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SIMONE LENZI, Per il verso giusto. Piccola anatomia della canzone, pref. di Francesco Bianconi, Marsilio 2017, pp. 155, € 15,00.


In: «Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 77-78.



La produzione di libri sulla canzone, soprattutto sulla storia della canzone italiana e dei cantautori, si è intensificata a un livello quasi insostenibile negli ultimi anni, per soddisfare sia un’esigenza di culto dei cosiddetti fan sia, ormai, per il riconoscimento del peso che la musica un tempo chiamata “leggera” ha sul profilo sociale di un’epoca e sulla storia personale di un individuo. Questa pubblicistica comincia ad avere una destinazione anche didattica, man mano che l’argomento comincia ad entrare nei syllabi universitari come popular music, etnomusicologia o altro: ampia risonanza ad esempio ha avuto nei media locali e nazionali l’insegnamento che abbiamo istituito nell’anno accademico 2017-18 al corso magistrale di Lettere Moderne dell’Università di Siena su Storia e forme della canzone, dai Carmina Burana (anzi, dagli inni ambrosiani e dai ritmi carolingi) a Bob Dylan e Fabrizio De André, del quale Siena conserva l’archivio depositato dalla famiglia e dalla Fondazione omonima. La stragrande maggioranza di queste pubblicazioni segue però impostazioni giornalistiche che privilegiano il dato sociale e l’aneddoto personale e divistico, o nel migliore dei casi si soffermano sull’analisi di qualche testo, anche nei suoi rapporti letterari reali o presunti, evidenziando come uno dei problemi per un approccio analitico all’argomento sia l’assenza di un metodo critico e di fondamenti riconosciuti per la comprensione storica e formale dell’oggetto ‘canzone’. Proprio mentre continuavano a uscire raccolte e analisi di testi Paolo Conte e Francesco De Gregori, in interviste recentissime, hanno ribadito la loro posizione, che è quella di tutti i cantautori, secondo cui se i testi diventano memorabili è soprattutto grazie alla musica che li supporta, li rende gradevoli e/o li trasforma in emozioni, fino al punto di sostenere, come disse paradossalmente Conte in Poesia e canzone, che quando si lavora a un testo l’obiettivo è principalmente quello di “non dar troppo fastidio alla musica”.
A questo panorama, che riduce la canzone a fenomeno sociale o letterario, fanno eccezione pochissimi studi di maggiore serietà: fra questo il volume di Paolo Talanca (Il canone dei cantautori italiani: la letteratura della canzone d’autore e la scuola delle età, Carabba 2017, pp. 416), che propone un suo schema generazionale ma soprattutto una sua definizione di “codice” della canzone nel quale il testo è solo una delle cinque o sei componenti. Pochi mesi prima era uscito l’aureo libretto di Simone Lenzi, artista poliedrico come cantante e compositore del gruppo rock Virginiana Miller, coi quali ha vinto un David di Donatello per colonne sonore, scrittore (premiato anche dal Ceppo Narrativa 2016), sceneggiatore di film per Paolo Virzì (Tutti i santi giorni) e Francesco Bruni, traduttore di poesia latina (Marziale, insieme al docente di Princeton Simone Marchesi). Per il verso giusto, introdotto da una spiritosa prefazione di Bianconi dei Baustelle, si apre con una formulazione che non lascia scampo ai cliché riduzionisti (tipo «la canzone è poesia»): «Una canzone è fatta di parole e musica, certo. Ma non è poesia messa in musica. E non è musica con l’aggiunta di qualche orpello di parole. Non dobbiamo lasciarci ingannare: i testi delle canzoni finiscono nelle antologie scolastiche, ma c’è di che esserne felici e di che scuoterne la testa (…) la canzone è un “tutto” che vale più della somma delle parti. » (…) Da qui il titolo: «Le canzoni, insomma, vanno prese per il verso giusto, senza trasformarle in ciò che non sono o, peggio, ignorando ciò che sono davvero: un amalgama di testo e musica che tende alla simbiosi».
