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Spira Mirabilis e Bella e Perduta. Ecopoetica del cinema italiano contemporaneo

Di Alberto Baracco

In: Semicerchio, LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 76-84.

 

1.       Ecopoetica del cinema

Una quindicina di anni fa, nel libro Ecopoetry (2002), che diverrà poi uno dei testi di riferimento per i successivi sviluppi dell’ecocritica, sostenendo l’impossibilità e l’inutilità di una definizione rigida e precisa di ecopoetica, Scott Bryson ne individuava tre principali caratteristiche per differenziarla dalla tradizionale poetica naturalistica. Tra queste, a fianco della sentita necessità di assumere posizioni più attente e umili nella relazione con il non-umano, e attraverso la professione di un forte scetticismo nei confronti del carattere iper-razionale e iper-tecnologico della società contemporanea, lo studioso americano segnalava come peculiare l’enfasi che l’ecopoetica pone nell’adottare prospettive ecocentriche capaci di mettere in risalto la stretta relazione che lega tra loro le differenti e molteplici forme di vita. Solo qualche anno prima, in Sustainable Poetry (1999), Leonard Scigaj aveva già osservato come, influenzata dal pensiero ecologico e da una nuova e più profonda sensibilità nei confronti dell’ambiente, l’ecopoetica desse particolare risalto proprio all’interdipendenza tra umano e non-umano, e aveva dunque proposto di definire l’ecopoesia come una composizione che «persistently stresses human cooperation with nature conceived as a dynamic, interrelated series of cyclic feedback systems». Nella medesima direzione e insistendo ancora sul concetto di interdipendenza, nella prefazione al suo libro Earth Shattering (2007), Neil Astley così introduceva l’ecopoetica: Ecopoetry goes beyond traditional nature poetry to take on distinctly contemporary issues, recognising the interdependence of all life on earth, the wildness and otherness of nature, and the irresponsibility of our attempts to tame and plunder nature. The poems dramatise the dangers and poverty of a modern world perilously cut off from nature and ruled by technology, self-interest and economic power (p. 15).

La definizione proposta da Astley opportunamente rileva come l’ecopoetica sia pervasa dalla consapevolezza del grave danno che l’essere umano arreca all’ambiente e come essa ponga al centro della sua forma espressiva una natura segnatamente fragile e irrimediabilmente violata. C’è in essa la piena consapevolezza che non v’è luogo o territorio del nostro pianeta che non sia stato fatto oggetto di un’incessante e pervicace azione di sfruttamento e contaminazione, a causa degli effetti perversi e devastanti di un sempre più esteso sviluppo industriale e tecnologico. Per questo motivo, l’ecopoeta non può limitarsi ingenuamente a invocare oggi un nostalgico e idealistico ritorno alla natura, ignorando la complessità del sistema sociale ed economico di cui siamo parte o trascurando l’ormai ineliminabile compresenza di quegli elementi artificiali che attestano la profonda ferita subita dall’ambiente naturale. E se per reazione, tra gli esponenti di spicco dell’ecopoetica contemporanea, Jonathan Bate (2000) ricerca i ritmi propri della terra e i suoni puri della natura, per dare espressione a una coscienza Alberto Baracco Mais toujours, si la nature est comme l’art, c’est parce qu’elle conjugue de toutes les façons ces deux éléments vivants : la Maison et l’Univers, le Heimlich et le Unheimlich, le territoire et la déterritorialisation, les composés mélodiques finis et le grand plan de composition infini, la petite et la grande ritournelle. (Gilles Deleuze e Félix Guattari)

 nuova dell’abitare che è ancora scevra da esplicite connotazioni politiche, meno prosaicamente e più risolutamente Juliana Spahr richiama l’ecopoeta a un dichiarato impegno morale e politico, perché, come lei stessa osserva, nel declamare gli uccelli variopinti che volteggiano nel cielo non può non volgere il suo sguardo anche verso i bulldozer che ne distruggono l’habitat e ne accompagnano tristemente il canto:

Shortly after I moved to Hawai’i I began to loudly and hubristically proclaim whenever I could that nature poetry was immoral. There is a lot of nature poetry about Hawai’i. Much of it is written by those who vacation here and it is often full of errors. Rob Wilson calls these poems 747 poems. These poems often show up in the New Yorker or various other establishment journals. But I was more suspicious of nature poetry because even when it got the birds and the plants and the animals right it tended to show the beautiful bird but not so often the bulldozer off to the side that was destroying the bird’s habitat.

