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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 132-133 (scarica il pdf)

DANIELE PICCINI, Luzi, Roma, Salerno Editrice 2020, pp. 368, € 24,00


Il pittore trecentesco Simone Martini in un «estremo ritorno» da Avignone a Siena, assieme a sua moglie Giovanna, al fratello Donato, alla di lui consorte e a uno studente di teologia, affronta un viaggio aurorale verso gli inizi, in direzione della maternità originaria (Siena diventa «matria», non più patria) che simboleggia la condizione interiore di perfetta integrità. È la trama minima di una delle maggiori opere del nostro secondo Novecento, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) di Mario Luzi. Un poema per frammenti, tra cristalli lirici e laterizi narrativi, lacerti di un’iconica essenzialità che funziona persino come discorso sull’arte, sul tramonto del sublime – incarnato da Simone, alter ego del poeta – contro le nuove tendenze espressive. Ciò che si nota, in particolare, nel complesso e autotrofo organismo della poesia luziana è il transito da un pensiero statico e «ipernutrito», potremmo dire ‘petrarchesco’, a una concezione «del fluire e dello scorrere, della trasformazione come principio dinamico della realtà, mai conclusa in sé ma sempre aperta al suo compimento possibile, all’attesa e al desiderio che nella parola manifesta» (p. 22). È questa l’intuizione critica principale del libro di Daniele Piccini, Luzi, la più aggiornata monografia che sia apparsa sinora sull’esperienza letteraria dell’autore fiorentino. Sin da Su fondamenti invisibili (1971) – ma un passaggio decisivo è stato il teatrale-diegetico Nel magma (1963-64), prima vera manovra di «immersione nel quotidiano» con l’«incontro e scontro di voci» e la sua «pluralità di sollecitazioni e di giudizi» (p.185) – una virtù «salutare» e spalancata al cangiante flusso dell’esistere informa la poesia di Luzi, che «trova il suo punto di fuga» «non nella pura mimesi del reale», «quanto piuttosto in una ricerca del fondamento stesso dell’essere e, soprattutto, nell’adesione alla metamorfosi» (p. 23). Una scrittura ‘ontologica’, dunque, che propone la continua tematizzazione del vivente contro le algide, araldiche stilizzazioni del periodo ermetico-simbolista (all’incirca dall’esordio con La barca, 1935, fino a Onore del vero, 1957: «Quella che il poeta ci presenta è ancora e sempre una sorta di psicomachia e così anche il suo entrare nel mondo, il suo farsi incontro all’altro, è emblematico e reiterabile: è un’esperienza psichica e morale, più e prima che storica e ideologica», p. 173). «Senza dubbio su questa visione delle cose – commenta Piccini –, tese a una pienezza a venire, influisce il pensiero teologico del gesuita francese Teilhard de Chardin (1881-1955), che costituisce una lettura decisiva per Luzi» (p. 23). Si ricordi l’amara e ironica lirica montaliana A un gesuita moderno, presente in Satura e dedicata proprio a Chardin, per misurare tutta la distanza formale e concettuale, soprattutto negli esiti ultimi, tra Montale e Luzi.
Ma la teoresi si allunga e acquista concretezza sull’impasto linguistico, poroso e materico, che riesce a «far coesistere naturalezza (termine centrale nella riflessione luziana) e memoria, densità e trasparenza, senza mai mettere in crisi la sostanza umana, il calore della presenza» (p. 24). Grazie a questo piano stilistico alterno che ha la sua esecuzione metapoetica in Vola alta, parola, cresci in profondità («tocca nadir e zenith della tua significazione,/ giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami/ nel buio della mente –/ però non separarti/ da me, non arrivare,/ ti prego, a quel celestiale appuntamento/ da sola, senza il caldo di me/ o almeno il mio ricordo, sii/ luce», da Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985), Piccini propone l’altro decisivo approdo che sottolinea un’importante lezione artistica: se l’ontologia (e la teologia o ateologia) di Leopardi, Montale e Caproni è «di segno negativo» – seguendo ancora una volta una carsica linea petrarchesca –, «l’humilitas di Dante, come