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Lo spazio della città nell’immaginario medievale
di Paul Zumthor

«È a buon diritto che viene chiamata la Città d’Oro quella città che si eleva nella sua saldezza inespugnabile […]». Si esprime così, nel suo elogio di Besançon, un oscuro agiografo della fine del X secolo. Il testo si prolunga abbondantemente, assai preciso nella sua descrizione del sito (fiume, montagna), fra i più vaghi invece per ciò che riguarda la città stessa: veniamo a sapere solamente che la sua gloria passata (attenendoci ai suoi fondatori) fu immensa; che è ben fortificata naturalmente, benché le sue antiche mura siano in rovina; che vi si accede attraverso un largo ponte e che conserva le reliquie di santo Stefano. Se quest’ultimo dettaglio e, in misura minore, la descrizione topografica non ne confermassero l’identità, il testo potrebbe riferirsi a una qualunque di quelle città romane in rovina che punteggiavano allora i territori franchi. La retorica (come d’altronde è normale nella penna di un chierico latineggiante) segue, non senza approssimazione, le regole abituali della laudatio: l’oggetto è in seguito considerato dal punto di vista della persona (qui, i fondatori), dell’epoca, dei suoi analoghi (Besançon è “la più illustre”…), del suo nome, della sua posizione e del suo materiale. Uno spazio è così sommariamente delimitato: ma resta press’ a poco vuoto. Tre tratti solamente vi suggeriscono una presenza: il ponte per il quale si entra nella città, la muraglia che la chiude e le reliquie che la santificano. Una bella natura «profumata dalla dolcezza di erbe odorose» circonda dall’esterno questo spazio. Questi tratti, più o meno sviluppati, si manterranno per secoli nella tradizione letteraria e (cosa più strana ai nostri occhi) storiografica, venendo a formare il nucleo attorno al quale si organizzerà ogni descriptio civitatis, ma al quale spesso questa si limiterà. Cento anni dopo il nostro anonimo, il cronista Sigeberto di Gembloux, descrivendo con identico fervore la città di Metz, ne loda i dintorni fertili, il luogo piacevole, le mura formidabili, i fossati, le alte torri, le quattro porte monumentali e, in termini astratti e generali, l’abbondanza dei beni, la ricchezza e bellezza. Le chiese vi sono numerose, assicura, il clero esemplare e le case paragonabili ai palazzi romani. L’amplificatio si riduce a ben poca cosa: una serie di iperboli che incorniciano e rivestono uno schema passe-partout.

Non è mia intenzione ripetere qui ciò che, in un passato molto prossimo, hanno eccellentemente scritto della città medievale Jacques Le Goff e Chiara Frugoni, Enrico Guidoni e gli autori del primo numero della rivista “Razo”. Intendo piuttosto (sulla linea dei miei precedenti lavori) interrogare la natura e il funzionamento di ciò che ci appare come uno “stereotipo”. Non userò tuttavia quest’ultimo termine, preferendo parlare (in riferimento al mio Essai de poétique médiévale, ma cercando di approfondirne l’idea) di tipo. Un tipo è per me, lo ricordo, un insieme di frammenti descrittivi, almeno in parte fissi, per mezzo dei quali, attraverso i quali e (tanto più col passare del tempo) malgrado i quali si costituisce nella lingua (o, come vedremo, nel disegno) ogni rappresentazione della ‘realtà’.

Nel discorso, nel testo (che sia o non sia letterario), nella rappresentazione pittorica, il tipo si concretizza in immagine (impiego la parola in questa precisa accezione) grazie a diverse figure di stile, così come, talvolta, per allusione a qualche dettaglio, ai nostri occhi “vero”, ma che dipende più da una retorica della persuasio che da una volontà di far vedere. È notevole (anche se questa tecnica d’espressione si ritrova in più settori del discorso medievale) che la maggior parte delle nostre descriptiones civitatis fino al XV secolo costruiscano l’immagine per accumulazione di aggettivi iperbolici di senso indeterminato (grande, bello, il più … del mondo), in una sorta di balbettio che sembra suggerire come questo oggetto sia fuori dalla portata della lingua: nella sfera del meraviglioso.