 

Dalla prospettiva apertamente schierata della Spahr, la dicotomia tra città e natura e tra tecnologico e naturale denota un semplicistico riduzionismo, non solo velleitario ma anche ipocritamente e colpevolmente complice. Se la politica si sovrappone e invade il paesaggio, e l’ecopoetica è dunque intimamente e inestricabilmente intrecciata al discorso politico che lo pervade, il tutto appare ulteriormente complicato dal fatto che spesso, come giustamente osserva Rebecca Solnit, anche sopra la più demoniaca e atroce delle follie umane, il cielo appare ancora magicamente colorato e le sue nuvole capaci di ammaliarci e toglierci il fiato. L’ecopoetica porta dunque con sé insieme all’espressione empatica ed emozionale di una percepita co-essenza con la natura e con il non-umano, anche una più concreta e radicale presa di coscienza della gravità dell’attuale crisi ambientale e della responsabilità che l’autore ha nell’ispirare e sollecitare un possibile cambiamento. Per questi motivi l’ecopoetica diviene lo spazio in cui esercitare non solo una fiera opposizione, ma anche una resistenza costruttiva, immaginando e promuovendo nuove forme dell’abitare il mondo. È in questo senso che Jonathan Skinner, curatore della rivista Ecopoetics, osserva che il termine ecopoetica (in quanto poesis) porta etimologicamente inscritto in sé il senso di un fare, che sollecita un impegno non solo critico ma anche creativo nella costruzione di una nuova e più solidale casa comune:

‘Eco’ here signals – no more, no less – the house we share with several million other species, our planet Earth. ‘Poetics’ is used as poesis or making, not necessarily to emphasize the critical over the creative act (nor vice versa). Thus: ecopoetics, a house making.

 L’ecopoetica individua dunque un principio di responsabilità individuale e collettiva, ispirata com’è da questa urgenza di cambiamento, un principio che non sottintende la rivendicazione di un ruolo privilegiato da attribuire all’uomo, ma testimonia piuttosto il pieno riconoscimento dei diritti del non-umano e la sentita necessità di dar voce anche all’altro, inteso nel senso più ampio e inclusivo del termine. Da queste brevi riflessioni preliminari si può già intuire perché il linguaggio filmico, grazie al potere fortemente simbolico ed evocativo delle immagini, e in virtù della sua capacità di dar voce attraverso esse anche al non-umano, costituisca per l’ecopoetica un mezzo di peculiare efficacia espressiva e, conseguentemente, come il cinema rappresenti un ambito di studio di particolare interesse per la ricerca ecocritica. Il cinema infatti non ci offre una mera e speculare riproduzione della realtà, ma crea mondi possibili, che debordano dai rigidi contorni dello schermo e tracciano orizzonti di senso più ampi all’interno dei quali noi possiamo percepire e sperimentare modi nuovi e diversi di coesistere con gli altri e di abitare il mondo. Il mondo filmico non è allora solamente un mondo illusorio, chiuso dentro il film, ma è un mondo dello spettatore, un mondo cioè in cui lo spettatore è percettivamente e cognitivamente coinvolto nell’interpretare e sperimentare nuove possibilità di essere. L’ecopoetica del cinema, costruendo e dando vita a mondi nuovi e differenti, ci invita a reinterpretare i nostri vissuti e a riconsiderare la nostra relazione con l’ambiente e con il non-umano. In questo suo significare, l’ecopoetica cinematografica ci interroga sulla nostra reale natura e sull’esercizio della nostra libertà, e individua una responsabilità dell’agire umano che riconosce il pieno diritto dell’altro a una completa realizzazione esistenziale. Nella rappresentazione di una coscienza più ampia ed estesa e attraverso un processo di identificazione con l’ambiente circostante e con la natura, liberandosi del cinema italiano contemporaneo dalla gerarchica e dicotomica opposizione tra soggettività umana e oggettività del non-umano, l’ecopoetica cinematografica rivela un cruciale spostamento di prospettiva e ci propone il passaggio da una visione rigidamente antropocentrica a una visione ecocentrica e inclusiva. Con questo approccio pluralista ed egualitario, ispirandosi a quella cosiddetta ecologia profonda inaugurata da Arne Næss, l’ecopoetica del film esprime una concezione olistica e relazionale del mondo che ci invita al riconoscimento della pari dignità esistenziale di tutti gli esseri e della loro intrinseca interconnessione e interdipendenza. Inscritta in questa peculiare matrice concettuale, e in virtù della sua caratteristica vocazione critica, orientata com’è verso la promozione di un radicale cambiamento del nostro stile di vita e del modo di intendere il mondo e la nostra relazione con la natura, la forza dell’ecopoetica cinematografica si misura perciò nella sua efficacia espressiva e nella sua capacità di sollecitare e coinvolgere lo spettatore, per suggerire nuovi significati e indur[1]re nuovi comportamenti. L’analisi critica dell’ecopoetica dunque implica sempre il passaggio dal piano teorico a quello concreto della pratica ermeneutica, con l’individuazione e l’interpretazione di specifici casi di studio. Muovendo allora da queste brevi premesse teoriche e passando al lavoro dell’interpretazione, se rivolgiamo la nostra attenzione alle produzioni del cinema italiano contemporaneo, la nostra ricerca ecocritica può trovare un ampio e variegato catalogo di film, tra cui spiccano anche significative espressioni di ecopoetica cinematografica. In particolare, interessanti spunti di riflessione ci vengono offerti da due film italiani dell’ultimo periodo: Bella e perduta(2015), del regista e documentarista casertano Pietro Marcello, e Spira Mirabilis, dei due artisti milanesi (pescaresi d’origine) Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Partendo proprio da quest’ultimo lavoro di sperimentazione artistica, nell’analizzare le differenze che emergono dal confronto tra le due diverse rappresentazioni filmiche, vedremo come il cinema può dar forma con grande efficacia espressiva a modi differenti di intendere il mondo e la nostra relazione con il non-umano.

