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SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA 65 (2021/1) pp. 77-80 (scarica pdf)

GIOVANNI DI ALTAVILLA Architrenius a cura di Lorenzo Carlucci e Laura Marino, Roma, Carocci 2019, pp. 407 (Biblioteca Medievale 155) € 36,00.

Ci sono imprese letterarie la cui importanza travalica il valore qualitativo, quale che sia. Fra queste possiamo contare la traduzione italiana in versi dell’Architrenius (ossia ‘il super-lamentoso’, ‘il capo dei lamentatori’), un poema in nove libri di esametri latini composto dal quasi sconosciuto Giovanni, forse monaco forse prete di Hauville e maestro alla scuola cattedrale di Rouen, in Normandia, nella seconda metà del XII secolo ma non prima del 1185, anno in cui entrò in carica il vescovo Gualtiero di Coutances, cui il testo è dedicato quando era in carica. Lo trasmettono oltre ventisei manoscritti e la stampa parigina di Ascensius del 1517, ma nei tempi recenti è stato oggetto di attenzioni approfondite prima da parte di uno dei massimi filologi mediolatini del XX secolo, Paul Gerhard Schmidt, che ne pubblicò edizione, traduzione tedesca e informatissimo commento, senza il quale oggi molti versi e molti dati del testo risulterebbero incomprensibili, e poi, con traduzione inglese, da Winthrop Wetherbee per la collana Dumbarton Oaks Medieval Library di Harvard. Le recensioni di qualificati specialisti a queste due pubblicazioni hanno poi condotto a migliorare ulteriormente la comprensione del testo, e sulla base di queste e di una traduzione inedita di Nicholas Carlucci in una tesi americana del 1977 è uscito nel 2019 questo volume curato dai benemeriti coniugi Laura Marino e Lorenzo Carlucci, studioso appassionato del poeta, cui ha dedicato anche saggi in riviste filologiche.
Architrenius è il soprannome del protagonista che a mezzo del cammin di sua vita si interroga sulla virtù trascurata in giovinezza e ne indaga i fondamenti nella Natura, alla ricerca della quale parte in un lungo viaggio allegorico. Comincia dal palazzo di Venere e dopo la lussuria affronta la gola, che domina grazie alla sobrietà dei monaci cisterciensi, giungendo poi all’Università di Parigi, di cui offre un quadro di importanza unica perché riferito all’epoca stessa della sua istituzione ufficiale, trovandovi studenti divorati da un amore utilitaristico per la Sapienza, per passare quindi al Monte dell’Ambizione, in cima al quale osserva una corte che sfida gli dèi e di cui il poeta descrive il lussuoso arredamento e la fauna d’ambiente. Col quinto libro si passa al colle della Presunzione, abitato da ecclesiastici e professori, vicino al domicilio di Superbia, dove appare il mostro Cupiditas che artiglia il mondo, e il pensiero del primo angelo diventato Lucifero che per superbia scatena il dolore di Architrenio sull’inevitabilità del desiderio di possedere una creazione di tale infinita bellezza. In questo spazio si inserisce una digressione su Galvano e i cavalieri di Re Artù. Destinazione finale è l’isola paradisiaca di Tylos, dove il protagonista incontra tredici filosofi dell’antichità, ognuno dei quali pronuncia un discorso su un vizio e la corrispondente virtù, e i Sette Savi (sempre della Grecia classica) che lo intrattengono sulle virtù teologali e cardinali. Alla fine raggiunge Natura, che gli spiega il funzionamento dell’Universo e gli propone il matrimonio con Moderazione, celebrazione che costituirà, secondo il modello di Marziano Capella (Le nozze di Mercurio e Filologia) la scena conclusiva del poema.