Ho analizzato, a titolo di sondaggio, una ventina di descrizioni di città, in latino e in lingua volgare, tra il XII e XV secolo. La maggior parte delle più antiche (fin verso il 1200-1220) si limita all’enumerazione elogiativa degli indici tipici di potenza: alte mura di bella pietra dura, porta fortificata, chiese con i loro campanili, palazzi e torri, ricchezza degli abitanti e, spesso, amenità della campagna circostante. Così – a rapidi tratti – ottenendo piuttosto un’espansione del nome della città che non una descrizione formale: Metz nella Chanson d ’Hervis; Nîmes, in brani slegati in una mezza dozzina di frammenti di Charroi e all’inizio della Prise d’Orange; Orange, nello stesso poema, sparsa nei frammenti da 7 a 15 e ancora da 24 a 56; Toul, nell’Escoufle di Jean Renart, ai versi 43472-43489; Costantinopoli, nelle Mémoires di Villehardouin; le città fittizie di Maria di Francia, in Yonec o Laostic. Benedetto di Sainte-Maure sviluppa gli stessi tratti tipici quando ai versi 3000 e seguenti del suo romanzo descrive Troia restaurata. La Cartagine di Virgilio gli è forse servita da modello; ma non è solamente il tema del suo racconto che lo conduce a consacrare alle fortificazioni della città 136 versi su 170! Nella Divina Commedia, Bologna (Inf. XXXI) è indicata con il nome della sua torre più alta; Firenze (Par. XV e XVI) con le sue mura, le sue porte, il suo ponte.

 Sembra che tali testi evitino il dettaglio concreto. In realtà, il dettaglio si sottrae a un linguaggio dalle tradizioni formali molto forti: per colpa dei luoghi comuni appropriati, i ‘luoghi’ reali non entrano più nella retorica! Dopo la conquista del 1204, Roberto di Clari, che aveva subito lo choc della scoperta di Costantinopoli, consacra non meno di 12 capitoli della sua Storia a descrivere questa città immensa, le cui bellezze sfidano la sua immaginazione di piccolo cavaliere di Francia. Ciò che vedono i suoi occhi meravigliati è ben reale: ma soprattutto Costantinopoli dà vita e valore a un sogno; dà verità alle metafore con le quali da secoli, a forza di leggende, un Occidente ancora ripiegato su se stesso tentava di dar senso alle idee di ricchezza e di potenza. Senza dubbio è sulla spinta di un simile sentimento che un chierico dell’ambasciata inviata nel 1292 dal re d’Inghilterra si permetterà di giocare con il nome della città, che interpreterà in Constantinus Nobilis! Ora, Roberto non si allontana dal quadro tipico della descriptio tranne che in un punto, la sua insistenza a citare la lunghezza della cerchia di mura, di cui fornisce persino l’esatta misura: otto leghe, cifra appena verosimile per un occidentale e che appare, nel contesto, più come una figura a forte valore affettivo che come un’indicazione concreta. La maggior parte della descrizione si concentra su oggetti, edifici o opere d’arte, considerati successivamente e separatamente gli uni dalle altre; le parole meraviglia e magia si richiamano in Leitmotiv, stesso effetto.

A più riprese Roberto segnala ‘il gran numero’ di uomini e di donne, trentaduemila, egli dice, preti e religiosi! È qui un elemento, dell’immagine costruita, che dà forma al tratto tipico ‘potenza e ricchezza’ dello spazio designato dalle otto leghe di mura. Questa forma di concretizzazione è così frequente che costituisce uno dei caratteri costanti della tradizione: folla nelle strade di Orange (Chanson de la Prise); cambia-valute, mercanti di selvaggina e di spezie, nobili giocatori di scacchi in quelle di Metz, secondo il Galeran; borghesi ospitali nella città immaginaria di Eliduc: cambiavalute (ancora loro!), orefici, vari artigiani nella città dove, nel Conte du Graal, Gauvain si trova alle prese con il comune in rivolta: scena illustre, di vigore e di verità evidente, così eccezionali in questa letteratura, che il buon gusto, il pudore o il pregiudizio obbligarono il copista Guyot a censurarla nel testo che copiò verso il 1220. Sembra che l’esistenza e il modo di vita dei cittadini colpiscano l’immaginazione dei romanzieri e dei poeti (legati alla classe aristocratica) più che non gli aspetti materiali del loro ambiente naturale. L’epopea di Renaut de Montauban (verso il 1200), raccontando la fondazione di questa città (allora di appena una cinquantina d’anni), mentre descrive in poche parole le possenti mura, le loro porte, i palazzi di pietra cementata e il sito, precisa invece che i cinquecento borghesi si raggruppano in cinque corporazioni di mestieri di cento uomini ciascuna (numeri significativi!): pescatori, mercanti, fornai, macellai e osti…