 

2.       Spira Mirabilis (D’Anolfi e Parenti 2016)

Spira Mirabilis (SM) non è un’opera cinematografica facilmente classificabile. Non è infatti propriamente un film, almeno non nel senso comune del termine, e non è neppure un documentario. Privo di una struttura narrativa chiara e lineare, e quasi interamente senza dialoghi, SM è piuttosto un’opera di sperimentazione formale e di video-arte. Rispetto al tema qui trattato della dimensione ecopoetica del cinema e del correlato concetto di mondo filmico, SM si presenta dunque come un caso di studio di particolare interesse per almeno tre ordini di ragioni. In primo luogo perché, in quanto opera dichiaratamente anti-narrativa, SM rimette in discussione il concetto stesso di mondo filmico, almeno nella misura in cui esso è inteso riduttivamente come rappresentazione imitativa e realistica di un insieme congruente di personaggi, luoghi ed eventi. In secondo luogo perché, sebbene SM ci offra una peculiare riflessione sulla natura umana e sul modo di intendere il mondo, la quasi totale assenza di dialoghi incarica primariamente l’immagine e il suono dell’espressione poetica filmica. In terzo luogo perché, come opera di forte impronta artistica, SM convoca inevitabilmente una riflessione sul pensiero degli autori e sfida quindi apertamente una prospettiva come quella qui proposta, che volutamente tralascia la dimensione autoriale per aprirsi a un’ermeneutica dell’esperienza filmica che pone al centro della propria indagine la relazione tra film e spettatore. Ammesso in concorso per il Leone d’oro alla 73° mostra del cinema di Venezia nel 2016, non senza qualche critica, SM si è aggiudicato il premio collaterale Green Drop Award come miglior film sulla sostenibilità ambientale «per aver raccontato l’aspirazione della natura all’immortalità e per aver aperto più di una riflessione sul rapporto fra uomo e natura e sul senso del nostro incedere nell’universo». È dunque evidentemente riduttivo, come ha sottolineato lo stesso direttore artistico della mostra di Venezia Alberto Barbera in occasione della sua proiezione inaugurale, voler etichettare SM come documentario e rinchiuderlo inutilmente all’interno di un genere specifico. Come in una simbolica cosmogonia orfica, il film si apre con un nero d’immagine squarciato da lampi di fulmini notturni e dalle parole misteriose di una donna che alla luce del fuoco rievoca mitologicamente le origini del mondo. È la voce mistica di Leola One Feather, la rappresentante di una piccola comunità di indiani Oglala Lakota che, sopravvissuta nel tempo allo storico massacro di Wounded Knee del 1890 e alla dura repressione del 1973, si oppone ora al recente e impattante progetto dell’oleodotto DAPL (Dakota Access Pipeline). È questa la genesi di un mondo filmico che si carica fin dalle prime immagini di simbolismi densi e di figure enigmatiche, e che chiama in causa esplicitamente e fin dall’inizio il dispositivo cinematografico. Il richiamo post-modernista al mezzo filmico è evocato dall’immagine dell’accensione di un proiettore cinematografico la cui luce si irradia all’interno di una sala vuota e spettrale e illumina il corpo di Marina Vlady (già attrice di Cocteau, Godard, Welles e dei registi italiani Ferreri, Lattuada, Scola e i fratelli Taviani) intenta a declamare i versi del racconto L’immortale (El immortal), tratto dall’Aleph di Jorge Luis Borges. È un palesamento che porta in primo piano la relazione film-spettatore e che simbolicamente rende manifesto il fiorire dell’espressione poetica in seno all’esperienza filmica. Un modo per riaffermare in modo esplicito che l’interpretazione dei significati del film può svolgersi solo all’interno di una più ampia riflessione fenomenologico-ermeneutica sulla poetica del cinema. Eludendo lo sterile quesito essenzialista e definizionista del «cosa è il cinema», SM sembra voler simbolicamente ribadire che il film può significare solo nell’incontro con lo spettatore. Come non c’è immagine