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Il tragico contemporaneo: Miklós Hubay

Ritratto del drammaturgo ungherese

Di Luigi Tassoni

 

In: Semicerchio LV (02/2016) “30 anni”, pp. 259-261.

 

Miklós Hubay arriva da molto lontano: e non solo dall’Europa poliglotta dei viaggiatori quanto dal cuore della tragedia greca che tocca il mistero, il segreto, il cataclisma, la disumanità dell'umanità. In un suo intenso saggio su un padre e un figlio, i due Szondi, Lipót lo psicanalista, e Péter l’ermeneuta, si legge un brano che si attaglia al drammaturgo di oggi (ne traggo una scheggia): «Circa i geni latenti che definiscono il destino dell’uomo, Lipót Szondi è stato il primo a notare […] il loro possibile ruolo di sicari. Nel momento in cui anche i più grandi eroi si coprivano gli occhi alla vista della propria fine, lui, Lipót Szondi, con grande disinvoltura ammiccava alla paralizzante testa di Medusa, frugava fra le chiome di serpenti». (Le teorie dei due Szondi sul destino tragico, «Il cannocchiale», n. 3, 1998, p. 7).

Anche le mani di Miklós continuano a frugare nella testa di Medusa. La sua monumentale opera teatrale, già quasi tutta edita in italiano e oggi annunciata in edizione unica da Rubbettino, e rappresentata in mezza Europa, può essere distinta all’incirca in tre filoni portanti: 1) i testi ispirati alla drammaturgia greca e latina, 2) i testi orecchiati dal teatro ottocentesco, specie francese (per sfuggire alla censura), 3) i testi ispirati a temi ed eroi contemporanei. E a chi dovesse sfuggire l’infelice domanda di Geofonte nel dramma Addio ai miracoli, «Hai scritto un dramma d’occasione?», io risponderei come il Sofocle di Miklós: «Per meglio precisare: è l’occasione che è divenuta dramma».

Al centro della scena di Hubay vi è il conflitto: fra padri e figli, fra io e alterità, dell’io con se stesso. E quale maggior mistero poteva essere sperimentato sulla scena?

Per parlare di uno dei maggiori drammaturghi d’oggi, ho scelto dunque la strada più breve: la chiave di lettura offertami dal dramma Freud ultimo sogno, nella versione italiana di Umberto Albini.

Freud, motore e indagatore di conflitti e contraddizioni, e non risolutore, si addormenta sul sofà prima di fuggire a Londra, e sogna di trovarsi, ancora una volta seminudo come fa spesso, faccia a faccia con l’Imperatore Francesco Giuseppe, che come sappiamo mai si sarebbe sdraiato sul lettino dello sciamano. Non a caso una delle prime domande di Freud al vecchio Franz Josef ricalca Shakespeare: «Che sogni si fanno dopo la morte?», chiede. A questa domanda paradossale vorrei aggiungerne altre non mie, ma di Derrida, egualmente utili al nostro intento: «Qual è la differenza tra sognare e credere di sognare? E innanzitutto, chi ha il diritto di porre questa domanda? […] Un sognatore, d’altra parte, sarebbe in grado di parlare del suo sogno senza risvegliarsi? […] Sarebbe capace di analizzarlo in modo appropriato, e anche solo di servirsi con consapevolezza della parola ‘sogno’, senza interrompere e tradire, sì, tradire il sonno?» (J. Derrida, Il sogno di Benjamin, Milano, Bompiani 2003, p. 9).

Il filosofo risponde no, oppure: forse sì. Il drammaturgo risponde decisamente sì, e designa la scena

come luogo degli avvenimenti, come occasione senza mediazione altra che non sia la parola e l’azione drammatica.