Il discorso che tengono i poeti su questa umanità urbana fa parte dell’iperbole globale. Insegna che questo frammento di spazio, la città, si definisce in termini che implicano in modo essenziale la presenza dell’uomo. Alcuni testi suggeriscono che questo spazio favorisca o determini, unico fra tutti gli spazi, l’esercizio delle funzioni necessarie al benessere, se non alla salute collettiva: quelle stesse che noi chiameremmo economiche, ma che allora erano designate semplicisticamente come scambio di beni e manipolazione monetaria, producendo, l’uno e l’altra (per quale magia più o meno sospetta?) l’abbondanza. Così nella Nîmes dello Charroi, così nella città del Conte du Graal. Ancora alla fine del secolo Marco Polo, citando nel Divisament du monde le città dell’Asia centrale che egli attraversò, segue un piano descrittivo standard: ricchezza - grandezza - bellezza della città, il re che vi regna, le razze che vi abitano, la religione che vi si pratica, ciò che vi si costruisce e vi si vende. Quest’ultima voce è, senza dubbio, di gran lunga la più esplicita. La Bourges del re Claudas, nel Lancelot in prosa, è attorniata anch’essa da mura, al centro di un paesaggio verdeggiante, è munita di solide case ed è popolata da borghesi. Ma la narrazione, forse in chiave ironica, fa vedere prima di tutto l’ostacolo che un “duello” di strade oppone alla tecnica militare dei cavalieri: qui ancora, dunque, funzione umana, ma negativa ed opposta.

 Tutti i tratti evidenziati si ritrovano nella vibrante descrizione di Tolosa, sparsa ma onnipresente nella seconda parte della Chanson de la Croisade des Albigeois. L’autore, patriota tolosano e grande poeta, ha fatto della sua città, assediata e sul punto di cadere nelle mani dei Franchi, il personaggio centrale della sua epopea. Il quadro che egli ne abbozza rispetta la struttura del tipo: dintorni idilliaci, grandezza e bellezza, ponti e mura, porte e torri, chiese e palazzi; ma nella maggior parte di questi punti le informazioni si indirizzano tanto all’occhio quanto allo spirito: disegnano uno spazio visibile che non è solo il quadro di un’azione ma in qualche misura anche il generatore di questa, di modo che gli attori (numerosi, mostrati sotto diverse angolature e spesso denominati) sarebbero inconcepibili in un altro universo.

Tuttavia una tale particolarizzazione del tipo, una tale invasione della descriptio attraverso i dettagli, marcati dal sigillo dell’unicità, erano allora (siamo circa intorno al 1220) estremamente rare. Si rincontreranno sparsi qua e là nel corso del XIII secolo, specialmente presso i viaggiatori: così in Marco Polo, quando rievoca l’una o l’altra delle metropoli dove ha soggiornato e che ammira, come per esempio Chang-Tu. Così particolareggiata l'immagine non conserva nemmeno un’ossatura (se così posso dire) conforme allo schema generale dei discorsi sulla città, le divisioni e le parti imposte dal tipo. È vero che la sua realizzazione, via via che si avanza nell’epoca scolastica, ammette sempre di più annotazioni dirette, legate a percezioni individuali che non disturbano ormai più, e per tutti, la comprensione dei fatti e l’espressione di questa.

Se per qualche ragione succede che l’autore insista sul tratto ‘abitanti’ del tipo, e tocchi così la funzionalità sociale della città, allora si riafferma l’effetto particolareggiante. È questa senza dubbio una conseguenza della diffusione delle mentalità borghesi. Si sa che queste trionfano, prima che altrove, in Italia. Quando, nel 1330, Opicino de Canistris (strano cartografo, autore di svariati mappamondi simbolici) compone le Laudes di Pavia, la sua città natale, non si sottrae alla limitatezza e al rigore del tipo che nella descrizione dei lavori e delle feste dei suoi concittadini. Ma ancora alla fine del XV secolo il vecchio schema traspare in filigrana nella descrizione che Commynes fa di Venezia, dove fu ambasciatore: descrizione d’altra parte notevole per le informazioni precise, come il numero delle parrocchie, dei conventi ed anche delle barche sui canali! È così che, verso il 1500, si valuta lo spazio. Rimane il quadro generale: dintorni, fortificazioni (qui il mare), chiese, palazzi, bellezza degli edifici, ricchezza degli abitanti. Commynes ha visto questa città, ma è in parte per mezzo dei clichés tradizionali che ce lo dice e che, senza dubbio, l’ha percepita.

Le rappresentazioni grafiche e pittoriche della città, nel corso degli stessi secoli, testimoniano una simile evoluzione, tranne qualche differenza dovuta alla diversità delle tecniche e alla data generalmente più tarda dei documenti. Non insisto su questo punto e rinvio piuttosto al bel libro di Chiara Frugoni. Ho tuttavia fatto un rapido esame di una trentina di immagini fra l’inizio del XII secolo e la fine del XV, la maggior parte posteriori al 1400.