senza l’occhio che l’accoglie, così non può esserci film senza spettatore. Il mondo filmico prende dunque forma tra lampi notturni e le scintille del fuoco degli indiani Lakota e, a guisa di una sinfonia poetica e visuale, si sviluppa intorno a quattro distinti movimenti simbolicamente rappresentati dai quattro elementi naturali: il fuoco appunto, e poi la terra, l’aria e l’acqua. Una sinfonia poetica della natura che componendosi in questi quattro movimenti si rapporta a un unico comune denominatore: un processo di trasformazione e rigenerazione nel fluire perenne del tempo. C’è la terra, rappresentata dalle cave di marmo e dalle statue e le guglie del Duomo di Milano che, nonostante l’usura del tempo e la corrosione degli agenti atmosferici, resistono e si rinnovano grazie al lavoro caparbio dei restauratori. C’è l’aria, metaforicamente espressa nelle ripetute e regolari vibrazioni dello hang e del gubal, affascinanti strumenti musicali frutto del lavoro meticoloso dei due artigiani-artisti svizzeri, Felix Rohner e Sabina Schärer, che seguono le fasi cicliche della loro produzione alla ricerca di una risonanza più pura. E infine l’acqua, l’elemento di studio dello scienziato giapponese dell’Università di Kyoto Shin Kubota, da anni dedito a uno studio solitario sui meccanismi di rigenerazione della turritopsis nutricula, comunemente nota come la medusa immortale. Muovendo metaforicamente il mondo filmico, questi quattro flussi di immagini si intersecano e dialogano tra loro, evidenziando relazioni e interconnessioni e ricomponendosi poi all’interno della succitata cornice metatestuale, con la voce di Marina Vlady e le parole di Borges a fungere da glossa all’espressione poetica del film. Il mondo filmico dà così forma a una poetica ecologica che nel riaffermare l’inscindibile legame tra essere umano e natura ne individua il principio generale in un processo di perenne trasformazione e rigenerazione. Rispetto a questa processualità universale e all’interno di questa rete di relazioni, il lavoro progettuale e creativo dell’uomo rivela un’aspirazione ostinata e irrisolta a carpire il senso perenne e immortale dell’essere. L’ecopoetica di SM esprime dunque una concezione sistemico-relazionale del mondo, collocandosi propriamente all’interno di quella corrente di pensiero che ispirandosi al lavoro originario di Arne Næss è identificata comunemente con il termine deep ecology. All’interno di questa prospettiva generale, tre aspetti del cinema italiano contemporaneo sembrano contraddistinguere in modo caratteristico l’ecopoetica di SM. Il primo luogo, appunto, la concezione relazionista dell’essere. Operando simbolicamente con i quattro movimenti descritti, SM individua una fitta e interminabile rete di relazioni e di rapporti dinamici, alla quale anche l’essere umano è intimamente e originariamente legato. La poetica di SM si fonda proprio su questo principio di interdipendenza dell’essere-nella-relazione. Se c’è un aspetto che primariamente emerge in SM è che tutto è in relazione, e che anche l’essere umano esiste perché è nella relazione e si mette in relazione con l’altro, con la materia e con la storia, intesa quest’ultima come proiezione nella relazione di ciò che precede in ciò che segue. E i termini della relazione sono anch’essi relazioni: la relazione non è dunque in SM un elemento concettuale di secondo livello, ma assurge invece a categoria primaria e a chiave di comprensione della natura e dell’essere. Da questa concezione relazionista dell’essere deriva un secondo aspetto caratteristico: SM dà forma a una cosmologia processuale e trasformativa. In SM, la relazione è dunque intesa come trasformazione e generazione, e nel passaggio da una condizione alla successiva essa individua un movimento ininterrotto. Nel mondo filmico di SM non c’è stasi e non esiste un elemento o uno stato incondizionato. Ogni condizione è, nella relazione, la premessa per il passaggio alla condizione successiva, in cui essa