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Paesaggio degradato come scenario metapoetico nel

“De imagine Tetrici” di Valafrido Strabone (829)

 

Di Francesco Stella 

   

In: Semicerchio LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 6-16. 

 

Paesaggio e poesia mediolatina

Il paesaggio, se si eccettuano alcune opere sui giardini letterari, non è mai stato oggetto di studio sistematico nella pur immensa letteratura del medioevo latino, né ad opera di medievisti né ad opera degli storici “generalisti” di letteratura del paesaggio, le cui suggestive ricostruzioni abitualmente saltano dall’antichità all’umanesimo e all’età moderna, puntando, dietro le orme di Burckhardt, sulla lettera del Ventoso di Petrarca come turning point e anzi prima scoperta di una letteratura dell’osservazione naturale. Naturalmente la tematica non è nuova in senso assoluto: da Piero Camporesi de Le belle contrade: nascita del paesaggio italiano (Milano, Garzanti 1992) a Simon Schama (Landscape and Memory, 1995, trad. it. Paesaggio e memoria, Milano: Mondadori, 1997) risalendo ai saggi classici di M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965 e L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989) e altri, l’idea di analizzare e talora storicizzare formazione, persistenza ed effetto della percezione dello spazio esterno ha una sua piccola storia ma, dal punto di vista letterario, oltre al modello, per l’antichità romana, di E. Winsor Leach, The rhetoric of space: literary and artistic representation of landscape in Republican and Augustan Rome, al bel lavoro di Giorgio Bertone e alla panoramica di Jakob viene in mente, per il medioevo, soltanto il capitolo «Lo spazio dei testi» che Paul Zumthor dedica alla documentazione letteraria nel suo La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel medioevo (trad. it. Bologna, il Mulino, 1995).

Un contributo sperimentale abbiamo cercato di portare in qualche ricerca sulla grammatica dello sguardo del Petrarca latino (specialmente nelle Epistole, cioè le cosiddette Metriche, nell’Itinerarium e nell’Africa), che si innestava su un esile filone di innovativi esperimenti di Karlheinz Stierle e dello stesso Bertone. Nel lavoro del 2004 (pubbl. 2006) osservavo che “Se nella poesia volgare di Petrarca il paesaggio diventa Reflexionsraum del soggetto e insieme sguardo esterno che gli dona una nuova oggettività, in quella latina (...) questa operazione è realizzabile solo entrando in dialogo intertestuale con la tradizione che ne ha generato il linguaggio, col repertorio retorico che ne consente la comunicabilità”. Questo processo di filtro della memoria poetica come condizione di dicibilità e dunque di condizionamento del proprio sguardo sul paesaggio è già attivo in epoche più remote della storia poetica, e raggiunge un suo ancora inesplorato apice nell’età carolingia, quando l’autore della prima visione in versi dell’aldilà (Visio Wettini) e del più celebre poema su un giardino reale (Hortulus), quel Valafrido Strabone universalmente riconosciuto come il più elegante e innovativo poeta del secolo IX, elegge il paesaggio a ipersegno letterario per rappresentare e stigmatizzare un cambio di poetica che è, ai suoi occhi, un momento di grave declino spirituale dell’epoca che sta vivendo.

 

  Il “De imagine Tetrici” di Valafrido Strabone (809-849)

Questa elaborazione si colloca come scena di apertura del poemetto più enigmatico di Valafrido, il De imagine Tetrici, cioè “la statua di Teodorico”, rappresentazione in 268 esametri latini del momento, collocato all’inizio della primavera dell’829, in cui il poeta ventenne viene am- messo alla corte dell’imperatore Ludovico il Pio in Aquisgrana, verosimilmente per diventare precettore del figlio Calvo (destinato a diventare l’imperatore Carlo il Calvo), e saluta i principali personaggi con brevi panegirici simboli- ci o parabolici. Prima di entrare, il poeta descrive lo spazio esterno in modo da crearne un correlativo simbolico del clima politico che avverte intorno a sé ed eleggere la statua del re Teodorico, che si trovava nel parco della residenza imperiale ed è poi stata distrutta, verosimilmente durante le devastazioni normanne del secolo successivo, a occasione di dibattito intellettuale giocando sulle valenze allegoriche, spesso estese per contiguità, del personaggio centrale (il re goto, di fede ariana e dunque eretico) e di quelli di contorno (un servo di pelle nera e un corteo di figure danzanti), dei materiali utilizzati e dei relativi colori, del contesto architettonico. La figura del re, eretico perché ariano, è dorata e accompagnata da un servitore nero (non presente nella descrizione di Agnello: v. infra p. 11 e n. 32) che suona una campanella: l’oro simbolo di corruzione è messo a contrasto con la purezza, e il rumore della campanella con la musica dell’organo, meraviglia tecnica della corte ludoviciana che dimostra la superiorità dell’impero carolingio su quello romano e bizantino. Segue una serie di ritratti di personaggi della famiglia imperiale (Ludovico e la memoria di suo padre, Lotario, Ludovico il Germanico, Pipino, Giuditta, suo figlio Carlo e l’arcicappellano Ilduino, simbolo di lotta religiosa all’idolatria del denaro, rappresentato dall’oro di cui è ricoperto Teodorico, con riferimento possibile ai tentativi di insubordinazione e cospirazione di parte dell’aristocrazia familiare). Il poema si conclude con l’augurio di vittorie di Ludovico sui popoli esterni rappresentati come bestie di un giardino zoologico che richiama la natura bucolica dell’inizio, e lancia un’invettiva contro l’empietà di Teodorico, la cui malvagità è responsabile degli eventuali errori di composizione di Valafrido.

