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Francofonia, ‘créolité’ e situazione di diglossia: il caso della scrittura poetica
di Michela Landi 




Il fenomeno di una letteratura in francese fuori dai confini di Francia è stato per lungo tempo ignorato dagli abitanti dell’Esagono. Che non sembravano curarsi dei risvolti socio-antropologici del colonialismo. Seguendo la tendenza storica all’accentramento ideologico e culturale (quale si esercita anche, del resto, nei confronti della ‘provincia’ da parte dell’area parigina), la Francia tendeva a considerare propria ogni opera che fosse prodotta nella sua lingua; cosicché opere di autori come Jean-Jacques Rousseau (il quale faceva sempre seguire il suo nome dalla cittadinanza definendosi appunto «citoyen de Génève»), Leconte de Lisle o José Maria Heredia furono sempre ascritte alla produzione letteraria nazionale.

Un testo significativo, a testimoniare una prima pre- sa di coscienza della ‘diversità’ in epoca illuministica è quello di Rivarol il cui Discours sur l’universalité de la langue frangaise, del 1784, pur permeato di quella mentalità topocentrica che dai capetingi domina la cultura francese, non prescinde dalle varie specificità del fenomeno letterario francofono.

Il termine ‘francofonia’ fu coniato, a cavallo tra Otto e Novecento, da Onésime Réclus (France, Algérie et colonies) il quale propose la definizione tra virgolette per indicare un raggruppamento di paesi su base linguistica tenendo conto anche delle rispettive situazioni geografiche. André Wautier notò successivamente che il termine era improprio perché ‘phoné’ significa voce e non lingua. Si usò per un certo periodo (siamo negli anni ’50-’60) il termine ‘francité’ coniato da Jean-Marc Léger ma si tornò poi alla precedente designazione.

Al termine ‘francofonia’ si associa notoriamente quello di ‘négritude’, coniato questa volta da Aimé Césaire e poi criticato da molti, primo fra tutti Edouard Glissant (Eloge de la créolité): a suo avviso la definizione di ‘négritude’, oltreché caricarsi di risvolti tendenziosi in un periodo in cui la questione razziale risultava particolarmente delicata, è estremamente generaliz- zante e non tiene conto delle altre varietà culturali di espressione francese.

A prescindere dagli altri paesi europei (Svizzera, Belgio, Lussemburgo), lo spazio ‘geotropico’ della francofonia è tra i più vasti e disparati, estendendosi dal Québec e dal New Brunswick canadese (dove vi è una non trascurabile comunità francofona) al Medio ed Estremo Oriente (Libano, Egitto, Cambogia, Vietnam); dal Maghreb all’Africa Nera; e infine dalla Guiana francese alla Nuova Caledonia, alle Antille, alla Guadalupa, alle isole dell’Oceano Indiano (Madagascar e mascaregne), ovvero i territori del DOM-TOM (Départements et territoires d’Òutre-mer).

Se vi è un principio di fondo che accomuna tutti i paesi francofoni è senz’altro il rifiuto dell’accentramento ideologico culturale operato dalla Francia (da Parigi).

Un evento decisivo per l’acquisizione di una co- scienza autonoma da parte degli scrittori di lingua francese è sicuramente quella dell’incontro del 1929, all’università di Parigi, tra il senegalese Léopold Sedar Senghor e l’antillano Aimé Césaire. Essi riconoscono una comune volontà, quella di distruggere l’immagine del negro creata dall’esotismo di paccottiglia di tanta letteratura francese di Francia e non (pensiamo a certe rappresentazioni del Paul et Vìrginie di Bernardin de Saint-Pierre (originario dell’Isola Bourbon, oggi Réunion), di Leconte de Lisle, di Pierre Loti) quale venne poi riconfermata da un’Esposizione coloniale dell’epo- ca. I due fondano una rivista, «L’étudiant noir» che agisce ai margini della cultura ufficiale. Il riconoscimento letterario parigino giunge loro nel 1947 con la nascita della rivista «Présence africaine», alla quale collaborano anche i massimi esponenti della cultura francese dell’epoca: Gide, Leiris, Camus, Sartre, Paulhan.

Nel 1958 si assiste alla nascita del «Parti du regroupement africain» (PRA) e con il Referendum del 28 settembre di quell’anno Senghor proclama la nascita della Comunità Francofona con il diritto di autodeterminazione per i paesi d’oltremare.

Dal 1954 al ’62 la maggior parte degli stati acquistano l’indipendenza: nel ’54 il Vietnam, la Cambogia, il Laos; nel ’56 il Marocco e la Tunisia; nel ’58 la Guinea; nel ’60 il Togo, il Cameroun, il Madagascar; infine, nel ’62, col trattato di Evian, si ha l’indipendenza dell’Algeria. Intanto in Canada si moltiplicano i movimenti studenteschi per la liberazione del Québec. De Gaulle, notoriamente anglofobo (a causa delle umiliazioni subite dagli americani) coglie l’occasione e si reca in Canada nel 1967 assumendo il Québec sotto la protezione francese, con il primo ministro Jean Lesage.

Il primo vertice ufficiale sulla Francofonia si è tenuto nel febbraio 1986 a Parigi con Mitterrand. L’anno successivo un nuovo vertice ebbe luogo in Québec. L’ultimo è quello del 1997.