Di questo connubio Lenzi analizza in ordine documentato, ma con brio e leggerezza alcuni aspetti o casi esemplari, partendo da una dimostrazione di come testo e musica si armonizzino rafforzando la comunicazione complessiva del brano in Michelle dei Beatles. Il secondo capitolo fonda la terminologia madrigalistica con cui Lenzi definisce un connubio simbiotico fra testo e musica, esemplificandolo in maniera magistrale con il Lamento della Ninfa di Monteverdi, dove la dissonanza Fa/Mi su “suo dolor” incarna perfettamente il sentimento del testo e le sospensioni di ¼ fra “gran… sospir… dal cor” sembrano imitare in suoni e pause il gesto fisico del sospiro, e spiega questo meccanismo onomatopeico sulla base di espressioni platoniche e agostiniane relative al ritmo e all’armonia che penetrano eis tò entós tès psychés, “nell’intimo dell’anima” più di quanto potrebbe fare il testo col suo appello alla razionalità. Dal capitolo seguente si entra ne Gli strumenti dell’autore di canzoni: dalla melodia, al ritmo, all’arrangiamento (o produzione), con esempi di grande efficacia che vanno dal Somewhere over the raimbow sempre citato nei manuali sulla canzone per il suo salto di un’ottava (sulla nota di whe) “sopra l’arcobaleno”, così come è spesso citato Battiato per la sua oscillazione sull’intervallo di seconda in Centro di gravità permanente) proseguendo con i Platters, con Little boxes di Pete Seeger fino a Cuore matto cantato da Little Tony con la pulsazione furiosa delle battute iniziali. Non senza passare dal capolavoro dei capolavori, Il cielo in una stanza, qui citato per la derivazione della sua linea melodica iniziale dal Te deum gregoriano (sì, ma quale? Ci sono molte interpretazioni storiche divergenti), e recentemente fatto oggetto a Siena di una illuminante lezione di Simone Marchesi a proposito del suo ipotesto leopardiano (L’infinito e le pagine dello Zibaldone sul concetto). Il capitolo seguente si ferma invece su un aspetto abitualmente trascurato dai manuali esistenti, quella “grana della voce” che rende una canzone di Leonard Cohen o Vasco Rossi o Jovanotti, ma soprattutto Battisti, quasi impossibile da eseguire o trasporre in cover di qualità convincente, e, come altrove su Platone o Agostino, fonda queste osservazioni sulla teorizzazione di Roland Barthes, che all’epoca, come sappiamo, fu condivisa e sviluppata da Paul Zumthor nel paradigmatico La lettre et la voix. Se ne conclude che la stessa canzone cantata da due voci diverse sono due canzoni diverse, come dimostra Una giornata al mare del primo Paolo Conte confrontata con quella dell’ultimo Paolo Conte e con la versione di Vandelli-Équipe 84. Gli ultimi capitoli, più brevi, sono dedicati rispettivamente alla introduzione di discontinuità connotative nella composizione, nel Lied “Im Dorfe” di Schubert come nelle ballad americane (con excursus sulla struttura verse/chorus/bridge che forse avrebbe meritato più spazio nell’economia del volume) e alla “politica della canzone”, cioè al suo rapporto col pubblico che ne fa sempre una forma d’arte collettiva, destinata alla condivisione di massa, nella convinzione che ogni canzone sia politica, così come nelle pagine iniziali si era provocatoriamente sostenuto che ogni canzone è canzone d’amore.
Un libro, come annota Bianconi, che si aspettava da tempo e dunque colma una lacuna (o comincia a colmarla) e inaugura forse un nuovo approccio, un libro da ascoltare (col dito puntato sugli audio della canzoni citate, pena una fruizione mutilata e distorta) ma anche da gustare nel suo stile ironico e leggero, capace di superare la difficoltà di spiegazioni musicali da pentagramma e schema metrico con chiarezza informata ma per così dire trasparente. Nel panorama della disciplina nascente di Storia e forme della canzone, Per il verso giusto rappresenta un avvio promettente ed esemplare che ci auguriamo sarà seguito da sviluppi adeguati alle esigenze di un fenomeno la cui influenza sulla nostra memoria, sul nostro linguaggio e sulla nostra identità si sta dimostrando potente e duraturura come nessun altro.


Francesco Stella

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