia dei migranti è stata sospinta dalle novità poetiche della generazione precedente. Ciò che essa ha ripreso dai menglong è la concezione di uno “spazio intellettuale indipendente” della poesia, come diceva ?? Yang Lian , a distanza dai rituali culturali dominanti. Questi nuovi poeti condividono coi predecessori anche la messa in sospensione dell’auto-evidenza comunicativa della lingua. Cercano anzi possibilità inedite di un pensiero del reale che sgorghi, in quella stessa lingua, dal “brillio negli interstizi”, come aveva detto il poeta ??? Xiao Kaiyu negli anni Novanta. 
A marcarne la prossimità e le corrispondenze, entrambe queste generazioni di poeti si posizionano al bordo di un vuoto. I menglong cominciano a scrivere i loro versi nella situazione di esaurimento di tutti i riferimenti culturali e politici precedenti, all’indomani della sconfitta della Rivoluzione Culturale. Per i poeti migranti la posta in gioco è come esistere nel vuoto del nome stesso di operaio. Oggi in Cina “classe operaia” è un nome estremamente oscuro.
L’energia poetica di questi operai riesce a fare di questo vuoto una risorsa. Essi affermano la loro esistenza a distanza dal vuoto che li accerchia. Nelle condizioni di questa esemplare alienazione, questa poesia si fonda su uno “straniamento” che preclude l’identificazione immaginaria con la fabbrica, o comunque esige di tenerla sotto controllo. Ad esempio, in Sull’acciaio di ??? Xing Huangtian la materialità del lavoro prende una forma ben diversa dalle “variopinte peonie che sbocciano” in Primavera nel reparto. Gli scarti dell’acciaio sono invece quelli che “si ammucchiano anneriti pieni di ruggine”. Gli incipit delle due poesie paiono fronteggiarsi da una lontananza epocale. Senza dimenticare che acciaio è stato un nome chiave della industrializzazione socialista. 

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Sull'acciaio

In questo angolo si ammucchiano

scarti anneriti sporchi di ruggine,
di ogni forma possibile.
Noi non sappiamo nulla dell’acciaio,
facciamo solo congetture
sulla lucentezza del metallo,
sulla sua solidità
e c’è anche l’oscurità, eccetera.
Ma tutto ciò è solo l’acciaio immaginario,
quello che noi immaginiamo.
Noi forgiamo questo acciaio
e vi facciamo dei fori,
ne facciamo il modello
di ciò che noi desideriamo,
e c’è anche la nostra immaginazione,
ma com’è ridicola.
L’animale umano in eterno
fa gli esercizi di ciò che non riesce a raggiungere:
i sogni. Proprio come questi acciai,
lontani da noi fin dall’inizio.
Hanno la loro legge di morte. 

L’acciaio sembra una cosa auto-evidente, ma in realtà pone domande rispetto a cui si possono fare solo congetture. Ricorre in tutta la poesia un “noi”(?? women) inquieto di fronte ad un acciaio che appartiene al chiaro-scuro dell’inconscio. Forgiare l’acciaio comporta un desiderio, compreso il suo versante immaginario e ridicolo. La consapevolezza dell’inattingibile del “sogno” fa da memento all’esigenza di limitare l’identificazione immaginaria con questi acciai, a tenerli lontani da “noi”, e quindi a tenere “noi” lontani dalla “loro legge di morte”.
Questa legge di morte, la distruttività intrinseca del lavoro di fabbrica, viene esplorata, in chiave completamente diversa, in un’altra poesia di Xing Huangtian, Lavoro. Mentre Sull’acciaio era impregnata di una materialità industriale guardata alla distanza di un sogno, in Lavoro, ci sono tre figure astratte: il poeta, “le cose inaffidabili” e il “lavoro”. Si noti che il “lavoro” appare solo alla fine della poesia, come figura della distruzione radicale, quando viene meno il rapporto tra l’io poetico e le “cose inaffidabili”.

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 Lavoro

Parlo per esprimere chiaramente

quelle cose inaffidabili, ma non basta.
Scrivo, per descrivere chiaramente
quelle cose inaffidabili, ma non basta.
Faccio, affinché si mantengano
quelle cose inaffidabili, ma non basta.
Dunque, io lavoro per eliminare radicalmente
quelle cose inaffidabili. 