Le più antiche, come la Westminster o la Dinant della Tappezzeria di Bayeux, la Gerusalemme del portale di Beaulieu-sur-Dordogne o la Le Mans di una vetrata della cattedrale di Saint-Julien, raffigurano simbolicamente la città con un muro, una torre, una porta, le linee di qualche edificio elevato tra le quali l’occhio non percepisce alcun vuoto: così, ancora, l’Arezzo di Giotto in un affresco della basilica di Assisi. Quando, in un’epoca più recente, questa immagine quasi allegorica si amplifica e si esplicita, propone all’occhio quei medesimi tratti che i poeti suggerivano allo spirito: porte e baluardi, torri e campanili di chiese, alte navate e palazzi che emergono da questa massa; all’esterno, talvolta, un fiume e il suo ponte, una campagna fiorita, popolata di uomini al lavoro o al gioco. Così su più miniature dei Libri d’Ore del duca di Berry; così Colonia nel Martirio di Sant’Orsola al museo Wallraf della stessa città (verso il 1410) o, poco dopo, Rouen su un manoscritto dell’Etica di Aristotele; la Parigi delle Chroniques di Froissart, dominata dalla sagoma riconoscibile di Notre-Dame; persino, alla fine del secolo, la Bruges della Santa Caterina d’Alessandria del museo di Filadelfia, le cui chiese e la cui torre si stagliano su delle montagne verdeggianti. Il tipo pittorico non differisce da quello poetico: procede con le stesse strutture e associazioni di immagini. Ancora nel XVI secolo ci vorrà molto tempo per costruire le rappresentazioni di città sullo sfondo o nei margini di una scena principale, come nell’Assunzione di Patinir (del 1516), allo stesso museo di Filadelfia.

È non molto prima del XIV secolo, se non del XV, che lo sguardo dell’artista penetra lo spazio interiore recinto dalle mura: strade, facciate e soprattutto personaggi. Inquadratura dapprima dall’alto, al di sopra della linea della bastionata, come in quella miniatura dell’Historie de la belle Hélène di Jean Wauquelin, che mostra allo stesso tempo gli arcieri greci intenti ad avvicinare delle fortificazioni a Troia e i Troiani che, in un’ampia piazza, preparano la difesa. Poi lo sguardo penetra liberamente la massa e fissa l’immagine intraurbana; spesso si posa allora con un’estrema cura sulle forme architettoniche, sui motivi ornamentali, persino sull’abbigliamento umano. Sembra che sia sulla linea di questo interesse per resistenza cittadina o per il proprio pittoresco che la tradizione rappresentativa si sia progressivamente aperta ad una volontà di particolarizzazione. Del resto, parallelamente e in maniera analoga, la stessa evoluzione si disegna in poesia (così, in uno Charles d’Orléans): uno sbriciolamento dell’allegoria, progressivamente investita di elementi che in origine ne costituivano l’ornamento accessorio. Le due più antiche rappresentazioni “realiste” (o meglio, ‘fotografiche’?) dell’insieme di una città, a mia conoscenza, sono all’incirca contemporanee: la Ginevra della Pêche Miraculeuse di Konrad Witz e la Liegi vista dalla finestra della Madonna del Chancelier Rolin di Van Eyck. E siamo a metà del XV secolo.

 

A cosa si riferiscono queste rappresentazioni letterarie o grafiche? Un tipo, per quanto sia rigido, non può essere (se serve alla descrizione di un oggetto concreto) del tutto arbitrario. Di necessità riflette (in virtù dei legami funzionali che uniscono, nell’esperienza, il linguaggio e la vista) qualche aspetto o frammento delle cose viste: nominare o dipingere bastioni o cùspidi di chiesa non è in sé attività di fantasia. Si ripropone la domanda: da dove provengono dunque i vincoli che costituiscono il tipo come tale?

Nessuna percezione umana capta un reale ‘oggettivo’; le impressioni sensoriali passano attraverso il filtro di quegli schemi culturali radicati nelle profondità dell’inconscio collettivo che si trasformano molto lentamente nel corso della storia. Questi schemi esistono a due livelli: a quello, immediato e facilmente individuabile, di immagini-modelli; e a quello, nascosto se non represso, di archetipi, intendendo con questo delle figure dinamiche molto generali, adatte a prendere consistenza nei tipi e nelle immagini più diverse, a cui conferiscono la loro omogeneità e la loro energia espressiva.

