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ANDREA CORTELLESSA, Zanzotto. Il canto della terra, Roma-Bari, Laterza 2021, pp. 440, € 24,00.

 

Nella moda feticistica e quasi tassidermica degli anniversari, il centenario di Andrea Zanzotto ha destato una certa attesa messianica (di monografie, di inediti, di convegni e di cerimoniali), nonché il panico orrorifico di tesisti e zanzottisti in erba, disperati all’idea che democratizzare l’occasione comportasse il rischio di veder prosciugata la polla dello scopribile e dell’intuibile. Se Zanzotto è un «manierista da manuale» (p. 9), pubblicandone le istruzioni per l’uso si potrà ancora partecipare al gioco da tavolo delle interpretazioni? Dal canto suo, l’anti-manuale di Cortellessa si presenta come uno strumento tutt’altro che didattico o didascalico, eppure altrettanto pericoloso per la dichiarata ambizione di leggere Zanzotto nella sua «massima estensione», in uno studio che affronti «per la prima volta un’esplorazione di tutto il continente-Zanzotto» (p. 15). Il volume ha finora ricevuto il favore pressoché unanime dei recensori, dalle auctoritates – Corrado Bologna, acribicamente ‘co-innamorato’ dell’oggetto di studio come, del resto, lo «zanzottiano, un po’ zanzottista, alquanto zanzottizzato» Gian Mario Villalta – ai giovani specialisti, Massimiliano Cappello e Antonella Amato. L’entusiasmo e la qualità dei contributi non sembrano compensati da una prosaica (ma sintomatica) quantità degli stessi, in una disattenzione istituzionale spiegabile in parte con l’esubero congiunturale dei centenari, in parte con la scomodità di questo «canto» di secondo grado.

Zanzotto. Il canto nella terra è un manufatto ‘esofilologico’ difficile da assoggettare alla prezzatrice automatica dei generi narrativi. A rendere ingombrante la monografia di Cortellessa non concorre tanto o soltanto il computo numerologico delle pagine (quattrocentoquaranta) e neppure l’arco temporale di stesura (quindici anni, dichiarati alla dogana della fruizione sin dalla primissima riga del testo). «Per molto tempo mi sono coricato presto»; per molto tempo ho studiato Zanzotto. L’avvio prefatorio (Il centro di lettura) è sfacciatamente autobiografico oltre che, a suo modo, romanzesco. Ed è proprio questa radicalità metodologica, questa trasformazione dell’analisi critica in un agone personal-universale con i testi a rendere il libro di Cortellessa un’alterità deterritorializzata e deterritorializzante – il che rappresenta un apparente paradosso, per un libro abitato in larga parte (ma non solo) da paesaggi, geolocalizzazioni, territori, terre e radici. Il segmento introduttivo si costruisce come un delizioso diario-pamphlet paratestuale, che precede la numerazione effettiva dei capitoli ma che ne orienta la rotta e le planimetrie interne. Qui Cortellessa cita i «ricordi personali» (p. 9), gli incontri e le telefonate con Zanzotto (p. 10) non con un piglio vuotamente ostentativo, ma per spogliare la prosa di qualsiasi differimento artificioso e falsamente neutrale imposto dal galateo delle ‘scritture scientifiche’. Osa dire io, insomma. Se l’annosa questione dell’io lirico, più stagionale dei tormentoni estivi, ha portato a un ritorno alternativamente post-combinatorio e vetero-naïf del soggetto in poesia, sembra che per gli operatori culturali continui a vigere una fobia dell’individuazione – dopo la fase dei Mostri Sacri, delle Estetiche e delle teologie (auto)apologetiche del testo.

