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SANDRO PENNA, Poesie, prose e diari, a cura e con un saggio introduttivo di ROBERTO DEIDIER, Cronologia di Elio Pecora, Milano, Mondadori, 2017, pp. CLII + 1420, € 80,00.


In: «Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 79-82.


Fra Joseph Bédier e Gaston Paris, probabilmente oggi opterei per Bédier: ovvero per la storia, contro la fiducia ottimistica di rintracciare l’originale. Può sembrare bizzarro partire da questa costatazione per parlare di Penna e dell’edizione integrale di un contemporaneo. In realtà che l’edizione di un contemporaneo sia agevole è una dottrina scarsamente verificata. Le condizioni finiscono per essere non molto diverse da quelle di un testo medievale, rese persino più intricate da ciò che a prima vista potrebbe sembrare un vantaggio: l’abbondanza di documentazione permette di seguire nei dettagli l’affollarsi dei progetti, tra cui però non è sempre facile orientarsi. Pubblicare non è il passaggio scontato in tipografia di un progetto autoriale: nel contesto dell’editoria moderna (e poi industriale) l’autorialità ha veramente mutato faccia. È anzi legittimo domandarsi fino a che punto autorialità e volontà d’autore possano essere gli unici criteri di riferimento, o non rischino di risolversi in petizioni di principio che sfiorano l’arbitrarietà, considerando la materialità dei processi attraverso cui si costituisce il libro. E, va aggiunto, la contrattazione autore-editore che questo comporta. Un interventismo sempre più massiccio della redazione, e in termini di omologazione a modelli predefiniti dalle case editrici, coincide con una deriva del paradigma tradizionale di autore e volontà d’autore. Autorialità (volontà d’autore) e storia dell’opera non sono perciò punti di osservazione sempre sovrapponibili e il loro intreccio va affrontato non ideologicamente. Il caso di Penna è davvero esemplare.
Il corpo testuale tradito della sua poesia si identifica come deposito della storia editoriale. Una vicenda che è stata variamente discussa, spesso derubricando il ruolo effettivo giocato da Penna, ma che, osservata senza preconcetti, rivela una linea di coerenza e stabilità nell’intero suo sviluppo. Dal 1957 Garzanti è stato l’editore di riferimento: le Poesie del 1957 raccolgono tutta l’opera precedente con l’aggiunta di una corposa sezione di inediti, Poesie 1938–1955, che diventa il baricentro del libro. Tutte le poesie 1970 non fa che aggiungere al libro del 1957 l’unica raccolta successiva, Croce e delizia 1958, e un ulteriore nucleo di poesie inedite (o apparse solo in rivista), Altre [1936–1957], fissando le coordinate cronologiche della scrittura: oltre il 1957 Penna ritorna sui testi, ma con buona probabilità non scrive più (o quasi più). La nuova edizione, Poesie 1989, più volte ristampata, aggiunge le due raccolte posteriori al 1970: una sistemazione che si doveva forse evitare, non essendo certamente d’autore, tenendo Stranezze 1957–1976 e Il viaggiatore insonne ben distinte dall’asse Poesie - Tutte le poesie. La precisazione, però, non cambia molto: uno strato dopo l’altro, l’opera coincide davvero con la sua storia editoriale, secondo un modo di procedere molto conservativo che lo stesso Penna legittima certificandone l’autenticità con una Nota, nel 1957 e poi di nuovo nel 1970. I fatti sono estremamente limpidi: qualche sconcerto può nascere da un titolo come Stranezze 1957–1976, le cui date non sembrano fare sistema, ma per il resto il quadro non è dei più controversi e irriducibili. Certo, se per un attimo accantoniamo il falso problema dell’autorialità.