 La percezione che l’uomo medievale ha della città, almeno fino al XIII secolo, è in parte determinata da tre modelli mitici, di cui le altre città del mondo non possono essere che l’approssimazione o la negazione: la Gerusalemme celeste, termine di piena beatitudine e, per questa stessa ragione, spesso rappresentata graficamente con un cerchio perfetto; Roma, sorgente dell’autorità e della conoscenza; Bisanzio, la meraviglia lontana. Da questi modelli scaturisce quella sfumatura diffusa di armonia, di disinvoltura e di sorprendente bellezza che connota la maggior parte delle descrizioni, se non l’intero genere, proprio dell’Italia, delle laudes civitatis.

Al di qua di questa trinità esemplare e, in parte, per mezzo di essa, agisce sulla percezione e sulla rappresentazione medievale della città una potente spinta archetipica che impone al pensiero e al linguaggio un piccolo numero di matrici formali che (attraverso molteplici mediazioni) determinano l’immaginazione e la parola.

Ne distinguo tre tratti, ciascuno dei quali e il loro insieme in rapporto all’esistenza dell’uomo:

• chiusura, dunque isolamento;

• solidità, dunque sicurezza;

• verticalità, dunque grandezza.

 

Questi tratti si amplificano e si diversificano nel tipo tradizionale. Ma la stessa immagine realizzata offre spesso qualche carattere che manifesta direttamente l’archetipo. Così, una forma generale arrotondata (o, al contrario, strettamente quadrangolare) evoca l’isolamento; lo splendore del materiale, la sicurezza. Quanto alla grandezza, che è espressa dalla verticalità, può essere messa in evidenza da un artificio grafico, distorsione delle linee e delle proporzioni o, nel linguaggio, per mezzo degli epiteti impiegati o attraverso un’esplicita indicazione di altezza. Molti pittori fanno risaltare la relativa statura degli edifici in rapporto al loro ambiente circostante. Questa iperbole visuale è tanto più significativa quanto più l'immagine rimane schematica; ma è d’uso abbastanza generico. Un bel manoscritto del XV secolo delle Chroniques de Saint-Denis rappresenta il patibolo di Montfaucon in una pittura strutturata per mezzo di un campo di tracciati verticali, paralleli, picche rizzate da gente d’armi, una severa fortezza, torri, campanili di una Parigi di fantasia, e i due ripiani delle forche sul loro rialto davanti alla porta, con il relativo carico di impiccati filiformi! Comunque appaia nella sua realtà empirica, la città è vista ed espressa in conformità a questa impressione ‘dominante’: alta come il cielo, potente e temibile come una volontà soprannaturale. Un avanti e indietro incessante conduce lo spirito, la lingua, il pennello dalla metafora al paragone e all’inverso nel seno dell’universale analogia. De similibus idem iudicium, recita il proverbio. L’autore della vecchia Chanson de Roland, citando la sola città della Spagna che ha osato sfidare l’Imperatore, vale a dire Saragozza, la situa (in disprezzo della verità geografica) sulla cima di una montagna! Città cattiva, città ribelle, Saragozza si eleva sulla terra, al di sopra di essa, come la Babele della Genesi.

Bisogna certamente tener presente la complessità del reale: la grandissima diversità di dimensione, di struttura, di ricchezza, di vitalità culturale delle città europee pre-moderne; le differenze talvolta notevoli nel ritmo della loro crescita; i cambiamenti che, con il tempo, minarono la stabilità del tipo e la composizione dell’immagine; un irresistibile slittamento verso una particolarizzazione più libera dagli impedimenti. I tratti archetipici restano tuttavia soggiacenti ad ogni raffigurazione urbana fin ben addentro al XVI secolo, talvolta combinati presso i pittori con un’estrema compattezza della visione: così nel Miracolo della Croce del Carpaccio, del 1494, o anche nella Presentazione del Tiziano nel 1535. Ciò che esprimono il tipo e le immagini che esso genera è che, nel seno di una creazione di cui le tradizioni ascetiche denunciano la debolezza e la fugacità, la città si pone solida e sicura. La sua centralità smentisce la selvatichezza – cioè la rusticità – del resto del mondo. Nel cuore di questo, è al tempo stesso spazio di immunità e luogo di potere. Questo è il messaggio che proclamano le sue mura merlate, le torri che le costellano, i campanili e il battifredo che le dominano, non meno che lo stato sociale che si sono conquistati i suoi borghesi.