Nella prassi vigente, la critica letteraria si è anestetizz..., pardon, attestata su un grado (sotto)zero della scrittura, che esibisce una scientificità di superficie attraverso l’abuso di note indefinitamente replicabili, in un panopticon bibliografico che ipnotizza il lettore per nascondere un sostanziale vuoto argomentativo. Rispetto all’ossimoro dominante di una critica acritica, le prime pagine del libro di Cortellessa assomigliano alla comunicazione ‘barbara’ di qualche E.T. sbarcato nella waste land dell’analisi testuale da un futuro distopico ma assai desiderabile. Prima di arrivare a Zanzotto, l’«io critico» (per adottare un’espressione di Villalta) mette a soqquadro la stessa convenzione ingessatamente prefatoria delle monografie, nonché quel patto secolare con il lettore su cui si fonda la sanguinetiana «missione del critico». Nel pieno delle celebrazioni ufficiali – che rischiano, per statuto, di imbalsamare qualsiasi autore in un lungo requiem cerimoniale, privo di dialettica e saturo di protocolli –, Cortellessa rivendica la sacrilega legittimità di operare delle scelte e, in particolare, di decidere da quale delle finestre del testo far affacciare il proprio «demone della teoria». Cortellessa, insomma, sembra arrogarsi i diritti dei critici-poeti senza rinunciare ai doveri dei critici-filologi, in un melting pot gestionale che verrà completamente ripagato dalle successive diagnosi locali. Anche i critici-critici possono (o forse dovrebbero?) porsi di fronte ai testi come libere soggettività interroganti, preferendo, all’analgesico descrittivo di studiosi simili a motori di ricerca incarnati, il rischio di essere uomini, difettosi ma dialettici. Addirittura, i critici dovrebbero (ma dubito che potrebbero) notificare sempre la propria parzialità interpretativa con la stessa onestà con cui Cortellessa svuota anticipatamente le tasche, mostrando al lettore chiavi, strumenti, polvere e «conglomerati» di una lunga fedeltà. Cortellessa possiede ormai una pluri-rinnovata patente da esegeta di testi e di iconografie contemporanee, che qui non occulta ma che, al contrario, inserisce di peso nelle maglie dell’analisi specialistica, non per sbruffoneria narcisistica ma perché le competenze extra-zanzottiane arricchiscono e completano i carotaggi intratestuali. Ad esempio, l’allusione a Tommaso Landolfi, «l’altro autore di cui (dal 1994...) non riesco a venire a capo» (p. 4), diventa funzionale a impostare un discorso sugli strani destini dei canoni fai-da-te, la cui esplosione secondo-novecentesca comporta l’apparente paradosso di un Landolfi che si trova come «unico autore italiano moderno a campeggiare nel cuore tanto di Sanguineti che di Zanzotto suo arci-rivale» (ibidem). Analogamente, il moltiplicarsi di paragoni pittorici e di parallelismi con le arti visive (soprattutto nelle pagine dedicate a Robert Smithson, pp. 43-45) arricchisce produttivamente la dotazione strumentale di un critico che, digredendo, trova il centro più esatto della propria argomentazione.

Un altro pericolosissimo reato imputabile alla monografia di Cortellessa? L’autore giudica e giudica (incredibile a dirsi) il nostro presente. Nel commentare l’irritazione manifestata da Zanzotto per le «minestrine riscaldate pseudo-innocenti, pseudo-ermetiche, surannées», ad esempio, Cortellessa aggiornerà la lamentazione con una glossa sull’oggi («una quarantina d’anni dopo, in quelle minestrine, ci affoghiamo», pp. 19-20). Senza rispettare il veto implicito del politicamente corretto (o, meglio, del ‘politicamente rimosso’), il critico aggiungerà poco dopo, a proposito dell’inattualità di Zanzotto: «Al di là delle mode del breve “Impero” strutturalista, la sua concezione pensante della poesia è sempre stata marginale, in un paese come il nostro; il che nell’odierno sconfortante disarmo è più evidente, certo, ma tale era già negli anni Sessanta» (p. 20). Sfogliando un generoso campionario di saggi specialistici pubblicati negli ultimi (venti? dieci?) anni, il lettore potrà ricavare un dato sconcertante: se non ci fossero gli indizi periodizzanti della bibliografia citata a piè di pagina, gli articoli potrebbero essere stati scritti indifferentemente negli anni Novanta, nel 2002 o nel 2022. Il mondo, la società (letteraria e materiale) rimangono rigorosamente fuori dal libro. Per parafrasare il celebre detto toscano, ‘meglio un morto nel paper, che un pezzo (vivo) di presente all’uscio’. Se Zanzotto ci insegna che il luogo è «davvero e nient’altro che la Terra» (p. 25), il critico chioserà risolutamente che anche noi (studiosi e lettori) non possiamo ambire a «essere in alcun modo fuori del mondo: non ci è consentito togliere il disturbo, infatti, più di quanto potremmo sopravvivere una volta che il mondo lo avremo distrutto» (ibidem). Cortellessa è complementarmente attento, tuttavia, a schivare ogni attualizzazione forzata dell’autore, evitando di «strumentalizzare le sue parole riguardo ai temi ‘centrali’ della nostra attualità» (p. 23), in particolare l’ecologia. A questo proposito, il critico suggerirà efficacemente di sostituire la categoria di Ecopoetry con quella di Land Poetry, che eredita dalla Land Art la prerogativa di «non porsi in contrasto polemico né in edenica fusione» con la terra, «ma in semplice coappartenenza» (p. 45). Cortellessa scinde tra la militanza etica del cittadino Zanzotto e la sua poesia, «per fortuna, del tutto irriducibile a quest’uso diretto e ‘frontale’» della tematica ambientale (pp. 23-24). Per adottare una facile metafora, la lirica zanzottiana è più vicina al contagio (un «contagio quanto mai problematico» e ambiguo, p. 24) che al vaccino, alla trasmissione (e alle varianti) piuttosto che alla soluzione univoca delfarmaco.