Il testo è formalmente un dialogo, conservato nel solo codice Sangallense 869 di poco posteriore all’autore, fra il personaggio Strabus, ipostasi formale dell’autore, e Scintilla, la sua misteriosa “ispirazione”, talvolta erroneamente identificata con un personaggio influente ma estraneo alla corte, più probabilmente un alter ego come la Ratio nei Soliloquia di Agostino, Agostino stesso nel Secretum di Petrarca, che da Agostino dipende.

 

Il codice iconologico e la statua di Teodorico

Nel suo complesso il poemetto è stato oggetto di molteplici attenzioni, sia per la sua unicità tipologica sia e soprattutto per la sua importanza come fonte storica e storico-artistica. Secondo l’ultimo editore e traduttore Michael Herren (ma non secondo altri studiosi, come Peter Godman) il panegirico associato alla polemica contro ciò che rappresenta Teodorico (avidità e arroganza) viene trasformato in critica costruttiva a Ludovico, il quale sarebbe velatamente accusato di non riuscire a realizzare le promesse di paradiso in terra, e invitato a distaccarsi dall’eredità del padre e a liberarsi dall’idolatria dell’oro rappresentata dalla stata di Teodorico. Unica speranza per lui sarà riprendere il progetto affidandosi ad Ilduino-Aronne, la cui veste è agghindata dei tintinnabuli sacrali, e in generale alla Chiesa, rappresentata dal tempio di Salomone. 

Altri interpreti ritengono invece che non ci sia alcuna riserva su Lodovico né contro suo padre, e che i velati accenti polemici siano rivolti contro il partito antiludoviciano, i nobili e i vescovi in combutta per rovesciarlo o esautorarlo.

Gli studi che non si occupano solo del messaggio politico sono per lo più saggi storico-artistici come quello, recente, di Bredekamp, che presentano ipotesi sulla collocazione e l’aspetto della statua, ora generalmente considerata come ornamento del fastigio di una fontana, paragonabile all’analoga statua che sovrastava la fontana di Limoges nel IX secolo, fondato su un basamento composto di rilievi o bassorilievi di figure in corteo danzante come nel dittico Barberini del Louvre, di fattura bizantina.

La collocazione del monumento in rapporto al parco e palazzo reali è stata disegnata come di seguito da Hugot nel plastico del Museo di Aachen:

Le ricerche esistenti affrontano solo cursoriamente il ruolo dell’immaginario naturalistico in questo testo. Smolak ha magistralmente illustrato il ruolo del paesaggio bucolico come Leitmotiv positivo, che Valafrido incrocia con l’epos prudenziano come racconto di un conflitto fra bene e male. Helene Homeyer ha fornito un elenco documentato di alcuni dei simboli principali (Teodorico, lo scudiero nero, le colombe, i cigni). Felix Thürlemann ha proposto un tentativo più sistematico di mettere in relazione semiotica il senso ideologico del poemetto con il codice delle immagini: a suo avviso Teodorico è il contraltare negativo di Ludovico e l’aspetto interessante sul piano semiotico è l’interpretazione di uno stesso oggetto (la statua) in senso diverso in contesti diversi: modello di regalità per Carlo Magno, memoria di un eretico per la chiesa ludoviciana, simbolo dell’avidità di alcuni nobili della corte imperiale, repertorio allegorico di simboli biblici o morali.