I curatori ci informano sulla ricezione del poema, dal retore del XIII Goffredo di Vinsauf che gli assegna la palma dell’eccellenza al suo allievo Gervasio di Melkley che ne fa uso come miniera di citazioni e così via in Eberardo il Tedesco, Henri d’Andeli nella sua Bataille des set arts, l’Arrighetto di Enrico da Settimello, probabilmente il Tesoretto di Brunetto Latini, mentre Petrarca  lo trovava pretenzioso e vuoto, anzi emblema della cultura delle scuole medievali cui contrappone il suo protoumanesimo, e come tale torna a giocare un ruolo simbolico nella disputa fra Giovanni Dominici e Coluccio Salutati sullo statuto gnoseologico della poesia. Ma la storia continua con Nicola d’Oresme, John Gower, gli umanisti Lilio Giraldi, Enea Silvo Piccolomini e Juan Luis Vives, per riprendere lena dopo l’individuazione alla Vallicelliana di Roma dell’edizione Ascensius, al quale aveva trasmesso il testo Jean de Voeuvre (Giovanni de Vepria), lo scopritore delle lettere di Eloisa e Abelardo e trascrittore delle Epistolae duorum amantium recentemente tornato sotto i riflettori della filologia mediolatina. 
Fra i lettori di Architrenius dei secoli successivi troviamo John Leland, Konrad Gessner, Gerhard Voss, perfino Giacomo Leopardi (secondo le congetture di Carlucci, che trova consonanze nel Dialogo della Natura e di un Islandese) e Washington Irving e poi Thomas Wright, che ne apprezza la verve satirica. Alla lista, già in parte stilata dagli editori precedenti, Carlucci aggiunge ipoteticamente Rudolf Steiner, mentre nel ‘900 l’attenzione è riservata agli specialisti, e non sempre con alto gradimento, perché il confronto con altri poeti ‘didascalici’ a tenore filosofico, Alano di Lille (nel suo De planctu Naturae), gli autori del Roman de la Rose e Dante, gli è certo sfavorevole. 
In effetti il fatto che il «primo dei pellegrini interiori» (Piehler) sembri non imparare nulla da quello che vede e sente può sorprendere, ma in realtà proprio il permanere del suo disincanto rende la sua figura empatica a un lettore moderno. Peter Godman, presentando l’Architrenius come un «capolavoro incompreso» che intende ribaltare parodicamente l’Anticlaudianus di Alano di Lille, definisce il protagonista un secondo Enea e insieme un everyman;per Wetherbee invece Giovanni è un poeta moralistico incapace di profondità teologica. Il curatore lo colloca invece sullo sfondo di un sfiducia per l’idea di Provvidenza dovuta anche all’esplosione di eresie cristiane e alla sofferenza per la loro repressione violenta, che giustificherebbe il manicheismo (diremmo meglio gnosticismo) percepibile nelle espressioni del personaggio. Ma le tracce di una sensibilità dell’autore per le dispute ecclesiastiche in realtà sono minime e il rischio di una sovralettura anacronistica che vi proietti sensibilità moderne è sempre in agguato. Carlucci, convinto di avere a che fare con “capolavoro dimenticato della letteratura europea”, individua le ragioni principali della sfortuna moderna del poema nell’ambiguità non ideologica del suo messaggio, nel suo latino “barbarico”e nell’inesistenza di un profilo d’autore. In realtà la fruizione del poema soffre anche del peso di lunghi passi inerti e noiosi e di ampie digressioni piattamente didascaliche. Ma, è vero, Giovanni in media è “notevolissimo poeta”, capace di esametri di squisita fattura e Carlucci con Laura Marino riesce nell’impresa impossibile di darne una versione italiana che possa dirsi veramente “poetica”, privilegiando con sensibilità l’aderenza all’originale sul piano sintattico, retorico e lessicale. Il ricorso a latinismi è forse troppo marcato, ma si giustifica spesso per comodità metrica, come nell’onnipresente “vere”per “primavera”o “egro”per “malato”, “egrare”per “far ammalare”o “far soffrire”, “senio”per “vecchiaia”). Il criterio della metrica barbara riesce a  creare un verso epico con ritmica elegante e impetuosa, facendo equivalere l’esametro, con la dovuta elasticità, a una combinazione di senario + novenario o ottonario + novenario o doppio novenario, con ipometri e ipermetri occasionali ma creando un’impressione di regolarità e un flusso armonioso. Dunque il lessico resta arcaizzante e forse troppo artificiale e erudito per poter coinvolgere un lettore di oggi, ma il testo che ne risulta esprime una sua poeticità omogenea e coerente e questo è di per sé un risultato straordinario, realizzando quanto il poema declama al 6° verso del primo libro: “soccombe la natura allo sforzo dell’arte”, perché (42) “è nata e con verso bambino vagisce una pagina nuova”. Il lessico esibisce gustosi neologismi come “ventrolatro”(ventricolus) per i golosi, così come fornisce rare chicche antropologiche come i brindisi al suono di wesseil! (II 310); ma spiccano soprattutto le innovazioni ricorrenti, come “inviolettare”(dal verbo neologistico vaccinio, cioè hyachinio, che potremmo tradurre anche “giacinteggiare”o “mirtilleggiare”), e “innaufraga”, detto della barca del mondo,  e “invespra”per vesperat, “alluna”per lunatur, “illascivaper illasciva come gli appare la severa Natura), cui si affiancano agudezas di finezza psicologia come il “viso ferrigno”e “l’ansia che il senio scriverà sulle guance”(VII 30-1) che non commuovono i potenti insensibili.