Quali sono le “cose inaffidabili” (?????? bukekao de shiwu) per le quali il poeta vuole parlare, scrivere e agire? Possiamo ipotizzare che siano gli operai stessi, ridotti a “cose”, accessori ai sistemi di macchine, la cui forza lavoro equivale a qualsiasi altra merce. Essenzialmente inesistenti. Tuttavia essi sono anche “inaffidabili”, perché contengono possibilità soggettive che eccedono la loro “reificazione”. Il poeta ha il proposito di “esprimere chiaramente”, “descrivere chiaramente”, “far sì che si mantengano” tali soggettività “inaffidabili”, ma avverte anche che la sua poesia “non basta”. Se non riesce in questi intenti poetici, però, resta solo “il lavoro”, intrinsecamente volto all’annichilimento soggettivo. Il suo stesso lavoro da operaio è incardinato in quell’automatismo distruttivo e autodistruttivo che comanda l’inesistenza soggettiva dei salariati. I versi finali possono essere letti come un ammonimento a perseverare nella poesia, altrimenti resta solo la connivenza con l’eliminazione radicale degli “inaffidabili”.
Questa configurazione di poeti operai migranti in Cina è talmente vasta e multiforme che ci vorrebbe una selezione ben più ampia di questa per non escludere grandi voci. Mi limito, per concludere, a In ginocchio a chiedere il salario, una poesia di ??? Zheng Xiaoqiong, autrice di più raccolte di versi, la quale mi pare esemplificare la ricchezza di tonalità stilistiche esplorata da molti autori. La sua cifra singolare è uno stile scarno, essenzialista e tagliente, che qui disegna una scena quasi teatrale o cinematografica. Personaggi veri, dei quali si riconoscono le espressioni dei volti, o viceversa l’inespressività, la gioia, la goffaggine, il coraggio, o la connivenza silenziosa. La scena è quella di una delle miriadi di piccole e medie proteste operaie, che si manifestano ovunque nel paese.  

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In ginocchio a chiedere il salario

Balenano come spettri, alle fermate d’autobus,
sulle macchine da lavoro, nelle aree industriali, nei
luridi appartamenti in affitto.
I loro corpi sottili come lame di coltelli,
come carta, come capelli, come aria, tagliano con le dita
ferro, pellicole, plastica… Stanche, intorpidite,
come spettri assegnati alle macchine.
Abiti da lavoro, linee di montaggio, occhi scintillanti,
giovinezza brilla in ciò che esse stesse costituiscono.
Nella marea scura non riesco più a distinguerle 
proprio come se, stando in mezzo a loro, non riuscissi a distinguere
il movimento degli altri corpi, volti sfocati, uno ad uno,
facce innocenti che vengono incessantemente disposte e ridisposte.
Sono il formicaio nella fabbrica di elettronica,
il nido d’api nella fabbrica di giocattoli, 
ridono, si alzano, corrono, si piegano, si arricciano, 
sono ridotte a un paio di dita e di cosce,
diventano viti da stringere, lastre di ferro da tagliare,         
plastica compressa, filo d’alluminio curvato, tessuto
su misura.  
Frustrate, orgogliose, esauste, felici,
disperse, impotenti, solitarie… così si manifestano.
Vengono a gruppi dalla campagna, dai villaggi, dalle
vallate, sono intelligenti,
goffe, timide, codarde….
Adesso sono inginocchiate, davanti c’è la vetrata
alta e luminosa,
le guardie in uniforme nera su splendidi veicoli arancio verde,  
l’insegna dorata della fabbrica risplende al sole.
Le quattro operaie inginocchiate davanti ai cancelli
alzano un cartello
con la scritta goffa “Dateci il denaro del sangue e
del sudore”.
Le quattro, impavide in ginocchio davanti ai cancelli, 
intorno una folla che guarda. Pochi giorni fa erano
compaesane
amiche, colleghe, superiori o inferiori.
Ora fissano con aria assente le quattro operaie inginocchiate,
guardano le quattro compagne di lavoro trascinate
via dalle guardie, guardano
una operaia che perde una scarpa, guardano un’altra operaia  
cui mentre lotta si strappano i pantaloni, guardano
in silenzio
le quattro operaie inginocchiate che vengono trascinate via. Nei loro occhi 
né dolore, né gioia… entrano in fabbrica con lo
sguardo vuoto.
Le loro disgrazie mi rattristano, mi deprimono.

La condizione di quegli operai è talmente polverizzata che, anche di fronte al dolore delle quattro amiche inginocchiate, le emozioni si congelano sui volti inespressivi di una folla inerte. La tristezza e la depressione dell’ultimo verso condividono in definitiva il sentimento di insufficienza della poesia, manifestato da Xing Huangtian. La poesia persevera, ma per superare quelle disgrazie da sola non basta. La poesia operaia cinese contemporanea è il sintomo dell’esigenza di nuove invenzioni collettive a venire. 
  
 

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