L’edizione curata da Roberto Deidier per Mondadori parte invece da un diverso ragionamento: fermare un testo che rappresenti la volontà (o meglio l’ultima volontà) dell’autore, perché la storia editoriale è un susseguirsi di tradimenti e i libri il risultato di manipolazioni arbitrarie da parte di amici, consulenti, editori. L’impostazione non ammette deroghe – tutti i libri di Penna sono manipolati – e si traduce in un impianto altrettanto netto del «Meridiano». L’unico libro sulla cui autorialità non sussisterebbero incertezze sarebbe l’auto-antologia Poesie 1973, anch’essa pubblicata da Garzanti, e pertanto l’edizione dell’opera poetica di Penna in Poesie, prose e diari si organizza in due sezioni: Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 
1973 (= Poesie 1973, con l’aggiunta di La vita… è ricordarsi un risveglio) e Poesie 1922–1976, ovvero la lunghissima campata che raccoglie tutto il rimanente. È il caso però di precisare che Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 non è un titolo autoriale – lo decide il curatore – e che la sezione (o il libro: si resta in forse) non combacia con Poesie 1973: La vita… è ricordarsi un risveglio non è presente in quel volume, ma secondo un appunto di Penna (che l’editore assume come attestazione d’autore incontrovertibile) sarebbe stata esclusa ‘proditoriamente’ dall’editore. Ci si domanda se, a rigore, non sarebbe stato meglio ripubblicare un libro che è esistito (ancora Bédier), Poesie 1973, col suo titolo e dare notizia della poesia ‘espunta’ in apparato: anche il lettore meno provveduto intuisce dai documenti che Penna ha il vezzo di lamentarsi, sempre e comunque, e non è proprio un campione di attendibilità. Non è un po’ ingenuo prendere per buone le sue paturnie, immaginando che Livio Garzanti gli sottragga di nascosto uno dei testi più famosi? con quale vantaggio? Fatta la scelta opinabilissima di intervenire, e sulla base di una dichiarazione inverificabile, Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 diventa un libro collaborativo – e per di più in assenza forzata dell’autore – non meno di tutti gli altri. Il che conferma, implicitamente, la storia da cui si vorrebbe riscattare un Penna autentico e compos sui: che non si dà mai libro di Penna senza un qualche intervento esterno e una forte mediazione editoriale. Il che non vuol dire in modo automatico prevaricazione.
L’autorevolezza di un libro non si incrementa tautologicamente marcando nei dintorni del testo che il libro è autorevole: Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 non equivale a Poesie (il titolo del 1973). E non lo traduce in termini più chiari. È un titolo che rispecchia l’intenzione del curatore e semmai rappresenta un elemento di fragilità nell’intero edificio: non basta creare un’etichetta forte (in realtà una formula retorica) perché automaticamente l’operazione si carichi di forza. La retorica non surroga una materialità facilmente verificabile. Poesie 1973 è un’auto-antologia condotta su Tutte le poesie 1970 (basta controllare l’indice): non si tratta affatto di un progetto originale, ma dipende direttamente dall’ultima edizione disponibile, ovvero è il frutto tardivo della storia editoriale di Penna. In un circolo vizioso, proprio quella storia che si vorrebbe cacciare dalla porta rientra dalla finestra. Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 implica un altro rischio: puntando tutto sul 1973 fa del libro il prodotto di quello che potremmo definire il gusto momentaneo di Penna. Una cosa a cui Penna tiene molto, ma che non rappresenta un criterio: quale sarebbe stato il gusto di Penna nel 1974? È evidente che è il riflesso di un’autorialità decentrata e in continua fluttuazione, come per gli altri libri. E inoltre, se tutta la storia di Penna è una storia di tradimenti, il tradimento si insinua anche nella tarda antologia d’autore: manca La vita… è ricordarsi un risveglio. Poesie 1973 è, come ogni raccolta, imperfetta, dal punto di vista in movimento del suo autore: il nodo è infatti un’autorialità che non si ferma mai in una costruzione convincente e stabile di sé; inseguire un’autorialità del genere significa imboccare una deriva senza fine, entrando nel terreno insidioso dell’attendibilità o della «sincerità» di Penna e di una biografia così variabile, che a ogni svolta riorienta una possibile lettura dell’opera, senza mai cristallizzarne una, come abbandoniamo l’asse Poesie - Tutte le poesie. Non si tratta dunque di inseguire Penna – non si approda a nulla –, ma di mettere a tema la questione come uno dei grandi nodi della poesia novecentesca, non solo di Penna. Con tutta franchezza, secondo quali criteri di autorialità si dovrebbe ripubblicare oggi Sbarbaro? Oppure Gatto? Ma intorno a Sbarbaro o a Gatto non si è creato il mito dell’originalità che assedia Penna.