Ma nessuna delle analisi finora pubblicate fornisce un’interpretazione unitaria, coerente ed esaustiva (am- messo che il testo lo consenta) di tutto il complesso apparato di immagini, simboli e figure che popolano ilpoemetto. La Homeyer ha ipotizzato che il paesaggio positivo, erroneamente identificato da Smolak come bucolico, potrebbe essere legato a quello del chiostro, hortus conclusus, la location da dove Valafrido proveniva, ragazzino sensibile precipitato nel caos di un parco imperiale. Il poemetto rappresenterebbe dunque lo smarrimento, se non il disgusto, di un giovane e sensibile poeta trasferito da uno spazio sicuro nelle sue coordinate di pace e di rapporto con la natura in uno spazio aperto e confuso, popolato da umanità varia e non ben identificabile, le cui trame sono insidiose e minacciose. Ma se ci si attiene al testo nessun elemento riconduce al monastero: nel quadro iniziale si parla solo di veteres poetae, mentre il paesaggio negativo è quello attuale, della folla che usa le terme, chiassosa, sporca, miserabile d’animo, ed è impossibile parlarne (quia deest locus), il che impone una comunicazione mediata, la cui decriptazione, come abbiamo visto, sarà delegata alla benevolenza o alla prudenza dell’interlocutore (argue lenius, “reply quietly” Herren; “sei nachsichtig” Homeyer).

 

Il paesaggio dei poeti antichi come ipersegno

I 27 versi del prologo contrappongono nelle paro- le dei due interlocutori due paesaggi e insieme due mondi poetici. Strabus descrive il degrado della poesia contemporanea e del paesaggio che la circonda in confronto alla grandezza dei poeti antichi e alle bellezza della loro natura bucolica. Ne riporto, con modifiche minime, il mio vecchio (1995) tentativo di traduzione in versi, al momento l’unica esistente in italiano, da La poesia carolingia p. 143-5:

 

Strabus 

Cur non, dulce decus, quoniam se contulit hora, 

Et ver floriferis laetum se subrigit austris,

Magnus et ardentem gradibus legit aethera Phoebus, 

Iam spatiis crevere dies, dulcescit et umbra,

5 In flores partusque novos et gaudia fructus

Herba recens, arbos datur et genus omne animantum, 

Quod mare, quod silvas, quod rura, quod aera tranat, 

Quaerere me pateris, te respondere petitis? 

Discere namque mihi votum, tibi dicere promptum.

 

Strabone

Bellezza dolce, dato che già l’ora

È giunta e primavera in festa

Si leva al vento in fiore, e forte sole

 Traccia l’etere ardente passo a passo, 

e già è cresciuto spazio per il giorno

e già si fa più dolce l’ombra, gioia

si apre per i fiori e i nuovi frutti,

l’erba novella e l’albero e ogni genere 

di esseri animati (quello che

traversa il mare o i boschi o i campi o l’aria) 

lascia che io ti chieda, e tu rispondi.

A me piace imparare, a te parlare.

 

 

 

 

Scintilla

Nec te, credo, latet, veteres quo more poetae 

Digna diis terrisque canebant carmina magnis.

 Aut etenim abrupti montis iuga sola sequentes, 

Aut specubus, fossis aut saltus valle remoti 

Omnigenam pharetrata echonem voce ciebant,

15 Hirta suis hederis circum bene tempora cincti. 

Triste nemus testesque ferae timidaeque volucres, 

Mens secura, procul furibundae crapula curae.

 

Scintilla

A te non sfugge, credo, che i poeti antichi 

Riuscivano a comporre canti degni

di terre grandi e dèi, e solitari infatti 

seguivano i passi di monti scoscesi

 oppure si appartavan nelle grotte

o fossi o avvallamenti o nelle gole

 muovevan, bene armati, con la voce 

Eco potente e vasta, e con le tempie irte 

cinte di foglie d’edera all’intorno.

Oscuro li ascoltava i bosco, e belve

e timidi uccellini, anima senza

più inquietudini, lontane sbornie

di furiose angosce.

   

 