Molte le espressioni e i passi memorabili per invenzione fantastica, novità di immaginario, compressione stilistica, potenza e insieme delicatezza linguistica, mentre è inutile qui menzionare i pochi refusi dell’Introduzione, le alternative che possono venire in mente per migliorare alcuni versi e le sviste traduttorie inevitabili per chiunque e qui ridotte davvero al minimo in rapporto alla mole del poema (4368 versi). Ricordiamo le bellissime invocazioni a Dio “Tu, che misuri le sabbie segrete dell’uomo”(I 175), “Tu linea che mai è deviata dal disegno supremo”(183-4), tu “piovimi dentro la mente”(191), mentre alla Natura il poeta chiede “inviscera gemme nelle onde, illumina l’aria”(238-9). Fin troppo monumentale è la Descrizione della fanciulla dal capitolo 14 del primo libro (I 364-487) al primo del II (1-71), pezzo di bravura delle scuole retoriche estenuato fino allo sfinimento, anche se “Solo in parte queste cose annota Architrenio con gli occhi e gli arti che non vede indovina dai simili visti / e fa da specchio la nuda grazie alla grazia velata”. L’ammirazione di questa esaltazione della donna, che non trova corrispettivi nemmeno nella letteratura classica, è comunque l’ennesima conferma di quanto circostanziabili debbano essere i pregiudizi su un presunto misoginismo permanente del “medioevo”.  Sontuosa e regale la Parigi universitaria: “nuova reggia di Febo, / Parigi, cirrea d’abitanti e crésia nei marmi, / greca ne libri, per studi un’India, per vati romana, / nei saggi un’Attica, rosa del mondo, profumo dell’orbe, /nell’ornamento sidonia, unica in pranzi e bevande, / ricca nei campi, feconda nel vino, mansueta nei villici, / ferace di messi, nuda di rovi, pescosa nei laghi, d’uccelli nei rivi / di casa pura, salda nel duce, pia nei re, e nell’aria /dolce, amena nel sito, buona in tutto: ogni bene / ogni bellezza, se solo la Fortuna favorisse i buon!”(II 481-493). Divertente e prezioso documento anche socioculturale la sezione sugli studenti fuori sede, “orrida turba di logici”ai quali “per il nullo utilizzo del pettine / la chioma si drizza”(III 21-22) e “con sforzo alterno la chioma / contro se stessa combatte”(24-25). “La miseria (…) detesta / l’orpello dell’arte del pettine, soddisfatta del bello / che la Natura le ha dato”. Per il loro pasto “borbotta vicino alla fiamma / l’orciòlo, in cui nuota un pisello, in cui la cipolla / vaga e la fava e il porro minacciano il capo / di tormenti e scolora il cavolo duro e qui, / se è giorno di festa, si gusta una bieta e qui / l’intruglio più vile dell’orto attende Minerva digiuna”(65-68). Efficacissime per capacità satirica e osservazione psicologica  le scene del  libro III sullo studio notturno, e le successive sui turbamenti del sonno e sui trucchi per vedere l’amante, il risveglio, i preparativi per andare a lezione, il tragitto per la scuola e la lezione, culminanti in un’amara riflessione sull’inutilità del sapere e sull’ipocrisia con cui i ricchi fingono di dare importanza alla cultura.
