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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 95-96 (scarica il pdf)

VIOLA AMARELLI, L’indifferenziata, Macerata, Seri Editore 2020, pp. 102, € 10,00


Carlo Bordini, un grande poeta sfuggito per un pelo (ma ha rischiato grosso con l’appassionato interesse critico che ha suscitato nel più laureato dei nostri poeti-critici, Guido Mazzoni) all’istituzionalizzazione accademica, ha lasciato appunti toccanti, che ho avuto la fortuna di leggere, sull’ultima plaquette di questa poetessa italiana non giovane anagraficamente ma giovanissima quanto a reiterati esordi, come spesso accade ai poeti/alle poete ineffabili dai parametri di gusto degli addetti alle canonizzazioni. In questi appunti il neocanonizzato – come miglior fabbro di una via tardonovecentesca né postermetica né neoavanguardistica, né prosastica né neometrica, in poche parole nuova e pronta a essere tenuta a modello dalle nuove leve sperimentanti – Carlo Bordini, sembra accogliere nella sua larga sfera di competenze stilistiche questo libro, e con esso, mi pare, la produzione fin qui di questa autrice ancora troppo poco conosciuta e letta. Ne L’indifferenziata – e conformemente al titolo – Bordini avverte la compresenza di furie di venti contrari, «flusso d’incoscienza» e ‘logos’ geometrico, ‘doxa’ e biodegrado (titolo di una sezione) in un crescendo polimorfico e metamorfico, corale e soggettivo, vigorosamente trainato da forme di fiato plurilinguistiche (la forma del fiato è il titolo di una sezione) che lo traducono in voci, voci che gradualmente si stemperano dai tumulti fonoritmici fino a spegnersi nel singulto civile finale, con un’anticlimax anticipata, a metà libro, da una sinistra Cassandra che «ha fatto pace con le parole, infatti tace». Di questo libro di poesia, anche se snello e breve, Bordini asserisce: «è un testo estremamente complesso e, credo, uno dei più alti che abbia prodotto in Italia la poesia contemporanea», infine chiosando «forse perché oggi la poesia è femmina». La parentela entusiastica di questi due poeti marginali ma non emarginati, poco etichettabili ma molto letti e amati dai poeti, anche giovanissimi, è interessante e richiederebbe uno studio comparativo dettagliato. Qui basti dire che il mutuo riconoscimento (gli appunti li ho avuti dall’autrice) non è da ascriversi a carineria fra colleghi coetanei (su per giù) ma a una possibile linea comune di toni e posture. Il più importante allineamento fra queste due voci consiste nella sostituzione, non posticciamente civile, dell’io con un noi collettivo, di un io che diventa altro da sé, un ‘noi disfratto’, non (solo) per indole filosofica o mistica, ma per pratica politica del linguaggio poetico, ovvero non scartando le posizioni ideologiche ma neppure scrivendo in un poetese di risulta sinistrorsa. All’autore dell’ormai celeberrimo Poema a Troszky corrisponde una autrice che parla a nome di ‘noialtre’. Su questo soggetto collettivo vorrei soffermarmi, perché la poesia di Viola Amarelli rappresenta un punto di arrivo linguistico esemplare di una poetica tardonovecentesca vivida e in espansione, eppure ghettizzata (e peggio, autoghettizzata) come poesia femminil-femminista del Corpo. A parte l’autorevolezza dell’affermazione di coincidenza fra poesia e corpo nella filosofia di Maria Zambrano, come sappiamo negli ultimi decenni ‘poesia del corpo’ è diventato un’etichetta passpartout abusata in ogni contesto di poesia scritta da donne. Quindi rischiosa da riesumare in una recensione di un libro nuovo. E tuttavia qui è segnale evidente dell’esistenza di una generazione, più o meno censurata (se non apertamente disprezzata) come tale dalla critica accademica non femminista oppure sventolata come bandiera per ogni incongrua antologizzazione femminista di scribacchine, di ‘femmine foniche’ nelle cui fila l’appartenenza non è di solito vissuta come bene comune letterario, come soggetto collettivo e ideologico. Il cliché (auto)sessista permanente della Virtuosa Primadonna Unica e Sola da celebrare qual Grande Poetessa l’accesso alla lingua poetica di ‘noialtre’, alle sue ricorsività e differenze. Eppure è attestata e criticabile la ‘forma del fiato’ di un io transgenerazionale indifferenziato (direi non solo femminile ma a forte presenza femminile) che in questo libro emerge come ‘noialtre’. Parla in prosiritmi – canta – , per virtù attrattiva, da agglutinamenti fonoritmici che si accorpano e sparigliano per produrre sensi e significati, non solo, e non tanto per giocosità (anche se la poesia di Toti Scialoja è un modello di questa), ma secondo un lògos impermanente, sognante e raziocinante. La forma del fiato, tutta la sezione, è al verbo presente, affronta e cavalca il flusso incoscienziale senza compiacimenti estetizzanti, senza il gusto per l’inutile calembour, volto a procedere in una dialettica. Il gioco di linguaggio è figlio del sovvertimento sintattico-lessicale della poesia di Amelia Rosselli, che quindi ha fatto scuola, ma senza vano epigonismo, mirando, in piena controtendenza, a contenuti ideologici, anche se al riparo dalle retoriche cui la cosiddetta poesia civile da basso giornalismo ci ha abituato. La forma sintattica del presente indifferenziato è l’anacoluto. Il biodegrado è il panorama tragico di questo farsi e sfarsi anadiplotico, lirico, tragicomico, a tratti parodico, cautamente ironico, del ‘finto movimento’ del flusso verbale, dove il discorso del re balbetta e Cassandra sposa il silenzio mentre la doxa indemenzita non ammette infelicità. Così la lingua poetica fa i conti ideologici con il mondo come spazzatura e come spazzatura, quello di un ‘voi’ eticamente giudicato come avversario, coloro che avversano, ma senza la postura eroica del testimone. L’accusa, dove il flusso si irrigidisce in sentenza, è al passato remoto, non al futuro. Pronto a storicizzare e essere storicizzato: «i lutti che affollano di corpi e ricordi / confusi gli attriti, gli sfreghi / scomparsi // non ne può più, legge le indicazioni / l’opzione – di nuovo? di / vecchio – umido o plastica, la straccia // l’indifferenziata».

di Rosaria Lo Russo

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