Il ritratto più efficace dell’automatismo che scatta quando Penna si trova alle prese col libro è narrato da Garboli – con Pasolini uno dei grandi mistificatori – nella Postfazione a Stranezze 1976, di cui vale la pena di riportare un estratto un po’ ampio (pp. 36–37):
«Così è difficile datarle le poesie di Penna. Fuori dai periodi cronologici in cui vengono iscritte in occasioni delle grandi mostre, ciascuna di esse o databile stilisticamente, o si perde in una vita che non ha date. E le periodizzazioni di Penna sono poi attendibili? Vai a sapere se […] Muovonsi opachi coi lucenti secchi […] sia stata scritta realmente dopo il ’70. Non appartiene a ‘prima’ tutta quella luce, quel battere di panni? Ma Penna è irremovibile, non sente ragioni, e invano gli faccio notare che Muovonsi è uno dei pochissimi testi non manoscritti, ma dattiloscritti, per giunta sopra un foglietto ingiallito. Da questo Muovonsi è nata una lite. E un’altra, devo confessarlo, è nata dal fatto che Penna non ama questo libro, al punto che pretendeva – quando era già in bozze – che io lo aiutassi a non pubblicarlo. E come potevo? E poi, era sincero, Penna? Penna è un uomo strano. È come le donne e i bambini. Tutto il suo essere, tutta la sua faccia sprigiona sincerità. Ma non sai mai, quando parla, se dice il vero o il falso. Così ho spiato a lungo, nel suo volto, i suoi pensieri, la sua volontà, come Brunilde la spiava sul volto di Wotan. Era sincero? […] Penna ha sempre fatto così, con ogni raccolta, disprezzandola, avvilendola in confronto allo splendore irrevocabile delle poesie di ‘prima’».
Il passaggio è illuminante e non si capisce proprio per quale ragione Deidier non lo riporti in apparato al «Meridiano», almeno in stralcio: perché è evidente che rimette in discussione il suo intero ‘impianto accusatorio’. Riassumiamo le tappe. Penna decide la disposizione delle poesie di Stranezze 1976 secondo gli estremi 1957-1976, Garboli osserva che le date non gli tornano (molte poesie sono sicuramente anteriori al 1957), Penna si impunta sulle date perché Stranezze vuole rappresentare una nuova fase della sua poesia – il «poeta del “mistero”» – e i due litigano. Le date non rispecchiano una cronologia reale, si capisce; marcano simbolicamente nel tempo una divergenza che invece è nello stile: sono questioni tutt’altro che marginali, che non dovrebbero essere trascurate, se vogliamo davvero comprendere le dinamiche interne al sistema Penna. A volume ormai in bozze Penna vorrebbe che Garboli facesse interrompere la stampa: Garboli – ovviamente: ci sarà stato un contratto – non gli dà ascolto, come hanno fatto tutti gli editori precedenti. E sempre con qualche ottima ragione.
Garboli dice che Stranezze è costruito come lo ha voluto Penna: secondo criteri che lui non ha condiviso. In una pagina che è un capolavoro di sottintesi (e per questo criticamente molto discutibile) Deidier lascia intendere (non lo dice) che il libro reca la mano di altri: essendo due – Penna e Garboli –, di chi se non Garboli? Deidier contro Garboli. Garboli sottolinea che le «periodizzazioni» del libro sono di Penna (e non attendibili). Deidier dice che le «date sia sulla sovracoperta che nel frontespizio» sono la «riprova di una volontà (non autoriale) di contiguità cronologica con Tutte le poesie» (Poesie, prose e diari, p. 942). Di nuovo Deidier contro Garboli, con un corollario che però va almeno enunciato: Garboli avrebbe inventato una storia parecchio complicata per nascondere il modo in cui ha truffato Penna (e di questo Penna si sarebbe accorto in bozze)? Anche questa è una mera illazione, certo: Deidier non dice nulla di simile. Se l’operazione critica del «Meridiano» punta a dimostrare che tutti i documenti contengono le prove delle clamorose manipolazioni subite da Penna, la lettura spassionata dei documenti, anche quelli che il «Meridiano» riporta, sembra però dimostrare esattamente l’opposto. E anche la fatica che il curatore deve compiere per far quadrare conti che comunque non tornano.
Lo scenario di Stranezze si ripete ad ogni raccolta, e in alcuni casi è davvero palese che Penna «dice il falso» o non è «sincero». Meno moralisticamente: ha cambiato idea, per un’incapacità sistemica di riconoscersi nel libro che lui stesso ha impostato. È la vera questione, che andrebbe posta al centro della riflessione e non continuamente aggirata, come fa il «Meridiano», in cerca di un’autorialità che non esiste nei termini in cui la pone Deidier. Per Penna e per molti altri: è bene insistere.