Dopo lo scossone tellurico del Centro di lettura, il sismografo continua a segnalare forti turbolenze legate, stavolta, ai risultati che un simile avvicinamento ai testi produce. Non l’impressionismo pre-tecnologico del gusto o dell’intuizione, ma un ancoraggio sofferto a tutti i significati che il «Signore dei Significanti» ha disseminato nei suoi versi. Cortellessa ci re-insegna che i testi oscuri «un significato ce l’hanno: e sta a noi spiegarlo» (p. 13), andando «fino in fondo» nel proverbiale pagliaio per cercare «quell’ago maledetto; quella batteria di aghi anzi» (p. 5). Secondo un pregiudizio filo-calviniano sedimentatosi nell’Accademia, le scritture sperimentali si ridurrebbero a un raffinato virtuosismo istoriato intorno al nulla, che può piacere per ragioni di pura erudizione o, al massimo, di inclinazione psichiatrica e patogena alla complessità. Cortellessa ci dimostra, invece, che, se interrogati con la giusta testardaggine documentaria, anche (anzi, soprattutto) questi iper-testi rispondono. L’apparente oscurità di Zanzotto è piuttosto «un sovraffollarsi di rinvii sovrapposti (le famose sovrimpressioni), ciascuno dei quali fa capo a una filiera concettuale, oltre che stilistica, proveniente da luoghi diversissimi» (p. 13). Se, come affermava con cinica Realpolitik Umberto Eco, «sarebbe pazzesco se un autore d’avanguardia scrivesse per non essere mai, mai, mai capito» (cit. in Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, a cura di Nanni Balestrini, Milano, Feltrinelli 1966, p. 74), il discorso vale a maggior ragione per un poeta come Zanzotto, che avvertiva l’urgenza di dire (e di dire a qualcuno) nei termini di un’autentica «fede [...] rivolta a una trascendenza materiale: quella della ricezione» (p. 14). La cernita delle fonti, lavoro pluriennale e d’équipe (giacché a ricomporre il puzzle dei referenti hanno collaborato e continuano a collaborare critici innamoratamente testardi come Stefano Dal Bianco, Stefano Agosti, Niva Lorenzini, Francesco Carbognin, Luca Stefanelli e Silvia Volpato), non si risolve nel brivido provvisorio del ritrovamento, ma nella paziente ricostruzione del gesto concettuale che ha portato Zanzotto a inglobare proprio quella citazione, quell’autore, quella «lingua-pensiero» (p. 7).

A dimostrazione che un’analisi ‘partecipata’ può essere un mestiere (rigoroso e professionalizzato), senza per forza diventare lavoro alienato, i quattro capitoli centrali – L’oltranza (Possibili prefazi), Curriculum (Bio grafia), I Fatti e Senhal (Vita a fronte) e Andare qui (Percorso) – scortano il pubblico nelle «terre» delle testualità zanzottiana, dal solaio dei ricordi d’«infanzie» e «scuoletta» (pp. 69-101) al giardino-selva da cui si guarda l’«eclissi» (102-125), fino ad arrivare addirittura «oltre l’Infinito» (pp. 283-303). Per evitare al lettore eccessivi spoilerfilologici, cito soltanto l’acquisizione più decisiva, a mio avviso: la scelta di accordare il giusto spazio all’ultima produzione di Zanzotto (Meteo, Sovrimpressioni, Conglomerati e Il Vero Tema). Come spesso accade, gli «stili tardi» vengono tagliati fuori dalle cronistorie manualistiche per una certa indocilità o aperta contraddizione rispetto alla vulgata con cui viene ‘erogato’ a scuola uno scrittore. Si pensi soltanto a Varie ed eventuali, la raccolta postuma di Edoardo Sanguineti, liquidata sbrigativamente come filastroccante e comica ma mai studiata con laica attenzione, a eccezione di Niva Lorenzini e di pochi altri critici. Come se ‘l’ultima parola’ confutasse per dispetto l’utopia di poter ridurre ogni poeta a uno slogan che, nel caso di Zanzotto, coincide con l’immagine (erronea oltre che semplificante) di un’ecloga tardo-pastorale interrotta da un fulmine di Beltà a ciel sereno. Senza la mediazione dei critici, è fantascientifico pensare che un corpus di testi possa avere un futuro – non soltanto tra gli studiosi e i compilatori di tesi magistrali ma anche tra quegli scrittori che, recuperando o fraintendendo l’idioma dei precursori, ne ri-ossigenano continuamente la memoria. Cortellessa fruga tra i versi meno appariscenti di Zanzotto, rivelandoci come la renovatio finale del suo stile rappresenti «una grande novità per la nostra poesia in assoluto» (p. 15), un grimaldello postremo per interrogarci (finalmente) sulla «fortuna poetica» della sua lingua. Un discorso «per la verità, ancora tutto da fare» (p. 18), ma che meriterebbe quantomeno di essere impostato, tanto dalla barricata dei poeti quanto dalle scrivanie dell’università. In ultimo, l’integrazione dello Zanzotto terminale ci aiuta anche a comprendere, ex post, le fasi antecedenti del suo stile, giacché «senza il conforto della sua ultima parola davvero i segni delle sue poesie più grandi, e necessarie, rischierebbero di restare senza significato» (ibidem).