 Nel lavoro del 2001 Kurt Smolak ha valorizzato, forse anche oltre la consistenza reale, la stilizzazione bucolica di questo inizio, a partire dal verso incipitario Cur non, dulce decus, quoniam se contulit hora, che ormeggia Virgilio Ecl. 5, 1 (un componimento anch’es- so dialogico, connotazione che nel medioevo spesso era sufficiente a collocare un testo poetico nel genere “ecloga”23): Cur non, Mopse, boni quoniam convenimus ambo, traccia poi ripresa e ampliata e raffinata in tutto il corso del poemetto. Smolak ha ricordato che già in Virgilio il paesaggio (le celebri myricae) diviene simbolo di un genere e di un tono poetico, e in fondo anche di una posizione politica defilata, ma soprattutto ha collegato questa scelta all’uso manifestamente metapoetico che di questo genere si era già fatto nella prima età carolingia, in particolare nella prima Ecloga di Modoino d’Autun, anch’essa dialogo fra due poeti, l’autore e un anonimo senex già stabilizzato a corte (che nella seconda ecloga diventano Micon e Nectylus), al quale il più giovane contrappone le proprie ambizioni e capacità di comporre poesia politica richiamandosi alle carriere brillanti e fruttuose che poeti precedenti, come Alcuino ed Eginardo esplicitamente citati, avevano già percorso con successo. Come ha argomentato Ebenbauer, il processo messo in scena nell’ecloga è la scelta di questo genere letterario come veicolo di poesia politica attraverso la dialettica interna dell’anziano (identificato da Ebert e van de Vyver con Angilberto detto “Omero”), che prima tenta di inibire il giovane arrivista con il pretesto che la poesia bucolica non può reggere l’impegno pubblico, poi accetta questa possibilità di espansione del genere e dunque di ammissione del novizio nelle complesse dinamiche concorrenziali di una corte multinazionale e quanto mai mobile e competitiva. Quello che non è stato finora os- servato è che anche Modoino rappresenta in parte la contrapposizione in forma paesistica: il poeta giovane si rivolge all’anziano in questi termini: “all’ombra di un albero adagiato, o antico vate, / che vesti alloro sulle bianche tempie (...) e vivi in pace nel podere avito” (Ecl. 1, vv. 1-3, 6, trad. Walter Lapini), con richiamo a Virgilio poi esplicitato.

In realtà, se l’ecloga incombe come ipermodello, il tessuto espressivo del prologo di Valafrido è intarsiato di rinvii a opere di generi diversi ma tutte di età classica come Georgiche, Eneide, Metamorfosi, forse Amores e, ha ipotizzato Tino Licht al recente convegno di Heidelberg (settembre 2018), perfino al De rerum natura, desaparecido dell’epoca, nascosto dietro l’expolitio dei versi 6-7, che usano una formula divenuta comune (genus omne animantium, v. 6) ma si tradirebbero lucreziani per la presenza del verbo tranare (v. 7) che Lucrezio usa nello stesso passo (il celebre prologo di Venere). Il paesaggio della scena iniziale non intende porsi dunque come icona del bucolico, bensì del classico, esplicitamente richiamato con l’espressione veteres poetae, i poeti antichi, capaci di comporre carmi per gli dèi e gli uomini, poesia sacra e poesia profana. E quali sono le connotazioni di questi poeti? La più vistosa è appunto la loro associazione a paesaggi so- litari come quelli poi amati da Petrarca: passi montani, grotte e valli in cui far rimbombare l’eco, boschi abitati da fiere ed uccelli. Si tratta di un sistema simbolico di ascendenza remota, come documenta Kambylis. Ma nel monaco Valafrido questo ipersegno si arricchisce di connotazioni finora sfuggite: natura incontaminata e rapporto spontaneo con gli animali sono gli stessi elementi che nel poemetto sul martire Mammes scritto per i chierici di Langres caratterizza il giovane santo-pastore in una sorta di prefrancescanesimo idilliaco non ancora familiare all’agiografia occidentale.

 

(cap. 2 ed. Dümmler)

montemque petivit 

Mentem carne sequens, mansit quae semper in alto

Contemplata deum, regumque aequabat opimas

Delicias in lacte gregis; has denique solum 

Ad montem perduxit opes, pascebat ovillum 

Ipse pecus, victumque sibi quaerebat ab illo.

 Saepius insistens precibus librisque legendis

Otia longa trahens vitam sine crimine duxit.

Quod montem petiit, monitis consensit Iesu, 

 Excidii qui signa canens, hoc addit agendum:

Tunc qui plana colunt, ad summa cacumina tendant, 

Maturentque fugam (...).

 

Oltre questo passo, tutto il cap. 4 descrive la docile sottomissione degli animali al santo, le cui raccomandazioni essi ascoltano in silenzio orfico e seguono con obbedienza, così come durante la prigionia sarà una colomba a portargli da mangiare e durante l’esposizione alle fiere sarà salutato e servito con affetto da un leopardo e da un leone: questo rapporto di comunicazione e collaborazione col mondo naturale fornirà ai pagani il pretesto per l’accusa di magia. La semantizzazione del paesaggio “classico” sembra dunque assegnare una plus-valenza di simbologia sacrale della purezza all’iconicità di una rappresentazione idilliaca che doveva esser cara a Valafrido come persona, se si pensa alla sua mitizzazione del giardino claustrale nell’Hortulus.