Quello che Penna scrive nel 1960 di Poesie 1957 è un mezzo ripudio: «Il libro era uscito quasi a forza, per volontà dell’amico Pier Paolo, al quale poi rimproverai addirittura dei tradimenti» (E. F. Accrocca [a cura di], Ritratti su misura di scrittori italiani: notizie biografiche, confessioni, bibliografie di poeti, narratori e critici, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 325). Se però prendiamo la Nota dello stesso Penna a Poesie 1957, il tono è molto diverso: «E come perdonarmi di non avere affatto ritoccato le poesie di Appunti e di Una strana gioia di vivere, anche se qui si tratta di due volumetti (“marginali”) che sono stati da qualcuno apprezzati così com’erano, in blocco? E allora c’è forse in me la speranza (non più “segreta”, dunque) di non perdere quei pochi, troppo affettuosi, riconoscimenti?» (Poesie, prose e diari, p. 928). La scelta di ripubblicare Appunti e Una strana gioia di vivere invariati è dunque sua: così come, va aggiunto, la struttura del libro centrata sul grosso nucleo delle poesie inedite, Poesie 1938–1955, l’ha pensata lui. Parlano di libri diversi, ma nella circostanza della responsabilità autoriale ciò che racconta Garboli coincide con quello che scrive Penna. Anche per Poesie 1957 la Nota offre una chiave d’interpretazione d’autore della struttura del libro così complessa che è impensabile ignorarla: ma di nuovo, non essendo pregiudizialmente di Penna, Poesie 1957 non può che essere testimonianza di conflitto e disordine. Considerando tutti gli elementi disponibili, è davvero la soluzione meno economica.
A partire da Poesie 1939, e a seconda dei documenti disponibili, lo psicodramma di Penna vittima della congiura si rinnova di raccolta in raccolta. Per Croce e delizia, ad esempio, che sarebbe un vero scempio: Naldini, che cura la «Collana di poesia» per Longanesi (e dopo Croce e delizia chiude bottega) impazzisce dietro ai mutamenti di umore di Penna. E tuttavia, malgrado il suggerimento esplicito di Pasolini, non sottrae la raccolta all’autore: «Segna quelle che desideri che siano pubblicate – delle 14 poesie aggiunte – con tutte le correzioni chiarissime» (2 maggio 1958). Niente di esorbitante, insomma, rispetto a un qualunque rapporto di collaborazione con uno scrittore bizzoso e indeciso. Il libro è il risultato di una contrattazione fra autore e curatore della collana: tutto qui, non è manipolato.
Anche quando le cose sembrano filare liscio, l’atteggiamento di Penna ha un rapporto con la propria opera a dir poco singolare. A proposito di Una strana gioia di vivere 1956 scrive: «A questo punto debbo dire che l’ideale dell’editore è stato, per me, Vanni Scheiwiller». Ma come è nata la raccolta del 1956? Dalla rinuncia consapevole a introdurre correzioni nelle poesie e a ordinare il libro; compiti che Penna delega al tipografo: «Io rinunciai ad ordinarle (le poesie) a modo mio con l’idea di dare meno lavoro al tipografo, una volta che le ha numerate» (15 marzo 1956). Più chiaro di così: salvo poi rimproverarsi, nella solita Nota a Poesie 1957, di non aver rivisto i testi di Appunti e Una strana gioia di vivere prima di ripubblicarli. Però è l’autore che ha deciso di non farlo, e per ragioni che sono sue: in assenza di altri documenti, è una soglia che il critico non varca.
Fondare su accertamenti del genere la non autorialità dell’opera edita di Penna è metodologicamente fuorviante: i documenti dicono sempre altro, e possono essere letti con minor sforzo come indizi di autorialità. Un’autorialità debole e contraddittoria, prona ai consigli altrui forse, ma che nei momenti decisivi – Poesie 1957 e Tutte le poesie 1970 – coincide sempre con una piena assunzione di responsabilità nei confronti dell’opera. Qualcosa vorrà dire. È inoltre un caso così anomalo – che merita di essere isolato – nel panorama editoriale del Novecento, oppure se facessimo una campionatura un po’ più estesa, Penna sarebbe una delle possibili modalità di contrattazione del libro? E dunque di autorialità. La fenomenologia post–traumatica (dove il trauma per Penna è il libro a stampa) riguarda la sua peculiare autorialità – che poi tanto peculiare non è –, ma non intacca minimamente l’attestazione di paternità dell’opera. Verificare il contrario, significherebbe portare delle prove che nei documenti disponibili non ci sono: nessuna sconfessione aperta dell’opera. Che per Penna il libro come si è realizzato non rispecchi il libro che avrebbe voluto realizzare ha altre implicazioni, molto più complesse, che la non autorialità dell’opera. Anche in questo caso, un’attenuazione dell’apparente eccezionalità potrebbe venire da una prospettiva meno angusta, monografica, della filologia novecentesca.