non è persa, ma si trasforma ed evolve. Non esiste dunque uno stato iniziale assoluto, così come non esiste uno stato finale e definitivo, ma solo una trasformazione e un’evoluzione continua. È in questo senso che il mondo filmico è spira mirabilis, la spirale meravigliosa, quella spirale logaritmica studiata dal matematico Bernoulli (1654–1705) che non incontra mai il suo centro, poiché è punto asintotico, ma evolve indefinitamente allontanandosi sempre di più dall’origine. È meravigliosa proprio perché non ha né un punto di origine né un punto finale, ma è sempre in continua evoluzione. Nella rappresentazione viene infine nuovamente implicato il dispositivo cinematografico e il mezzo filmico. Così, quando il nastro della pellicola volge al termine e il proiettore si spegne, le immagini tornano al fuoco iniziale degli indiani Lakota, come a indicare in una spirale che il processo di significazione e interpretazione non si arresta, ma procede ininterrotto come discorso perenne sull’essere. Perciò, ciò che viene attentamente rifuggito in SM è proprio il finalismo del cinema, quella rassicurante costruzione narrativa che tende a chiudersi in una tesi definitiva. La ricerca filmica di SM procede invece ininterrotta e nell’esprimere le relazioni collega un’immagine alla successiva, sempre evitando la logica stringente della causa e dell’effetto e rifuggendo una narrazione concludente e strettamente consequenziale. La forza estetica ed espressiva della rappresentazione è piuttosto garantita da un flusso di immagini fluide, composte assecondando assonanze visive e giustapponendo forme simili o complementari. Una fluidità delle immagini che è messa in risalto anche nel rapporto contrastante con la componente sonora, che amplifica i rumori e dà voce allo sforzo del processo creativo umano. È questo il terzo aspetto caratteristico di SM. Nel comporre la struttura di interconnessioni e interdipendenze reciproche che sorreggono il mondo filmico, SM identifica un soggetto che, seppur sia parte accanto alle altre della catena di relazioni, continua a voler esercitare uno sguardo privilegiato sul mondo. Sebbene l’azione umana sia ricomposta e ridimensionata all’interno della rete di relazioni, da quell’agire insistito traspare un’irrisolta aspirazione all’immortalità e alla trascendenza. E non importa che questa aspirazione sia percepita come congeniale allo sviluppo relazionale complessivo, perché individuando un punto privilegiato di osservazione essa è in qualche modo espressione di un antropocentrismo che torna a definire un rapporto tra soggetto e oggetto, tra soggettività e natura, in cui non vi è piena identità bensì gerarchia. Un antropocentrismo che ha anche inevitabilmente a che fare con la creazione artistica e con l’arte del fare cinema, come se anche il filmmaker di SM fosse incessantemente al lavoro, alla ricerca irrisolta di un’immagine capace di una piena e totale significazione. L’ecopoetica di SM dà dunque espressione a un antropocentrismo moderato nel quale, sebbene la relazione tra essere umano e natura appaia inscindibile, e il valore universalistico dell’ecosfera sia riaffermato attraverso una concezione relazionista e trasformativa che individua il movimento perenne attraverso cui essa si perpetua e rigenera, la natura resta filtrata dallo sguardo di un soggetto che sperimenta e che nello sforzo creativo, esercitando il potere della tecnica, riprogetta il proprio mondo tentando vanamente di proiettarsi oltre i propri limiti. Riflettendo sull’ecopoetica di SM ci si può dunque porre la questione se il cinema, con il suo caratteristico armamentario tecnico e il suo specifico linguaggio, possa davvero abbandonare completamente questa prospettiva antropocentrica e offrire allo spettatore un mondo filmico differente, fondato su un principio pienamente biocentrico. Non è forse lo stesso dispositivo cinematografico, sebbene talvolta cerchi di celarlo, a implicare necessariamente uno sguardo umano sul mondo?