La seconda connotazione, ovviamente associata alla prima, è la mens secura, la serenità priva di preoccupazioni e lontana dalla furia di gozzoviglie, qui (v. 17) segnate ex adverso dalla presenza di quell’aggettivo furibundus che anche nella Vita Mammetis identifica il negativo, il persecutore romano accecato dall’odio omicida (6, 1 e 17, 6). Questa, che chi frequenta i classici sa essere una condizione mentale più sognata o rimpianta (da Virgilio bucolico e Tibullo) che descritta, sembra ancor più riflettere una predilezione di segnopersonale: anche l’enigmatico e ironico carme 40 di Valafrido, fabula admonitoria ad quendam, descrive uno scenario di caduta, morsi di cani, calci di folla inferocita, lungo una strada che non conosciamo ma che da allora in poi il poeta si propone di evitare per non rimanere sommerso dall’onda della ferocia furibundi gurgitis (v. 8).

 

Il paesaggio attuale come simbolo poetico e politico

La contrapposizione, organica alla struttura dialogica (e ai tratti del genere “ecloga” nel Medioevo) si specifica nella descrizione che Scintilla fa subito dopo del paesaggio attuale.

 

At nos pro silvis, hederis, echone, coturno

Immanes omni ferimus de parte tumultus,

Et vix ipsa luto subducit pupula sese

Stercoribusque novissima, pro pudor, omnis inhorret. 

Hinc detractorum, sonat illinc clamor egentum 

Nudaque stercoribus sordescunt crura nigellis.

Has umquam Musae si dilexere nitellas,

25 Stercora, clamores, caenosa fluenta, tumultus,

 Respondere tibi nequaquam differo, sed si

 Pauca loquar, quia deest locus, argue lenius, oro.

 

E noi, al posto

Dell’eco, di quei boschi, delle edere

E del coturno sopportiamo immani

rumori che ci affliggono da ogni parte,

e a stento la pupilla riesce sola

a liberarsi dal paesaggio nuovo

di sterco e fango e inorridisce tutta

per la vergogna: da una parte

gridano i detrattori e poi dall’altra

i postulanti e queste gambe nude

si sporcano di escrementi neri.

Se mai le muse amaron questi “ori”,

e sterco ed i clamori,

fiumi di fango e strepito volgare,

non esito a risponderti, ma se

parlassi poco perché non è il caso,

ti prego di obiettare con mitezza. (trad. Stella, 1995)

 

 

Il paesaggio attuale, rappresentato come sporco e fangoso, è dominato da una folla che si accalca intorno alla statua del re Teodorico, collocata ad Aachen all’ingresso del viale che porta al palazzo, sopra una fontana. Il trasferimento di questa statua da Ravenna ad Aachen al tempo di Carlo Magno è confermato dal racconto dello storico Agnello di Ravenna (Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis cap. 94, SRL p. 338).

La breve descrizione ambientale si presenta sintatticamente come contraltare della precedente: at nos, “noi invece” e riassume gli elementi, qui rimpianti in quanto perduti, che simboleggiano ufficialmente la poesia antica: silvae, hederae, echo, cothurnus, con chiaro riferimento ai versi immediatamente antecedenti ma altrettanto chiara paletta di generi (che, grazie al coturno, definito da Modoino Sophocleus nella sua ecloga 2, 60, include perfino la poesia scenica). Il nuovo paesaggio è segnato dal fango, che forse sul piano letterale fa riferimento al parco termale di Aquisgrana, mentre su quello allegorico si unisce a stercum, ripetuto due volte, per qualificare come rifiuto e sporcizia l’ambiente del momento, e al posto dei carmina citati prima descrive clamores, urla, attribuendoli a due categorie di produttori: detrattori e postulanti. Non ci sono elementi certi per dire che queste categorie alludono a tipi di poeti e, in caso positivo, è impossibile dire quali, anche se alcune supposizioni di Ebert e Smolak basate sulla Kontrastimitation di Ermoldo Nigello, l’autore del poema su Ludovico il Pio scritto forse per essere richiamato dall’esilio a Strasburgo, lo collocherebbero nella schiera degli adulatori, mentre i detrattori sono meglio noti dagli schieramenti politici (Wala, Adalardo, Grimaldo stesso?). Il risultato è la domanda retorica con cui si chiude l’intervento di Scintilla: è mai accaduto che le Muse abbiano amato questi “splendori”, inteso in senso antifrastico come “rifiuti”, poi dettagliati in “sterco, urla, ruscelli fangosi, confusione”? Strabus chiede cioè se si sia mai prodotta poesia, se sia possibile comporre poesia, in condizioni come queste, intendendo ovviamente lamentare l’impossibilità di uno sviluppo delle arti poetiche in un contesto così degradato. E Scintilla annuncia una risposta, che per prudenza andrà espressa in forma cifrata, cioè allegorica.