La nozione di autore e di libro accreditata dal «Meridiano» non offre una migliore legittimazione dell’opera e finisce per annullarne la complessa stratigrafia pubblica – che resta l’unico dato certo e documentabile –, in nome di un’autorialità astratta, che riflette il teorema del curatore, ma risulta del tutto estranea ai modi in cui si è formato il deposito storico dell’opera e alla sua ricezione. Oltre a trascurare come la ricezione di un libro possa aver influenzato la costruzione dei successivi: nel caso di Stranezze e del «poeta del “mistero» questo è chiarissimo. Confinare la storia in apparato, ma con lo stigma di sottoprodotto della sistematica adulterazione dell’originalità di Penna, non compensa lo stravolgimento del corpo testuale. Un’autorialità così mobile (debole?) non sta nelle forme monumentali dell’editio ne varietur – fosse anche Poesie 1973 –, ma proprio nel fluttuare della sua storia. Neppure nella metafisica dell’originale.
Optare per Poesie 1973 significa privilegiare un prodotto laterale nella costruzione dell’opera, che peraltro condensa senza un vero criterio decifrabile Poesie 1970. Pur avendo il corpus a quella data completo, che ha la sua ragion d’essere storica, se ne predilige una selezione che non cambia affatto la sostanza dell’opera – quella appunto fissata in Poesie 1970 –, ma schiaccia tutto il percorso di Penna su un’immagine che non è il ‘vero’ Penna, bensì una delle possibili versioni di sé e della propria opera. Senile e derogatoria: Stranezze è sicuramente il libro fondamentale degli anni Settanta. Averlo eliminato non è decisione di grande intelligenza critica. L’atto magico di cancellare la storia di Penna non produce nessun valore aggiunto: spazza invece via la storia del sistema di relazioni che Penna intrattiene con il resto del Novecento. Ne fa un’isola priva di ogni relazione col mondo che la circonda: il «Meridiano» ripropone un impianto idealistico per un verso e per l’altro è costretto a recuperare la storia come una sorta di magma in quell’enorme contenitore che è l’invenzione di Poesie 1922–1976. Non essendo spesso possibile indicare la data di composizione dei singoli testi, Deidier è costretto a pubblicarli secondo la data della loro prima comparsa in rivista o in raccolta: in questo modo la storia delle singole raccolte, come storia di una sistematica falsificazione ai danni dell’autenticità inespressa di Penna, resta comunque la struttura portante del «Meridiano»: con una scelta che però la rende meno evidente, oscurandola. Col risultato di un coacervo in cui è faticoso orizzontarsi, dal momento che obbedisce a due criteri in Penna inconciliabili: data di composizione o data di pubblicazione in raccolta.
Un’operazione del genere rende la storia di Penna quasi del tutto impraticabile. Tradotta poi in un tascabile è semplicemente impensabile. E tuttavia può avere un’utilità, se comincia a far riflettere sui paradigmi (o sulla mancanza dei paradigmi) a cui l'editoria obbedisce per restituire l’opera degli scrittori contemporanei. Soprattutto dei poeti. La mancanza di una visione d’insieme, a cui spesso corrisponde la fretta di mettere insieme il libro, per una qualche ricorrenza, e la percezione di ogni autore nella prospettiva inadeguata della monografia, finiscono per produrre distorsioni, appiattimenti e una formidabile perdita di memoria. In modi diversi – per fare due esempi – Poesie, prose e diari di Penna o Tutte le poesie di Benedetti (Milano, Garzanti, 2017), che fa cominciare la vicenda poetica di quest’ultimo con Umana gloria, pongono sul tappeto una questione di metodo e una visione d’insieme che andrebbero finalmente affrontate. Non lasciandole risolvere dal calcolo del mercato editoriale o da imperscrutabili criteri soggettivi: pena la riduzione all’illeggibilità del Novecento e dei suoi processi.


Stefano Giovannuzzi

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