Il Freud di Hubay è eroe nel senso che Socrate darebbe al personaggio: sempre su un limite tra la vita e la morte, la morte e la partenza, il finire o il ricominciare, e naturalmente sognare e vivere. La morte che, dice Hubay, per gli ungheresi è come un trasloco, o viceversa il trasloco come una morte (elköltözött). In ogni caso, ciò che accade a Freud sulla scena (come dice la figlia Anna nel testo) non rientra nelle formule freudiane e forse appartiene alla tragedia greca. Perché? Lo spiega l’epilogo sulla scena: mentre Freud (che ha con sé le casse dei suoi famosi reperti archeologici e il testo del suo piccolo Mosè) arriva a Londra, al giornalista della radio che intende intervistarlo, risponde semplicemente: «Gli dei […], questi dei così fragili, questi dei sono qui, tutti, con noi». Il sipario si chiude, dunque, con la dichiarazione di un ritrovamento: sono quegli stessi dei che la sorella di Sigmund, Paula, pensa si siano perduti, mentre lo stesso Freud, padre e divinità della psicanalisi, cerca di anticipare il proprio destino chiedendo l’eutanasia al giovane medico, Otto, che così potrebbe guarire completamente dalla giovanile ossessione del suicidio. Intorno imperversa la follia della storia, il crimine, il cinismo: da quello del nazismo, il rogo dei libri probiti, la deportazione imminente anche delle sorelle di Freud, fino alla follia quotidiana e agli enigmi dei viennesi passati sul lettino dello sciamano, e via via risalendo fino alla follia dell’Imperatore (distratto e fuori dalla storia come un imperatore romano), a quella del giovane Rodolfo, e persino di Sissi e della propria famiglia, e all’imbecillità delle guerre.

Ma il ritrovamento finale è un falso: gli dei, lo avete sentito, sono fragili, essi ci sono, e nella loro stessa fragilità c’è l’io contemporaneo.

Non per nulla questa figura di Freud viene definita da un altro personaggio, l’amante dell’Imperatore, Katharina Schratt, come medico degli orologi, taumaturgo degli orologi: è il tempo che viene manipolato dall’eroe della tragedia contemporanea, in un’epoca che, come ha detto lo stesso Hubay, conosce il dramma ma non riconosce il sentimento della tragedia, quello abissale che si delinea lungo il corso della storia e del tempo, e a volte risulta semplicemente inevitabile. Il tempo sulla scena di Hubay ha una scansione ossessiva, martella con i rintocchi di un pendolo, eppure il tempo è l’elemento principalmente sottoposto a manipolazione: Freud ne è così ossessionato in piccolo tanto da voler arrivare sempre in anticipo alla stazione ferroviaria, e in grande tanto da dare ai sogni nel sogno la possibilità di mescolare le cronologie, mettere a confronto le generazioni, mettere di fronte padri e figli. E qui lo stesso Sigmund Freud, con una maschera, si sostituisce a Rodolfo e uccide il padre.

La figura dello psicanalista è molto vicina al ruolo del drammaturgo di oggi: un dio dubbioso, che non ha rimedi né cure, simile a Edipo che si fa condurre da Antigone sul luogo della propria morte, simile ad Anchise che il giovane medico (come Enea) vorrebbe caricarsi sulle spalle. Questo personaggio multiplo, così si dichiara nel bellissimo monologo dell’opera di Hubay (dramma? tragedia?), allorché si risveglia dal sonnosogno a cui hanno assistito gli spettatori, e inspiegabilmente appare ringiovanito ad Anna ed Otto (dunque, il sogno, e l’azione tragica possono ringiovanire l’eroe?): «Credete di avere solo voi il privilegio di rimanere sfacciatamente giovani? Io sono il principe Rodolfo, il figlio dell’Imperatore. Cosa ne dite? Porto sulla terra l’età dell’oro. Sono Giuseppe, l’interprete dei sogni. Sono un profeta, un conquistatore. Sono Luigi. Sono una celebrità mondiale che si trova qui in incognito. Sono il proprietario di una casa chiusa. Da sessant’anni ho la residenza ufficiale a Vienna e sono un ebreo errante».