Il serraglio politico e la finestra dall'alto

Tralasciamo per motivi di spazio la prima parte della risposta di Scintilla con i simboli, che analizziamo in altra sede, legati alla statua, alle colombe che nidificano nelle froge del cavallo e al servitore nero che suona una campanella. Nella sezione finale della descrizione la foresta di segni, la cui successione qui cerchiamo di semplificare, è enumerata e spiegata da Scintilla, talvolta rivolgendosi in seconda persona alla statua, in un catalogo disordinato ma coerente: l’oro è simbolo di avidità, le frecce che Teodorico porta nella faretra stimolano alle abituali rapine fianchi altrimenti pigri, il color nero della guardia è simbolo della povertà che brucia chi è vittima dell’avidità – anche se resta una forzatura il fatto che la povertà debba bruciare, verbo usato spesso per il senso di colpa e per passioni incontrollabili. Le acque (termali) che scorrono eternamente sotto la statua significano che l’avido ha sempre bisogno; le briglie mancano, probabilmente in segno di mancanza di freni morali; le pietre del basamento figurano la durezza di cuore e il piombo e il metallo vuoto (delle tubature che vi scorrono sotto), secondo i Moralia di Gregorio 19, 24 l. 14 cap. 25, l’animo pigro e privo di intelligenza.

I nervi visibili sulla superficie percorrono 3 zampe che fanno quasi volare il cavallo e lo faranno apparire fra cigni bianchi (i fedeli cattolici?) che le sue armi macchieranno. Il cavallo ha già sollevato vanamente una zampa contro i non meglio precisati “progetti migliori” (probabilmente allusione alla politica di Ludovico il Pio), tanto è vero che quando ha cercato di coniungere fra loro (nella congiura antiludoviciana di Bernardo?) qualcuno dei notabili ha incontrato gli ostacoli della nera morte (forse dello stesso Bernardo, morto dopo l’accecamento punitivo inflittogli dall’imperatore) o è stata frenata con moniti oscuri dalla prudenza dei Padri sempre sostenuti dalla rocca santissima (cioè dal papato), perché il loro scettro non dirazzerà mai dal seme finché non verrà un re abbagliante su una nube infuocata (cfr. Gen. 49, 10 Non auferetur sceptrum de Iuda... donec veniat qui mittendus est + Matth. 24, 30 e Iuvenc. Praef. 23 cum flammivoma descendet nube coruscans / Iudex). Qui a coloro che hanno visto un riferimento politico alla congiura di Bernardo o alla morte di Irmingard (von Bezold) si contrappone chi individua segnali della rivolta dell’830 (Godman), mentre altri (Thürlemann) hanno escluso allusioni politiche e limitato il significato all’interpretazione religiosa.

Al verso 89, almeno nel testo edito da Dümmler, la descrizione simbolica si interrompe e comincia l’encomio in termini biblici dei principi e dei notabili di corte: all’interno di questo brano, al v. 128, subito dopo la descrizione del paradiso terreste con animali ospitato dagli edifici sacri di Ludovico, riprende fino al v. 146 il quadro delle terme, in un passo che secondo la ricostruzione di Herren è finito qui per errore di trasmissione manoscritta e nel testo originale in realtà seguiva il v. 88. Si ritorna infatti al cavaliere aureo, accompagnato dal soldato a piedi e da persone che suonano alcune un tintinnus (‘clochette’, come in Venanzio Fortunato 2, 16 49), altre battono (pulsant) degli strumenti (organa) in forma tanto dolce che una volta una donna ne è finita in estasi, perdendo la vita. Un organo vero e proprio (l’organo idraulico costruito da Giorgio Veneto di cui riferiscono Eginardo nella Translatio I 7, gli Annales Einhardi a. 826 ed Ermoldo IV 639-42, come ricorda Dümmler, ma anche Teodulfo nel poemetto 27 sui piaceri della corte), che Valafrido descrive come suonato dall’imperatrice Giuditta in persona, è qualcosa che supera il Colosso di Roma, qualcosa di cui la Grecia andava fiera e che quando suona fa tacere chi batte l’aria col suo plettro.

Se l’interpretazione politica di questi versi, prevalente nella critica, è corretta, la polemica politica si innesta su una contrapposizione morale e religiosa che attacca gli elementi di discordia e di ambizione eccessiva o avidità disonesta, e a questi turbamenti contrappone un quadro ideale di armonia ortodossa il cui slogan, di matrice boeziana e prudenziana, è ben scolpito nel distico finale 256-7: nunc tandem crevit felix res publica, cum sat / et reges sapiunt et regnant sapientes.