Uno degli elementi portanti della mentalità medievale è l’acuta sensazione di una differenza fra lo spazio edificato e quello non edificato, la pietra o il legno lavorato e la bruta materia terrestre. Lo scarto è tanto più drammaticamente sentito quanto più il materiale utilizzato è duro: da qui senza dubbio la frequenza della menzione del marmo nelle nostre descrizioni di città! Infatti, verso la metà del XII secolo e tenendo conto delle variazioni regionali, l’aspetto delle città europee è fissato per lungo tempo: cinta di pietra, compatta (a dispetto di qualche terreno agricolo che ancora ospita), la città racchiude tra le sue mura, attorno ad una o due piazze destinate agli scambi sociali, un complesso insieme di strade funzionalmente differenziate (come testimonia nel XIII secolo il Dit des rues de Paris), quasi sempre torte: atte a tagliare il vento ma a scapito della luce; strade imbrattate d’immondizie e dove si ammassa una densa popolazione, eterogenea e pronta a rivoltarsi contro l’ordine delle cose. Tuttavia la città appare anche come un luogo di distrazione forse facile, di eccitazione per lo spirito e per i sensi, di riuscita economica: preda di cui sogna l’uomo di guerra. Questi contrasti rivelano o provocano tra gli uomini, ma anche tra loro e gli oggetti, delle relazioni radicalmente diverse da quelle che esistono altrove: esse, sviluppandosi, producono uno spazio totale che articola la città viva sulla città di pietra e viceversa, anche in virtù delle spinte della verticalità che distingue e degli slittamenti dell’orizzontalità che unisce; spazio stratificato che garantisce una circolazione di vita tra i quartieri, ciascuno dei quali ha le sue grida, i suoi odori, le sue insegne, i suoi costumi, le sue feste; tra i gruppi familiari, professionali, etnici, legati dalle loro solidarietà e corporazioni, le loro confraternite, le loro associazioni di vicinato e mutuo soccorso, cellule viventi della collettività. Dispersione apparente di cui l’uomo di allora comprendeva senza difficoltà l’espressione di unità organica e ricchezza affettiva: Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi, verso il 1230, definiva nel suo De universo la città come la coincidenza di un solo popolo e di uno stesso luogo, destinata a preservare l’uomo dal destino delle bestie brute, fra tanti oggetti di legno, di pietra e di metallo lavorati dalla sua operosità grazie ai talenti disposti in lui da Dio e resi fruttuosi nell’ambito di un Ordine provvidenziale. Tutto è detto in poche parole in questo testo recentemente scoperto e commentato da Jacques Le Goff. Sessant’anni dopo, il musicista Jean de Grouchy elogia i cantori epici, attorno ai quali i Parigini si raccolgono la sera nei crocevia, perché così lavorano ad conservationem civitatis. In un simile registro non è forse questo che significano a modo loro i campanili delle chiese che (ancora a lungo dopo la diffusione, nel XV secolo, degli orologi pubblici) ritmano con rumore e approssimazione lo scorrere del tempo comune? non è questo che significa alla lettera la strada stessa, accessibile a tutti, spazio di incontro e di convivialità, spettacolo permanente, luogo dei riti che cementano questi legami, schiamazzi o carnevale, processioni, misteri o Entrées del re?

Al centro della città, non meno che in tutte le sue parti, la Chiesa (grazie alla rete delle parrocchie) assicura una presenza autoritaria e protettrice. Tuttavia la sua tradizione, nella misura in cui la ispirano i testi dell’Antico Testamento e un antico ideale eremitico, mantiene a lungo presso alcuni clerici un’ostilità di principio nei confronti dell’ambiente urbano. Secondo la Genesi, il fondatore della prima delle città non fu altro che Caino. Ancora in Dante, la sola città che la Commedia descrive compiutamente (e nei termini tipici: mura e fossato, torri e porta) è Dite, la Città degli Eretici nel sesto girone dell’Inferno! Situazione più o meno ambigua. La chiesa è spesso il solo edificio urbano adatto a contenere una folla. Lì ci si riunisce, vi risiede il tribunale; vi si passeggia bighellonando; vi si persegue un intrigo galante, come Guglielmo de Nevers in Flamenca. Molteplici città della Francia, e non delle minori, come Bordeaux, vi riuniscono, per mancanza del palazzo municipale, lo scabinato.

 Dopo il 1200, la presa di coscienza operata dalle prime generazioni di monaci mendicanti centrerà nuovamente sulla città (sentita come il motore e lo strumento del potere) lo sforzo di rinnovamento del Cristianesimo. Alla stessa epoca in Francia, in Italia e in Inghilterra si costituiscono le università, dove si introducono subito questi nuovi arrivati: istituzioni cittadine la cui comparsa, più che ogni altra novità, dovette modificare l’aspetto delle città che le ospitarono - quindici nel 1300, cinque volte di più, dalla Spagna alla Polonia, all’alba del XVI secolo. Dispute dottrinali, odi e lotte d’interessi tra i maestri, testimoniate da un’abbondante letteratura (così il Dit de l’université di Rutebeuf, nel 1268); fluidità di una popolazione studentesca di tutte le origini, di tutte le lingue, che importa le sue abitudini straniere ma senza intenzione di stabilirsi definitivamente, talvolta seminomade, che vive di mezzi più o meno sospetti agli occhi dei borghesi, da cui scaturiscono conflitti, inevitabile delinquenza, corruzione dei venerabili costumi: ciò che evocherà la poesia di Villon, conoscitore e pittore geniale (chiunque egli sia personalmente stato) della sua Parigi, città di sapere, di derisione e di crimine.