 

3.Bella e perduta (Marcello 2015)

 Come SP, anche Bella e perduta (BP) è un film difficilmente classificabile. Terzo lungometraggio del regista Pietro Marcello, presentato in concorso al 35° Festival di Locarno nel 2015 e poi al 33° Torino Film Festival come evento di apertura, BP è infatti molto più che un semplice documentario di denuncia sociale. È al contempo una fiaba antropologica e un resoconto di cronaca, è un documento sulla realtà e una potente trasfigurazione del reale, è un canto pastorale sull’Italia e un viaggio alla ricerca di un’utopia, ed è molto altro ancora. BP non è perciò un film semplice da presentare e analizzare, perché tesse una fitta trama di rimandi letterari, poetici e mitologici, e offre allo spettatore un mondo filmico che invita alla meditazione intima e personale. In questo senso, BP è innanzitutto un film profondamente poetico, che non a caso è stato accostato spesso all’opera di Pier Paolo Pasolini e, in particolare, al film Uccellacci e uccellini (1966). I rimandi, come si diceva, sono molti, a cominciare da quell’accostamento nel titolo di bella e perduta, che direttamente richiama il coro del Va’ pensiero del Nabucco di Verdi: «Oh, mia patria sì bella e perduta! Oh, membranza sì cara e fatal!». BP è dunque prima di tutto un canto elegiaco sulla bellezza e sulla perdita che, accompagnato dalle voci della natura e dalle note delle pastorali di Respighi, Donizetti e Bach, si muove tra ferocia e bontà, tra dolcezza e distruzione. Cercando allora di evidenziare quelli che sono gli aspetti più significativi del mondo filmico di BP e dell’ecopoetica che è in esso espressa, tre sono gli elementi narrativi principali sui quali è opportuno incentrare la nostra analisi ecocritica. Dapprima ci viene raccontata la vicenda di Tommaso Cestrone, un allevatore del casertano che, tentando di ribellarsi alla devastazione e alla depredazione del territorio in cui vive, si fa eroe epico e tragico a difesa della bellezza e della memoria. Da solo, lottando contro l’inerzia di uno Stato corrotto e colpevole, Tommaso si assume il compito di risistemare, per aprirla al pubblico, la reggia borbonica di Carditello che cade in rovina a pochi passi dai terreni dove fa pascolare il suo gregge. Reggia settecentesca voluta da Carlo di Borbone e, all’epoca, centro zootecnico di eccellenza, Carditello è ora abbandonata al degrado e preda della camorra, che ne fa luogo di latitanza dei Casalesi. Posta proprio al centro di quella terra dei fuochi distrutta dalle discariche abusive e dai rifiuti tossici, Carditello è dunque il luogo emblematico di una terra ferita, depredata e abbandonata. È il simbolo per antonomasia di una perduta bellezza. Tommaso non si arrende e incurante delle intimidazioni e delle minacce si dedica con ostinazione e tenacia alla cura di quel luogo simbolico. Con gratuita dedizione e con un amore semplice e sincero per la natura, Tommaso si erge simbolicamente a difesa di una terra martoriata dalla criminalità e sfruttata da un capitalismo selvaggio, che ne hanno gravemente compromesso gli equilibri naturali con impatti nefasti sulla salute della popolazione. Come un eroe tragico, Tommaso, l’angelo di Carditello, muore però improvvisamente d’infarto la notte di Natale, nel segno di un destino infausto che si compie e di una sconfitta che sembra in qualche modo irreparabile e definitiva. E sembra anche la fine di un film appena iniziato che perde il suo principale protagonista. Eppure, nonostante la sua triste scomparsa, Tommaso non abbandona il mondo filmico di BP, ma è invece continuamente evocato nelle scene successive e diviene portatore di un profondo messaggio etico che implica un modo diverso di pensare e abitare il mondo. Con la storia di Tommaso, il mondo filmico dà espressione a un’etica ambientale che sollecita il superamento di un modello di sviluppo fondato sulla mercificazione e sullo sfruttamento del territorio, in favore di una relazione più equilibrata e armoniosa tra individuo e natura. In una cornice etica più ampia si inserisce il secondo elemento poetico-narrativo, che ruota intorno alla storia di un piccolo bufalo di nome Sarchiapone. Anche in questo caso i collegamenti e i rimandi artistici e letterari abbandono. Sarchiapone, già personaggio fiabesco del seicentesco Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (1634-1636), è nome che richiama alla memoria il famoso ed esilarante sketch portato in televisione da Walter Chiari ne La via del successo del 1958 e successivamente interpretato più volte dall’attore in altri programmi televisivi, dove quel nome stravagante serviva a identificare un animale fantastico e immaginario. Ma la triste storia del bufalotto di BP evoca anche altri mondi filmici e altri personaggi cinematografici, dal famoso asino bressoniano Balthazar (Au hasard Balthazar) alla mucca Gaav dell’iraniano Mehrjui, metaforici compagni di sventura del povero Sarchiapone. Accudito da Tommaso, che lo aveva trovato abbandonato in un campo e destinato a morte certa a causa della sua inutilità commerciale, il bufalotto si ritrova in un mondo la cui logica perversa riconosce un valore solo alle bufale che forniscono il latte per la produzione delle mozzarelle. Attraverso la voce di Elio Germano, ascoltiamo i pensieri del piccolo bufalo che osserva dal basso un mondo a lui ostile e si lascia andare poeticamente a sogni e riflessioni:

Che strana sorte che era la mia […] condannato a morire. Non avevo commesso nulla di male, eppure avrebbero calato su di me una lama, mi avrebbero trafitto e poi fatto a pezzi, spargendo le mie viscere sulla terra […] Sognai che tutti gli uomini erano diventati delle creature alate, ed erano volati via, lontano, nel celeste paese dell’immortalità. La terra si era ricoperta di fitte foreste ed era rimasta in eredità agli animali. Invece mi risvegliai sospirando. Quand’è che finirà tutto questo? Quand’è che gli uomini ci lasceranno da soli al nostro destino?

Le toccanti soggettive realizzate con una macchina da presa mossa a mano e ad altezza del muso dell’animale e i coinvolgenti effetti sonori, come ad esempio nell’incipit del film o nella scena finale in cui il bufalo ansimante è spinto nell’angusto corridoio del mattatoio, esprimono poeticamente e con la forza dell’immagine i sentimenti e le paure del povero animale. E quelle toccanti lacrime che gli vediamo piangere poco prima che venga condotto a morte ci riportano alle labbra, in una fratellanza nel dolore, i versi de La capra di Umberto Saba:

 Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

 per celia, poi perché il dolore è eterno,

 ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

 

 In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita (vv. 5-13).

 

 L’ecopoetica di BP prende allora le forme di un’etica biocentrica che invita l’individuo ad allargare e includere tra i propri principi morali il riconoscimento di una comunità più ampia, non solo umana, ma che ricomprenda anche l’animale e il vegetale. In un dialogo empatico ed emotivamente struggente con il povero Sarchiapone, ci ritroviamo immersi in un mondo filmico che, adottando una prospettiva olistica ed ecocentrica, ci fa membri di una comunità biotica fondata sul riconoscimento del valore intrinseco e universalistico della natura. E mentre i contadini lo spingono con i bastoni verso il suo ultimo triste viaggio, Sarchiapone fieramente afferma: «malgrado tutto sono orgoglioso di essere un bufalo. In un mondo che ci nega l’anima, essere un bufalo è un’arte». Perché ciò che davvero conta, come osserva ancora Sarchiapone, «è amare la vita», una vita che è intesa nel suo significato più ampio e completo, e che include i pascoli, gli alberi e tutte le altre forme della natura. La storia di Sarchiapone dà sviluppo anche a un terzo elemento narrativo imperniato sul personaggio di Pulcinella. Maschera celebre della commedia dell’arte e del teatro comico di Silvio Fiorillo, e che rimanda a tradizioni più antiche che si ricollegano all’arte funeraria etrusca e poi alle fabulae atellanae, Pulcinella è da sempre considerato un simbolo della cultura popolare e della napoletanità. Con la sua caratteristica personalità duale, Pulcinella incarna la coesistenza degli opposti, del positivo e del negativo, e riunisce in sé bene e male, nella commistione anche cromatica del bianco e del nero del suo costume. Nel mondo filmico di BP, Pulcinella assume le sembianze di un simbolico psicopompo che viene richiamato dall’aldilà e fatto emergere dalle viscere del Vesuvio per esaudire l’ultimo desiderio del povero Tommaso. È una sorta di tenero anti-eroe, metà saggio e metà matto, che viene inviato dall’aldilà alla reggia di Carditello con il compito di salvare il piccolo bufalo Sarchiapone rimasto solo dopo la morte di Tommaso. Una volta riunitisi, Pulcinella e Sarchiapone intraprendono insieme un lungo viaggio verso la Tuscia. Nel muoversi lento dei due, che è anche un dialogo intenso e struggente, tra incantevoli paesaggi naturali, cacciatori di frodo e contadini impoveriti da una società che li isola e li esclude, incontriamo un’Italia bella e perduta, in una sorta di canto elegiaco e mistico su una terra morente. È un percorso che sin già nella sua idea originaria richiama alla memoria un precedente Viaggio in Italia (1957), quello del giornalista e scrittore Guido Piovene, che nelle tappe del suo itinerario da nord a sud descriveva l’Italia del boom economico. Con uno sguardo che mostra oggi tristemente tutta la sua attualità, in quelle pagine Piovene così osservava: «purtroppo lottiamo in Italia non solamente contro alcune necessità, vere o presunte; ma contro il modernismo rozzo, il gusto della distruzione, la volgarità presuntuosa e volontaria» (p. 127), «in nessun altro Paese sarebbe permesso assalire come da noi, deturpare città e campagne, secondo gli interessi e i capricci di un giorno» (p. 665). La narrazione simbolica e poetica del viaggio di Pulcinella e Sarchiapone si intreccia dunque con continui riferimenti e rimandi letterari. Come nel caso di Gesuino, il bislacco personaggio a cui Pulcinella deve lasciare in consegna il bufalo, una sorta di mangiafuoco, pastore e poeta, che dorme in una caverna e recita a memoria i versi dannunziani de I pastori. O quando, nel sogno di Pulcinella, mentre scorrono le immagini di una natura disprezzata e violata dall’uomo, riecheggiano con toccante lirismo le parole di Anna Maria Ortese (interpretata nel film da Elsa Morante).