Questa prospettiva politico-escatologica ha nuovamente un riflesso paesaggistico nel lungo passo (100- 127) in cui Valafrido paragona Ludovico il Pio a Mosè e a Salomone. A Mosè in quanto conduce il suo popolo dalle tenebre alla luce e aiuta la comunità, continuando l’opera grandiosa del padre Carlo Magno, la cui eccellenza è paragonabile a quella di Platone. “Fai scorrere latte e miele e fai scaturire acqua dalla roccia, dopo aver ucciso il Faraone”, con parafrasi di Esodo 33, 3 e 17, 6. A Salomone, oltre che per la costruzione di templi, per l’associazione a un nuovo assetto naturale:

 

 

 specularia subter

dant insigne nemus viridique volantia prato

murmura rivorum; ludunt pecudesque feraeque, 

uri cum cervis, timidis cum caprea damnis.

Si quoque deinde velis, saltabunt rite leones,

 ursus, aper, panthera, lupus, linces, elephanti, 

rinoceros, tigres venient, domitique dracones, 

sortiti commune boumque oviumque virectum. 

Omnia pacatis animalia litibus assunt,

Aeriae summo quercus de vertice laetis 

Commodulantur aves rostris et suave susurrant.

(117-127).

 

 

E sotto, dalle finestre del tempio

 vedono un magnifico bosco e sussurri di rivi

che volano sul prato verde; giocano pecore e fiere, 

gli uri coi cervi, le capre coi cerbiatti paurosi.

E se poi vorrai, balleranno anche i leoni,

l’orso, il cinghiale, la pantera, il lupo, le linci e gli elefanti, 

verranno rinoceronte e tigri, saranno domati i serpenti

 condividendo un pascolo comune bovini e ovini.

 Tutti gli animali staranno accanto, senza più combattersi, 

e dalla cima dell’alta quercia col becco lieto 

canteranno insieme gli uccelli in un mormorio di dolcezza.

   

  Qui l’idillio non è uno sfondo poetico ma un’allegoria politica, esemplata su modello esplicitamente biblico: la celebre visione di Isaia 11, 4 ss. (la profezia del regno di Iesse): Sed iudicabit in iustitia pauperes, Et arguet in aequitate pro mansuetis terrae; Et percutiet terram virga oris sui, Et spiritu labiorum suorum inter- ficiet impium. Et erit iustitia cingulum lumborum eius, Et fides cinctorium renum eius. Habitabit lupus cum agno, Et pardus cum haedo accubabit. Vitulus, et leo, et ovis, simul morabuntur, Et puer parvulus minabit eos. Vitulus et ursus pascentur, Simul requiescent ca- tuli eorum; Et leo quasi bos comedet paleas [...].

Il primo tratto assorbito dal passo biblico in Valafrido è l’isotopia giustizia sociale-pace naturale, che potremmo eleggere a motivo conduttore di tutto il poemetto. Il secondo è l’elenco delle bestie feroci che diventano mansuete o degli animali abitualmente in conflitto fra loro che convivono in pace e condividono il cibo. Qui l’intervento del poeta è l’inserimento di animali più “familiari” come il cinghiale e forse le linci o più “esotici” come la pantera e gli elefanti, i rinoceronti e le tigri, e insieme l’innalzamento del registro lessicale, come nel caso di habitare cum che diventa sortiri commune virectum, quasi una descrizione giuridica di condominio. Ma il tocco dell’artista è evidente soprattutto in due elementi sovrani: uno è il fatto che tutto questo sia un paesaggio visto attraverso i pannelli trasparenti delle finestre del palazzo di Lodovico (specularia) e dunque sia non una visione profetica ma una scena in Fernlandschaft del documentario d’attualità che Valafrido sta girando servendosi di due protagonisti; la realtà naturale (ossia ciò che è rappresentato come tale) diventa allegoria (della condizione politica), con il tipico shift valafridiano fra realtà e immaginazione, abitualmente non segnalato da marche testuali, che alimenta il fascino e la difficoltà interpretativa della sua poesia. Il secondo è, al di là del tessuto stilistico, l’aggiunta all’elenco faunistico degli uccelli che condividono il loro canto dalla cima di una grande quercia, che è aeria come in Virgilio Aen. 3, 680 ripreso da Lucano 3, 434 (anche questo un rapporto sicuro, non registrato finora dagli apparati). Valafrido cioè non rinuncia a uno dei suoi motivi conduttori, l’arredo ornitologico, abitualmente giocato nella poesia carolingia come allegoria dei poeti, e anzi questa sua chiusa così leggera e solenne insieme ci fa pensare che lo scenario biblico- carolingio di giustizia e pace non possa che culminare in una concordia degli uccelli-poeti che nel paesaggio degradato si dividevano in detrattori e adulatori, entrambi produttori di una cacofonia adeguata al fango circostante.