Tutto succede nella stanza di Freud, in quella stanza, con la responsabilità di un divano, che il drammaturgo fa ruotare di 180 gradi davanti agli spettatori: la disseminazione degli io, il calarsi nella pelle di destini diversi, perfora la coscienza, le sottrae quei margini duri che altrimenti avrebbero spostato la lancetta della figurina dell’uomo verso il piccolo dio, e invece ne mettono in luce la straordinaria sua fragilità. Il drammaturgo come taumaturgo e sciamano non dà altra soluzione che non sia già nell’interrogazione dei destini, e della loro inevitabilità. Tutto succede, e ogni vicenda contiene in sé l’inspiegabile e il non-senso: come per la follia di Eracle che, dice Euripide, dopo aver superato le dodici terribili prove eroicamente, come azione finale uccide i figli e la moglie. Lo spiega a se stesso e a noi Hubay nel già citato saggio sui Szondi: l’elemento tragico non bussa, come la dea della follia, dal tetto di casa, ma sconquassa dal di dentro: «Sembrava davvero che Eracle, diventato un enigma anche a se stesso, avesse chiesto un incontro con il vecchio ‘sciamano’ Lipót Szondi» (Le teorie cit., p. 7). E più avanti: «Lipót e Péter, entrambi cercavano di mascherare l’orrore della faccia della Medusa: il padre, lo psichiatra, per diminuire le costrizioni e le sofferenze delle vite destinate a sopportarsi, unite dai legami familiari, e l’altro, il figlio, per capire la tragedia delle vite legate tra di loro nel dramma […] Si sono infettati - come devoti medici - della malattia sconosciuta che cercavano di scoprire» (ibidem).

La stessa infezione, senza soluzione né guarigione, tocca al drammaturgo di oggi: per Miklós Hubay, Euripide come Beckett, la percezione del tragico porta, come nell’antica Grecia, verso un punto di rottura o una esplosione, il conflitto e la catarsi. E la scena diventa la sperimentazione ad oltranza di questa possibilità. Perché Hubay è un classico della letteratura e non solo del teatro? Perché nel suo lavoro la sparizione del soggetto e della psicologia individualizzata sono sostituiti da una scena che omologa la storia. È la storia il movimento di ciascun uomo entro la propria vicenda, ciò che con parola difficile qualcuno chiama destino. Per questo forse nell’opera a cui sta lavorando in questi giorni, il destino del popolo Csángó in Moldavia, di cultura ungherese, gli sta molto a cuore: un popolo muto, cattolicissimo, a cui la Chiesa di Roma nega di professare il proprio credo nella lingua d’origine perché l’ungherese è la lingua del diavolo. Il canto segreto dei Csángó, se è dramma irrisolto, fa la storia. E oggi somiglia a un grido.

Perché, come si domanda Péter Szondi al termine della propria dettagliata analisi del tragico, forse è vero che la dialettica del tragico consiste nell’insieme di annientamento e salvezza (cfr. P. Szondi, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi 1996, p. 158).

La scena tragica si apre dentro l’individuo e dentro la storia: la sua enormità e irrevocabilità sgretolano le certezze, come fa Euripide con Eracle, l’eroe che sa che a nulla vale l’eroismo se il delitto tragico lo frantuma. La follia è legata alla tragedia perché e se non ha motivazione. Questa follia dei tragici antichi fino alla letteratura romantica porta l’uomo a essere «fuori», anche fuori di sé oltre che dalla storia. La tragedia avviene quando l’uomo rientra in sé, come si dice, e vede la scena degli effetti di quel suo immotivato esser «fuori». Il dualismo, l’opposizione a se stesso, la rottura con la storia, sono insanabili. La tragedia della nostra epoca oggi è infatti tanto più folle perché e se qualcuno cerca di motivarla con le guerre e con gli integralismi.

E per finire tre domande: la potenzialità del dramma e dei suoi nodi non rischiano di metterci la nostra coscienza in mano? Sapremo anche noi frugare fra le infide chiome della testa di Medusa? Di questa magnifica infezione come dimostrare gratitudine a Miklós Hubay?


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