Nelle estreme e più lucenti terre del Sud esiste un ministero nascosto per la difesa della natura dagli esseri umani; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolce e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata […] Questa spaventosa e segreta difesa di un territorio – la vaga natura con i suoi canti, i suoi dolori, la sua sorda innocenza – detta le condizioni di questa terra e la fine miseranda che vi fa la ragione dell’uomo. Qui, il pensiero non può che essere servo della natura, e se appena accenna a qualche critica, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo solo viscere, la stirpe umana è uccisa (audio del film tratto da Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, Torino, Einaudi 1953, pp. 132-3).

Adottando una visione panteistica della natura, il film anima una comunità biotica ampia e onnicomprensiva, di cui l’essere umano non è che una delle parti. All’interno di essa, all’uomo non è riconosciuta una posizione privilegiata, ma è piuttosto attribuita la colpa di voler vanamente turbare questa armoniosa disposizione universale. L’acqua miracolosa della fonte a cui Pulcinella si disseta, o quell’albero misterioso che imponente domina la scena, sono segni tangibili di una Natura animata e senziente e di «quell’intelligenza che», come commenta Sarchiapone, «tutto dispone, ma è troppo indaffarata per fermarsi a spiegare». Pulcinella, allora, in un certo senso, rappresenta il mondo filmico stesso, perché nel suo vagabondare entra in dialogo con la natura, la comprende e l’asseconda. Così, nel finale del film, abbandonando la sua maschera e liberandosi dal peso di un’immortalità inutile e servile, Pulcinella sceglie di essere uomo nuovo, libero e consapevole. È una scelta che, di fronte alle immagini di Sarchiapone condotto a morte, in quel suo ansimare disperato e struggente, ci richiama al compito di riconoscere e accogliere il nostro posto nel mondo, in un’alleanza piena e solidale con la natura.

 

4.Conclusioni

Tornando al tema della dimensione ecopoetica del cinema, guardando ai due casi di studio qui discussi, possiamo allora tentare di stilare una riflessione conclusiva. Come già abbiamo sottolineato, entrambi i film lasciano poco spazio ai dialoghi. Dalla nostra prospettiva ciò è particolarmente interessante, perché mostra chiaramente come un film possa fare poesia indipendentemente e al di là dalle parole. O per meglio dire, ancor prima delle parole, attraverso un linguaggio per immagini che dà forma a un mondo filmico e lo offre allo spettatore. E quello del film non è un linguaggio fatto esclusivamente di immagini, è anche flusso continuo di suoni. Così, se nel mondo filmico di SM ciò che ascoltiamo è soprattutto (sopra-tutto) il rumore intenso e preponderante dell’azione umana, in BP ciò che invece percepiamo sono le voci e i silenzi della natura, in un dialogo più intimo e profondo con l’essere. Se SM, nel sostenere una concezione radicalmente relazionale della realtà, mantiene ancora una prospettiva antropocentrica nella quale l’atto creativo umano si protende vanamente alla ricerca di un senso trascendente, BP afferma invece una piena uguaglianza biocentrica per la quale il processo di autorealizzazione umana passa necessariamente attraverso una piena identificazione con la natura. Tale identificazione è espressa in BP non con un principio prescrittivo in qualche modo imposto da un’etica ecologista dottrinale e normativa, ma come naturale e istintiva risposta alla percezione di un profondo e originario legame con la natura. Ciò che emerge è un pensiero poetico vivo e fecondo, un pensiero che non va dogmatizzato e isterilito nel commento. Ciò che ci viene offerto è un mondo filmico in cui direttamente sperimentare la possibilità di un modo diverso di vivere. Se oggi più che mai è divenuto cruciale riflettere ecologicamente sul posto occupato dall’essere umano nel mondo, il cinema può rappresentare un mezzo straordinariamente efficace per l’espressione ecopoetica e la condivisione di un nuovo messaggio filosofico ecocentrico.


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