Ma la zoologia politica di Valafrido non si accontenta della profezia biblica: pochi versi dopo, quando qualcuno (il re?) gli chiede chi lo abbia mandato, ri- sponde che gli basta dire di essere ispirato da un desiderio durevole di vedere e lodare e invoca Dio perché aiuti il potere del sovrano a conservare le sue vittorie su tutti i popoli e mantenere il prestigio dei suoi avi e del senato per essere assunto nel Senato eterno e “come temono i vostri archi nei boschi l’orso, il cinghiale, la lepre paurosa, i cervi che fuggono, il daino, il lupo e l’enorme branco di buoi dei campi, così sottomettano il collo impaurito alle vostre mani il cane Bulgaro e Saraceno, l’ospite ingrato d’Iberia, il bruto Britanno, l’astuto Danese e l’orrendo Africano” (250-255). Qui il giardino zoologico che il poeta presenta come real- mente visibile dalle finestre del duomo si tramuta in serraglio di popoli, sconfitti da Ludovico, paragonati alle bestie oggetto di caccia, il passatempo preferito dalla cultura franca (come specifica Eginardo nella Vita Karoli), che diventa una delle scene preferite della poesia carolingia.

Il senso ideologico finale di questa nuova scenografia è espresso nei versi immediatamente successivi: nunc tandem crevit felix res publica, cum sat / et reges sapiunt et regnant sapientes, modellato su Boezio Consolatio I 4 e Prudenzio contra Symmacum I 30-32 Esset / Publica re, inquit, tunc fortunata satis, si / Vel reges saperent ve regnarent sapientes. Tradotto in termini politici, esprime la stessa tensione espressa da altri intellettuali ecclesiastici come Floro di Lione, Incmaro di Reims, Viviano di Tours, Audrado di Sens e tanti altri: l’impero deve restare unito e può farlo solo se si fonda su una compartecipazione delle gerarchie ecclesiasti- che al potere, una sorta di diritto/dovere di consultazione permanente e di cogestione, al quale Ludovico – la cui riforma monastica Valafrido sembrava apprezzare - fu costretto in quegli anni dai vescovi. Perciò Ludovico è Mosè con le corna (ora ... cornuta 255) che lo collegano a Dio: perché il re dev’essere ispirato dai principi religiosi, mediati dalla Chiesa. Questo è a mio avviso il senso ultimo del carme e questi sono i riferimenti culturali che ne rappresentano il contesto. E non si tratta solo di una interpretazione di Valafrido, perché nel frammento del sarcofago di Ludovico conservato a Metz viene raffigurato (probabilmente come tipologia dell’imperato-re ivi sepolto) proprio Mosè.

La prospettiva politica di Valafrido dunque è, dopo la guerra civile strisciante degli ultimi anni, un regno pacificato sotto il dominio di Ludovico, ma l’immaginario che lo rappresenta e lo mitizza è, grazie a un sapiente gioco di sponda fra osservazione diretta, generi lette- rari e riferimenti culturali (i classici, la Bibbia, l’ecloga politica carolingia) un immaginario naturalistico insieme realista e metapoetico, nel quale animali incompatibili convivono pacificamente e gli uccelli (i poeti?) cantano un canto corale, all’unisono, in uno spazio fonico allietato dalla musica armoniosa dell’organo “imperiale”, che si richiama all’eco nobile ma irrecuperabile dei poeti antichi e ai tintinnabuli della sacra veste di Aronne e si contrappone invece alle lacerazioni partigiane di una poesia al servizio di mire politiche, consentanea a un paesaggio degradato e cacofonico, squarciato dalle urla antimusaiche di poeti asserviti a progetti politici sordidamente sovversivi e dai tintinnii dionisiaci della campanella che l’oscuro scudiero del re eretico agita per guidare le danze scomposte del suo inquietante séguito plebeo. Tre paesaggi, tre tempi: il passato mitico dei poeti antichi e del loro canto solitario, il presente fangoso e chiassoso dei contemporanei divisi per posizioni politiche, il prossimo futuro pacifico della concordia zoologica e musicale che realizza nel parco di Aachen la profezia biblica dell’età dell’oro.


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