Luzi la definisce» coincide con il «ritrovare a monte del discorso moderno un atteggiamento creaturale, esito verso cui congiurava anche l’insegnamento di Betocchi» (p. 25). La riconosciuta creaturalità, agghindata a «figura di scriba del mondo» – si noti quest’altra importante esemplificazione: «il rapporto di Luzi con la pianta della tradizione simbolista arriva all’estremo limite di una revisione o di una sconfessione, in cui a fare da reagente per una disposizione a nominare l’essenza delle cose è soprattutto l’humilitas di Dante» (p. 218) – è l’elemento precipuo capace di condurre Luzi dall’incandescente movimento dialettico e diairetico del suo ‘secondo tempo’ a quel «culmine paradisiaco della parola» (p. 237) che raggiunge la sua acme proprio in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini («la struttura del mondo creato, l’essere costituiscono quel poema, quel tessuto unitario in cui lo stesso canto del poeta trova, forse, il suo paradiso», p. 243). Tensione liminare traducentesi in visione somma, eccedenza e conseguita oltranza del dire, interiezione beatifica infarcita di latinismi dal sapore dantesco, che passa comunque per «una nominazione della sostanza, colta attraverso il travaglio, il tormento, la metamorfosi» (p. 27). Ed è proprio il movimento metamorfico a spingere Luzi a una verticalità primigenia (non primitiva, beninteso), messa in luce con molta chiarezza da Piccini: «Si tratta in fondo del realizzarsi di quella propensione alla dizione originaria, alla rinominazione edenica cui tende la parola poetica di Luzi al suo culmine» (p. 240). Siamo distanti dal ‘fanciullino’ pascoliano e dal mito del bon sauvage, e forse più vicini, più in prossimità della condicio del femminile leopardiano (la ‘fanciullezza’ ontologica), espressa nell’ignoranza del male (e dunque in senso lato nello status naturae integrae) di una celebre pagina dello Zibaldone. Infatti, protagonista del Viaggio – ma presente nell’ordito poetico luziano sin dalla Barca – è anche la muliebrità caratterizzata in forma mariana, «polo decisivo» per comprendere l’adesione a un’immacolatezza soggettiva che va di pari passo al valore purificato e purificante della parola (per altro, già nel libro d’esordio, Luzi ravvisava che la «sembianza di Maria» è «la trasparenza, la non-opacità, la verginità permanente, quella stessa del canto a cui sembra tendere, pur senza dimenticare le fatiche e i mali, la voce poetica, assimilabile a una voce materna, ‘senza origine’», p. 130). 
A ciò contribuisce non soltanto l’opera in versi nella triade delle sue tappe fondamentali, ma anche la lunga e ponderata evoluzione saggistica (da L’inferno e il limbo, 1949, alla Naturalezza del poeta, 1995) e persino il vasto sentimento tragico che campeggia la produzione teatrale (dal Libro di Ipazia, 1978, a Il fiore del dolore, 2003), indagati da Piccini non come parti avulse dal contesto («il teatro luziano nasce, così, in interiore homine: il dramma significa per l’autore dibattere intorno alla verità ultima di una creatura, verità di per sé inafferrabile, che costringe a prendere posizione e che pure non è risolvibile in modo assoluto», p. 265; «la scrittura di una prosa meditativa, teorica o propriamente critica è sempre stata per l’autore il terreno a cui demandare una sorta di ampliamento e di sviluppo della ricerca creativa, in un conn’bio difficilmente scindibile», p. 298), ma come fluidi di un sommovimento diretto alla risalita (ungarettiana?) «dalle foci alle sorgenti», secondo «un’unità nella trasformazione» (ibidem). Sorgenti di un mondo perennemente «in ansia di nascere», visto appunto nella sua mirifica accoglienza femminile. «Non lasciare deserti i miei giardini/ d’azzurro, di turchese,/ d’oro, di variopinte lacche/ dove ti sei insediata/ e offerta alla pittura/ e all’adorazione,/ non farne una derelitta plaga,/ primavera da cui manchi,/ mancando così l’anima,/ il fuoco, lo spirito del mondo» (da Rimani dove sei, ti prego, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini).


di Alberto Fraccacreta

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