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Sangue come moneta. Un campo semantico nella lirica di Paul Celan

Di Michael Jakob

 

In: Semicerchio LV 02/2016 “30 anni” pp. 212-214

 

 

Nelle poesie di Paul Celan non compare la parola ‘Geld’ (‘denaro’). Al suo posto si incontrano però di continuo reliquie della circolazione monetaria di un tempo, segni di un flusso di denaro del passato, come «Groschen» (‘soldo’) o «Taler» (‘tallero’). I segni concreti, le monete, non agiscono come portatori di uno scambio vivo, ma, proprio a motivo della loro materialità, indicano che un sistema monetario è divenuto obsoleto. «Münzen» (‘monete’) o «Groschen» operano come reperti arcaici, archeologici, staccati dalla inter- dipendenza di senso che un tempo li avvolgeva e li rendeva sicuri. La circolazione della corrente monetaria è stata interrotta e il valore che dipende dai singoli segni non è più attuale, ma è diventato storico. Le conseguenze poetologiche di un tale cambiamento leggibile nel segno ‘moneta’ sono di molteplice natura. Esse riguardano il valore del singolo portatore di segno della poesia stessa, la parola; tarano la capacità di verità di questo tipo di espressione, l’interdipendenza ermeneutica della circolazione della parola, del verso e della poesia nel contesto interno dell’evoluzione dell’opera celaniana e nel contesto esterno della sua ricezione. In altri termini, cos’è la lirica di Celan? Un tesoro monetario che cresce col tempo oppure una somma che si oppone ad ogni accumulo per mostrare solo il singolo, ciò che brilla, reperti individuali che non vogliono più essere assorbiti in una totalità?

Il luogo in cui la significanza poetologica della metaforica monetaria diviene trasparente è il legame esplicito di “parola” e “moneta”. In Celan compare dapprima in una poesia della raccolta Atemwende:

 

 

IN DIE RILLEN

der Himmelsmünze im Türspalt 

presst du das Wort,

dem ich entrollte,

als ich mit bebenden Fäusten

das Dach über uns

abtrug, Schiefer um Schiefer,

Silbe um Silbe, dem Kupfer -

schimmer der Bettel-

schale dort oben

zulieb.

 

 

L’asse principale di questa poesia è costituito, come spesso in Celan, dalla relazione io-tu. Io e tu sono legati nella «moneta celeste», in quella componente cioè in apparenza più elevata, verticale. L’identità dell’io – la sfera in cui esso, semmai, torna ancora a sé – è collegata ad una «parola» che è situata in un molteplice a parte. Poiché tutto dipende dal modo di questa parola che risveglia e ravviva l’io, dalla sua potenzialità semantica, la «moneta celeste» risulta particolarmente significante: non è l’effigie sulla moneta ad offrire la «parola» decisiva, bensì gli anonimi, materiali «solchi»; la «parola» che riguarda l’io non porta nessun nome e nessuna immagine, non porta probabilmente proprio niente, ma solo si imprime.

In Nei solchi Celan cambia dunque alla base la rappresentazione convenzionale della parola come «moneta», che nella retorica è rintracciabile a partire da Quintiliano e, come ha indicato Harald Weinrich, risale presumibilmente al pensiero scettico greco: la metafora tradizionale viene capovolta in quanto entrambi i relata appaiono concretizzati, anzi materializzati, provocando la loro separazione, che soltanto in un secondo momento conduce ad una confluenza certamente forzata. Moneta e parola qui non valgono più come segni sicuri, ma vengono correlati ad una sfera d’insicurezza che si potrebbe indicare come quella della verticalità divenuta problematica. La moneta di questa poesia cade con ciò nell’ambito del «bòssolo della questua» e nel campo d’effetto dello smantellamento del «tetto», del senso sicuro, per cui la sua caratterizzazione come «moneta celeste» suona perfino ironica. Né per la «parola» (per la lingua), né per la «moneta» (per il mondo, per la sua struttura di valori), né per l’io risultante da tutto questo, c’è dopo una simile esperienza un «lassù» che possa offrire rifugio.

Anche la seconda poesia di Celan in cui incontriamo il legame parola/moneta, Die längst Entdeckten (GW II, p. 133), ricorre all’immagine monetaria soltanto per far risaltare l’incertezza della comunicazione:

 

DIE LÄNGST ENTDECKTEN

flüstern sich Briefworte zu,

flüstern das Wort ohne Blatt, 

das umspähte, gross wie dein Taler

 

 

Il «tallero», simbolo di ciò che è prezioso e grande, vale qui come segno condotto all’assurdo di uno scambio di parole di tipo paradossale: paradossali sono infatti parole scritte («epistolari») che vengono sussurrate, così come «parole epistolari» «senza foglio», cioè parole senza un loro proprio supporto. Il «tallero» che appare nella comparazione risulta con ciò come un’immagine spettrale e derisoria di un atto comunicativo, come relitto estetico di una interdipendenza ormai declinata.