Siamo circa a metà del XV secolo. Un orecchio attento potrebbe cogliere i primi scricchiolii di incrinatura nella chiusura della città, i primi indizi della fine del suo isolamento. Tuttavia né l’una né l’altro hanno cessato di condizionare lo sguardo e i discorsi appuntati su di essa. Le legislazioni municipali, un po’ in tutta Europa, ne implicano la persistente validità nello spirito dei magistrati. Il bastione, anche se l’artiglieria gli ha fatto perdere molto del suo valore militare, rimane l’emblema della città, che lo inscrive nel suo stemma. Più che mai ha per funzione di separare e di determinare, nella distesa apparentemente illimitata della terra, un luogo o un piccolo insieme di luoghi concatenati o congiunti. Di lì il bastione divide tra gli uomini: quelli all’interno formano una società distinta, dalle attività di difficile immaginabilità per coloro che sono all’esterno, oggetto di invidia o vituperio. In tutte le lingue dell’Occidente un vocabolario specifico designa da secoli queste differenze: così, in francese, borghese contro contadino o, in un linguaggio umanista (in uso dopo il VI secolo in paese franco), urbanitas contro rusticitas. Jacques Le Goff ha mostrato che tali opposizioni hanno avuto una parte nell’elaborazione del pensiero scolastico. Anche se è impossibile da concepire altrimenti che come un tutto, la città, nella sua chiusura, ritrova presso un Guglielmo d’Alvernia, un Tommaso d’Aquino, un Egidio Romano – qualcosa dei caratteri e delle funzioni della polis greca. Era proprio dell’Italia ‘politicizzare’ in pratica le sue città: in Francia la monarchia lo impedì.

La città è messa da parte, come indica la sua muraglia. Esiste in quanto frutto di un lavoro, di scambi e di trasformazioni imposte all’ambiente naturale, come simboleggia la sua porta, di volta in volta chiusa e aperta (ma dall’interno). Infine è orientata da un disegno spirituale, allegoricamente espresso dalle chiese nel suo seno. Queste tre caratteristiche non sono forse quelle stesse che fissa il tipo della descriptio? D’altra parte corrispondono alle tre funzioni urbane che altrove distingueva Jaques Le Goff: politica, economica, religiosa. Da cui una gerarchizzazione (sempre più rigida via via che si rendono sempre più complesse queste funzioni) degli uomini raccolti nella città. La quale, certamente, accetta e protegge i suoi minores, fintanto che questi restano sottomessi e operano secondo il suo ordine. Ma il limite del tollerabile è sfocato e numerosi di quelli che vivono ai margini gironzolano intra muros, posti, dopo almeno la metà del XIII secolo, sotto costante sorveglianza della polizia: prostitute, indispensabili al mantenimento della tranquillità urbana, ma sottoposte a diverse costrizioni; vagabondi, mendicanti, accattoni di ogni specie sui quali la forza pubblica mantiene uno sguardo poco tenero e di cui i soli luoghi fissi e conosciuti sono la gogna eretta nella piazza, la prigione e (a qualche distanza dalla porta, per edificazione generale) la forca. Il Testament di Villon, dove si intravede tra le righe questa miserabile folla brulicante in mezzo ai rispettabili borghesi, ai sergenti dello Châtelet e ai giudici, dipinge in maniera sconvolgente ciò che appariva al poeta come il destino delle nostre città.

Tuttavia, vista dal di fuori, la città suscita sospetto, ostilità o bramosia, sentimenti rivelatori di una alterità mal riducibile. La città ritaglia, nell’universo del contadino e in quello del cavaliere, un recinto che li esclude, restando al di fuori della loro portata. Succede, è vero, che qualche cavaliere abiti in città, come succede che dei contadini coltivino gli ultimi campi intraurbani. L’immagine globale della città non aggredisce meno coloro che non ne fanno parte.