Sorprendente anche l’elenco dotto e insieme giocoso degli alberi sul Monte dell’Ambizione, mentre più opache al nostro gusto sono le tirate moralistiche e soprattutto l’erudizione classicista di cui è piena la decorazione e che creano un effetto di artificio innaturale per l’epoca. Ma c’è sempre qualche dettaglio che intriga: l’espressione dell’ambizioso Alessandro Magno “vedo così tanti mondi, non uno ancora mi è schiavo”(tot video mundos, michi nondum serviat unus”, 480), la descrizione delle scene dipinte sui boccali, il sistema di comunicazione a gesti dei signori (compreso il “piedino”sotto il tavolo), la descrizione dell’atteggiamento fisico di Superbia in ogni parte del corpo, talmente icastica che possiamo immaginarne una messa in scena, il ritratto del monaco superbo, “belva del chiostro”cui “il ventre si gonfia di entrambi i Noto”(cioè i venti: IV 149),  le intuizioni teo-mitiche come Lucifero nuovo Narciso (V 215), i particolari sensibili (“l’aria profuma di odori, / ultimo onore dei ricchi” VI 157-8, in occasione di funerali), ma anche improvvisi scatti lirici come VII 286 ss.: “La porta delle virtù è l’Aurora che porterà il giorno / puro della conoscenza, primo polo dal quale s’accede / agli astri: il timore di Dio”. Si fa leggere con rispetto devoto tutta la commossa orazione di Biante su come amare Dio (VII 323-57), un Dio astratto e generico come quello degli antichi filosofi, senza nulla di cristiano (anche se personaggi come Lucifero rinviano comunque alla mitologia biblica), ma l’adesione al quale è come “divenire dall’ombra del corpo / una stella”(396-7).
Se l’ultima parte dell’VIII e il IX libro, occupati da una sorta di trattato di cosmografia, suonano piuttosto tecnici e pesanti, tanto che lo stesso Architrenio ne esprime una critica interna (“Queste cose fanno stupire più che conoscere”, IX 1), questa ferrosità è però riscattata dalla tirata finale contro i mali che Natura ha lasciato filtrare nel mondo e dominare la vita e dalla risposta, anche se un po’ più scolastica, di Natura.  Anche nell’invito di Natura a sposarsi Giovanni trova il modo di inserire una ecfrasis finissima del monile (una collana, direi) che la sposa indosserà e che chiuderà i suoi seni agli sguardi che potrebbero svilirla: raffigura esempi mitico-storici di castità. Altrettanto graziosi sono i doni allegorici contenuti nella sua realistica borsetta e che configurano un programma coniugale in termini di strumenti di lavoro fabbrile: “concordia del letto, il patto / di pace, il nodo amicale, la correzione [nel senso di “controllo”] del desiderio, / dirittura del giusto, il seghetto della virtù, dei costumi / la lima, il rigore mentale, la maestà del viso, il peso / dell’onesto, il freno del modo [nel senso di “misura”], scissione dei crimini, fine / della colpa, Minerva del bene, via media, metodo equo, / il pettine della purezza [quella del pettine era una sua ossessione], fragranza di vita la grazia / della fama, il conforto in miseria, la cautela nei fausti [cioè nel giorni favorevoli]”(IX 378-85). Un ideale di nobildonna virtuosa e impossibile perfino nell’atteggiamento del viso. Altrettanto inattesa la lista degli strumenti musicali, coi relativi effetti, che accompagnano la festa nuziale insieme agli uccelli dei boschi.
Negli ultimi versi il poeta, che definisce la sua opera un “libello nutrito al seno di un lungo studio, / figlio rude e plebeo di un ingegno comune”(468-9) le augura di rimanere esente dal morso d’invidia e preconizza un qualche successo solo dopo la propria morte: “Quella luce guadagni un’alba / nel tramonto di Giovanni, sorga quel sole dall’urna / del cadavere, sempre visibile grazie a un fuoco inestinto”. Diremmo che il suo sogno si è realizzato, e ne dobbiamo gratitudine profonda ai suoi sciamani Carlucci e Marino che con amore e premura lo hanno resuscitato alla lettura dei lettori di lingua italiana.

                                                                                                                     Francesco Stella


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