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Il sonetto in India
di Arundhathi Subramaniam

(traduzione dall'inglese di Andrea Sirotti)


Sono molto perplessa su che tipo di tesi si possa sostenere circa la non ricorrenza del sonetto in ambito postcoloniale senza una buona dose di, diciamo, circonlocuzioni intellettuali! Mi sembra un tema uscito da un romanzo di David Lodge. Ma forse mi sbaglio. Quello che so è che per me, e per molti poeti della mia generazione, il verso libero è stata una decisione dettata in parte dalla scelta - la sensazione che la metrica avrebbe comportato un eccesso di formalismo e costrizione - e in parte, forse, dalla voga letteraria, che abbiamo assorbito attraverso le lezioni di poesia inglese o semplicemente attraverso l'ethos culturale prevalente.

So comunque di alcuni giovani poeti che si muovono verso forme metriche chiuse, e penso di riuscire a capire quell'impulso: è il tentativo di riconquistare un po' di quel rigore che penso dovrebbe essere sotteso a tutta la buona arte. Non che il verso libero sia «facile» - certamente no, e lo sappiamo anche troppo bene - ma il metro porta in sè un certo vigore formale, una certa autorevolezza, che può anche risultare attraente.

In India, la danza e la musica classiche sono ancora molto in voga, con tutte le loro «regole» metriche e sintattiche ed è solo nel campo delle arti visive letterarie e teatrali che gli idiomi modernisti prevalgono. A me è sempre sembrata una questione di temperamento creativo: o ti è più congeniale la creazione della tua libertà all'interno dei parametri di una forma (e ne vedo possibilità inesauribili nella nostra danza classica, nei «vocabolari», ad esempio) oppure sei più portato a creare la tua forma in situazione di libertà.

E' questa, ad esempio la posizione di molti di noi, ad esempio di Sujata Bhatt che ha recentemente dichiarato: «Mi piace che la poesia sviluppi la sua propria forma man mano che viene scritta - non viceversa» o di Meena Alexander: «certamente è una forma che porta il peso della classicità, ma nel sonetto c'è una meravigliosa tensione e fermezza». Molto spesso penso che una poesia che sia postcoloniale debba dolorosamente separarsi dalla forma, crearne o ricrearne una propria, a propria immagine, dove altri linguaggi, altri confini ostacolano e interferiscono. Così il sonetto è usato di rado. Per quanto mi riguarda, sento di aver bisogno di un verso più lungo e più libero, qualcosa di meno ortodosso. Mi piace l'idea di una forma organica che, come ne scrisse Coleridge, «si forma mentre si sviluppa da dentro e la pienezza del suo sviluppo è la perfezione della sua forma esteriore».

Certamente, c'è poi un caso a sè: è The Golden Gate di Vikram Seth. Si tratta di un romanzo in versi costituito da una sequenza di 590 perfetti sonetti elisabettiani pubblicato con grande successo in America nel 1986. Sono sonetti perfino i ringraziamenti, la dedica e la nota biografica. E un grande pezzo virtuosistico, scritto forse con un atteggiamento irriverente e spavaldo del tipo: «se vogliamo sappiamo farlo bene anche noi, se non meglio, quel tipo di cose!». Se ci pensiamo è davvero un'impresa strabiliante. Mi ricordo di averlo rifiutato nei miei anni universitari come un esempio di mero tour de force stilistico o poco più, ma rileggendolo più recentemente, sono stata colpita dalla flessibilità e dalla plasticità della forma, almeno per come la sa usare lui. E anche se c'è sempre un certo «asse emotivo» che mi sfugge in quell'opera, ciò dipende da Seth e non certo dal sonetto.

 


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