Il «tallero» in Die Längst Entdeckten è inoltre legato in modo intratestuale ad una poesia del primo Celan, Marianne (GW I, p. 14), nel cui verso finale si può leggere: «Nun klingt auf den Fliesen der Welt der harte Taler der Träume». Questo «ora» che circoscrive una nuova situazione nell’immagine del «duro tallero dei sogni» consegue alla sepoltura dell’amata, Marianne.

Nella prima strofa, in una visione apocalittica, la poesia libera lo sguardo sulla figura allegorica di una morta («Von Auge zu Auge zieht die Wolke, wie Sodom nach Babel»). La seconda strofa concretizza, nel balenare momentaneo del ricordo di questo incubo, la morte dell’amata in una scena che è l’allegoria tragicamente trasparente della morte nei campi di concentramento: «Mit schneeigen Zähnen führt einer den Bogen». Nella terza strofa il corpo della morta viene occupa- to, esplorato, incorporato dai sopravvissuti («ein Wein ohnegleichen dein Leib, und wir bechern zu zehnt»), per culminare alla fine nella processione per la sepoltura, che chiude la poesia. Il sovrapporsi, visionario e allucinante, dei tempi e degli strati della realtà che caratterizzano la poesia, il sopravvivere dell’amata morta nell’incessante rimembranza, conferiscono allo stato onirico un che di violento, di minacciosamente incalzante.

Per determinare però più precisamente la funzione del «tallero», occorre ampliare il cerchio della nostra indagine. Il più importante ed indicativo campo iconico che concerne la metafora monetaria è legato nell’opera di Celan in maniera insolita e sorprendente col corpo umano. Ai passi già citati se ne aggiungono altri otto – la quantità parla da sé! – nei quali ciò che è fisico e ciò che è monetario si sovrappongono in maniera del tutto esplicita:

 

Wer wie du und alle Nelken Blut als Münze

 [braucht und Tod als Wein,

(GW I, p. 49)

Brich dir die Atemmünze heraus

aus der Luft um dich und den Baum

(GW I, p. 282)

Die Silbermünze auf deiner Zunge schmilzt, 

sie schmeckt nach Morgen, nach Immer 

(GW I, p. 284)

von meinem Herzgroschen laut

(GW II, p. 60)

Unfrist und Frist

münzen einander zutode,

die Taler, die Groschen

regnen dir hart durch die Poren

(GW II, p. 61)

Da: der zerbissene

Ewigkeitsgroschen, zu uns

heraufgespien durch die Maschen

(GW II, p. 85)

freudig zerbeiss ich

das münzenkernige Schicksal

GW II, p. 274)

mit ihrem Traum 

streich über die 

ausgemünzte 

Schläfenbeinschuppe

 (GW II, p. 322)

 

 

La relazione fra moneta e corpo provoca una serie di legami incrociati: come la moneta, che non conosce più né alcuna immagine né alcuna scritta, anche il corpo umano è ridotto alle funzioni elementari ed è appena in grado di parlare ancora; come la moneta esposta al morso, che si piega, «si fonde», il corpo umano si scioglie, e noi ci imbattiamo ormai soltanto in isolate funzioni corporee. Moneta, parola e corpo appartengono dunque ad un solo e medesimo ambito, quello della decomposizione di ciò che era interconnesso. Questa tendenza allo scioglimento che accompagna la poesia di Celan trova la sua espressione ironico-sarcastica nel rinvio a simboli religiosi, i quali, dove compaiano, vengono sempre posti in dubbio. Il soldo «spezzato coi denti» che rimane come resto, e che oltre a ciò porta anche con sé la ferita dell’enjambement, informa, nel segno religioso-pervertito della moneta, di come sia crollata la rappresentazione di un al di là.

Il luogo in cui nell’io tutto rovina è il sogno, o l’incubo, la camera oscura del melanconico, l’ambito di una eternità negativa, in cui le funzioni corporee giocano contemporaneamente un ruolo centrale. La moneta, senza immagine, senza indicazione di valore, senza reale sostanza e senza peso, è così divenuta simbolo negativo, denaro d’avanzo; essa è negativa non più come similitudine, bensì come materia che penetra nel corpo «attraverso i pori» (GW II, p. 61). Ciò che il segno moneta e i segni tutti in Celan vogliono significare non è più merce di scambio – cosa che presupporrebbe un orizzonte di comunicazione, una referenza sicura –, ma riguarda direttamente l’interiorità di un soggetto, che sogna, ricorda e soffre.

 

[trad. F. Gonnelli - M. Formica]


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