Al di là delle singole incursioni al contempo filosofiche e filologiche (come sintetizza deliziosamente, a p. 32, la citazione incrociata di Gianfranco Contini e Mark Fisher, coinquilini forzati dello stesso periodo) e al di là del vorticoso ballo (s)mascherato dei modelli culturali, che porta il lettore a imbattersi in almeno una decina di nomi per pagina (da Kubrick a Nembo Kid, da Blanchot a Kant), il collante che tiene attaccati i capitoli è ancora quell’iniziale mastice teorico. Quel «centro di lettura» che, per Cortellessa, non coincide con un luogo fisico ma con il territorio astrattamente empirico del metodo. A unire la microfilologia, condotta sugli scartafacci conservati presso il Centro Manoscritti di Pavia, alle riflessioni epistemologiche è, in fondo, la ‘poetica’ del critico – quella che Emilio Villa definiva, a proposito degli Attributi dell’arte odierna, «la mens generale, il torbido totale, la febbre che scivola dentro» le raccolte di saggi (cit. in Aldo Tagliaferri, Il Clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, Roma, DeriveApprodi 2004, p. 137).

Siccome la questione generazionale viene invocata troppo spesso ex cathedra, come discorso sugli usi e costumi degli imberbi studiosi under trenta (nativi digitali, iper-specializzati anzi così attrezzati da risultare vuotamente interscambiabili), rovescio il cliché per suggerire conclusivamente che, sì, anche noi glabri e precarissimi ricercatori giudichiamo le generazioni dei nostri predecessori. Anzi, avremmo addirittura l’ardire di avanzare una necessità: che i parametri ANVUR ci restituiscano non i Vecchi Maestri, accessoriati di un armadio vintage di Dogmi e di Maiuscole (per carità!), ma almeno dei critici letterari che si posiziono di fronte e dentro al testo senza sparire dietro papiri di tuttologia inventarial-concorsuale. «Apprendisti stregoni» (p. 6), «Dupin» di ipotesti rubati e vampirizzati (p. 11) piuttosto che calcolatori meccanici di citazioni da iniettare in tabelle luccicanti quanto tautologiche, se private di un pensiero critico e di uno stile. Con Cortellessa si potrà essere in accordo o in disaccordo, questionare sulle singole interpretazioni o attribuzioni, ma gli si riconoscerà di avere ancora una voce, un ‘controcanto’ critico. Egli analizza e argomenta, ma lo fa inventandosi pagina dopo pagina una prosa, un senhal linguistico riconoscibile, lontano dal mito anglosassone di un esperanto stilistico in cui semplificazione e anonimia vengono asetticamente a coincidere. L’impressione pietrificante dell’attuale panorama critico è che, se provassimo ad applicare i parametri del «protocollo di lettura» (p. 6) di Cortellessa ai sedicenti professionisti del settore, pochi nomi resisterebbero al test. Se tirassimo «fino in fondo» i «fili di certe citazioni» accolte nei saggi di fascia A, se ci interrogassimo su come un critico legga e «usi» la propria antologia di riferimenti (pp. 7-8), su come facciano concretamente sistema le sedicenti competenze multifocali e interdisciplinari (per moda o per convenienza mariecuriana), ci troveremmo in mezzo a un deserto di simulacri. Autori scelti per le mediane dell’abilitazione nazionale, perché appartengono alla categoria desiderabilissima dei minori-in-cerca-di-autori (d’edizioni critiche), per imposizione baronale, per pigrizia o per vanità. Svuotata della critica, la professione del critico resta soltanto un’afasia da cameretta, un canto per terre desolate.

                                                                                                                                            (Chiara Portesine)


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