La città è per loro il luogo febbrile dove tutto si crea, si progetta, da dove si propaga una vita inesauribile, dagli sbalzi imprevedibili. Per confronto, il cittadino appare ai loro occhi pieno di tempo libero; la città, guazzabuglio paradisiaco, sorgente di facile guadagno e di insidia. È ciò che testimonia, nel XIII e XIV secolo, la maggior parte delle antiche favole in versi composte, come sembra, per divertire i nobili mettendo in caricatura contadini e borghesi. Il quadro della narrazione vi è quasi sempre fissato in rapporto ad una città, di cui l’autore dà il nome: quest’ultimo emerge così dall’indeterminazione generale di luoghi come la sola realtà che lega l’uomo alla terra. L’effetto è tanto più forte in quanto questi testi non comprendono alcuna descriptio civitatis. Tuttavia, L’Asinaio (Le Vilain ânier) uno dei più brevi di questi, che inventa il tema comico del contadino smarrito nella grande città, evoca Montpellier proprio coi colori che vedono gli occhi dello sventurato: la strada, il suo rumore, i suoi odori, i suoi mercanti che chiamano a gran voce la clientela, i suoi curiosi ciarloni e burloni, il denaro che scorre, la calca… per concludere che, una volta nati nel letame, non se ne può uscire; che entrare nella città è cambiar natura.

 Nell’alto medioevo tutta la classe signorile europea non ha abbandonato la città; molti dei suoi membri (soprattutto in Italia e nella regione occitanica) vi conservano la loro abitazione, vi hanno costruito torri o fortezze. Nondimeno presso i nobili, nei confronti del mondo urbano, prevale un’opinione incerta e si afferma nel XII secolo a seconda che abbia la meglio l’attrattiva o la paura; la plebaglia spaventa, si avverte in essa una presenza invisibile e minacciosa. Il romanziere Jean Renart, scrivendo verso il 1200 per l’ambiente cortese del Nord della Francia dà, nell’Escoufle, un posto di rilievo alla città di Toul, la cui funzione narrativa nel corso del racconto è di rappresentare la tentazione più degradante per il cavaliere: quella dell’agio, della pigra comodità, in un luogo di abbondanza e di denaro, da cui è importante uscire per l’avventura, poiché costituisce la negazione stessa di ciò che dovrebbe essere un ‘campo di battaglia’.

Attraverso l’Europa intera, dalla fine dell’XI secolo, le dinastie attorno alle quali si costituiscono a poco a poco regni e principati territoriali si servono di questi contrasti e di queste paure. Essi vedono nelle città delle alleate contro la piccola e media feudalità. Ne consegue un’altra ambiguità: il re ama quelle che egli nomina le sue ‘buone città’, a patto di restarne palesemente il signore. Il romanzo in prosa Lancelot non cita meno di trenta città, in otto o nove delle quali il re Artù tiene successivamente la sua corte! Egli le onora, dunque; le promuove al rango dei luoghi degni della sua potenza e della sua giustizia, ma non si lega veramente ad alcuna di esse. Nella realtà di un esercizio sempre più dominatore del potere, a partire dal XIV secolo, i riti dell’Entrée del principe o del re nelle sue città non significano in realtà altro. Anticamente semplice esercizio del ‘diritto di asilo’, l’Entrée del Signore diventa allora un atto altamente simbolico. Assume la funzione delle feste pubbliche che magnificano il Principe e la sua Legittima Potestà e rigenerano la Città. I libri e i rendiconti conservatici esaltano queste figure allegoriche, il cui solenne corteo, di strada in strada fino alla cattedrale o al palazzo centrale, investe l’intero spazio della città, identificata con una visualizzazione dell’Ordine Politico.

Questo simbolismo aveva una tale presa sull’immaginazione e sui cuori che la tradizione delle Entrées si prolungò fin addentro l’epoca barocca. Vedremo allora un duca di Baviera, Guglielmo V, manifestare più sobriamente, ma in maniera quasi magica, la sua influenza sullo spazio urbano reale: ordina all’ebanista Jakob Sandtner, nel 1570, un bozzetto della città di Monaco; nel 1571 di Landshut; nel 1572 di Ingolstadt; nel 1574, di Berghausen! Lo spettacolo della città non dipende dalla sola visualità, coinvolge totalmente l’immaginario. Ecco perché, nel fondo (non necessariamente nascosto!) di tutto ciò che se ne intravede e che se ne dice, sussistono i resti delle forme arcaiche che non hanno affatto cessato di orientare lo sguardo e di fecondare il significato. Ricordo forse, sebbene molto scolorito, dell’antica coscienza dello spazio sacro: non sola superficie, ma volume vitale, generato dalla convergenza delle potenze infernali con quelle celesti.


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11 ottobre 2021
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8 ottobre 2021
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Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

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