Il fenomeno più specifico della «créolité» interessa, insieme alle Antille (dove si registra la variante più pura del creolo) e alla Guyana, il Madagascar e le isole mascaregne (Maurice e Réunion, già Bourbon, in cui si attesta invece una variante meno pura). La lingua creola deriva dal ‘pidgin’, lingua minima di scambio tra padroni e schiavi; essa, prevalentemente costruita sul francese orale (di cui segue la morfologia, mentre la scrittura riproduce la fonetica, che si è frattanto arricchita di nuovi suoni) è caratterizzata per il resto da un insieme eterogeneo di influenze linguistiche: da quelle indiane a quelle dei vari dialetti africani. Per questa ragione si rilevano sensibili variazioni anche sulle diverse zone di uno stesso territorio.

Quella dell’isola Maurice (‘Mauritius’), patria di E. Maunick, è, come si è detto, tra le varietà più promiscue di creolo; vi si registrano, fra l’altro, almeno diciassette lingue d’uso, di cui sette importanti come il francese, l’inglese, il cinese e alcune lingue indiane. Ciò è dovuto sia al carattere peculiare che qui assume il fenomeno dell’insularità favorendo la cultura autoctona, sia all’epoca remota della colonizzazione, cui si aggiunge una forte emergenza, a partire dal Settecento, di una cultura creola autoctona favorita dalla costituzione di varie case editrici autonome.

Maurice raggiunse infatti l’autonomia dalla Francia nel 1810, diventando colonia inglese e ottenendo l’indipendenza nel 1968. Ma il francese era già divenuta la lingua primaria anche se non quella ufficiale: dopo la dominazione britannica l’aristocrazia bianca proclamò con determinazione la propria appartenenza culturale alla Francia (i cosiddetti ‘franco-mauriciens’) nonostante dal 1960 si assistesse ad un incremento di produzione letteraria anglofona e hindi. Il definitivo riconoscimento della cultura mauriziana in Francia, dopo il successo di Malcolm de Chazal tanto ama- to dai surrealisti, è siglato nel 1945, quando l’isolano Loys Masson, giunto in madrepatria nel 1939 viene nominato, dopo aver partecipato alla «resistenza dei poeti», segretario generale del «Comité National des Ecrivains», organismo volto a incentivare la produzione letteraria francese dopo la Liberazione. Nel 1985, Le Clézio rivendica, nel momento di maggior successo, l’appartenenza alla cultura mauriziana nel suo romanzo Le chercheur d’or.

L’immaginario collettivo di Maurice è fortemente caratterizzato dalla convinzione che l’isola sia il vestigio di un continente scomparso: la Lemuria preistorica, di cui resterebbero templi intagliati dai giganti. Vi è, nella letteratura mauriziana, una forte impronta di mistero e magia, notoriamente evocata al massimo grado nella prima metà del nostro secolo da R. E. Hart. (Poèmes védiques, del 1941). Attraverso la lettura delle montagne si coglie infatti l’analogia universale della natura; un’armonia cosmica che già Bernardin de St.-Pierre aveva reso nota con Les harmonies de la nature e che, più recentemente, ha analizzato J.Georges Prosper (Apocalypse mauricienne, 1964).

È particolarmente significativo, nelle isole mascaregne, quel fenomeno che i linguisti, con Ferguson, definiscono ‘diglossia’, ovvero la coesistenza inegualitaria tra due lingue in una comunità. Tale dissimmetria tra la lingua dei dominatori e quella del popolo dominato causa un conflitto di carattere socio-culturale e socio- politico che si riflette sulla soggettività dello scrittore il quale, secondo R.Lafont, assume due atteggiamenti opposti: quello di ridurre il disagio dovuto all’abbandono della lingua materna e quello, polemico, di mettere in evidenza la situazione minoritaria della stessa evidenziandone anche, ironicamente, gli aspetti folkloristici. Sul piano linguistico si ha, secondo R. Lafont, o un’enfasi dell’identità acquisita (che si manifesta nella lingua con un «purismo di rafforzamento», un ipercorrettismo della lingua acquisita) o una esibizione della differenza, per cui il creolo di riferimento è estremamente basilettale (cioè quanto più possibile legato alla lingua orale e popolare e distante dal francese) oppure il francese è impuro e creolizzato. Si ha spesso una sorta di produzione ‘isterica’, una «iperletteratura», come scrive Lafont, per cui si assiste alla poetica di una «naturalezza elaborata» effetto della diglossia; o anche, per dirlo con Pierre Cellier, alla spettacolarizzazione di un «investimento del soggetto della scrittura nello spazio diglossico della letterarietà.»

In tal caso la poesia, spazio soggettivo – ludico, idiolettale – del dramma diglossico in cui la parole invade la langue (l’aspetto sociale della comunicazione) rappresenta proprio, come gioco metalinguistico, un ripiegamento della duplice istanza metaforica della lingua sul soggetto stesso, il quale, tra «lingua perduta» e «parola inaudita», scava uno spazio della significazione avulso da implicazioni socio-culturali e socio-linguistiche pur denunciando indirettamente la sua marginalità. In definitiva la poesia, preservando il soggetto dalla necessità di adottare un ‘comportamento culturale’ che è quello legato all’uso della lingua scelta, lo proietta in uno spazio anteriore alla scrittura (intesa appunto come ‘atto sociale’), che è quello dell’«oralità» dove la funzione poetica è, per dirlo con Jakobson, strettamente legata alla funzione conativa del linguaggio. Attraverso questa strategia di scrittura, che annulla il tempo di ricezione, «creolità» e «poeticità» sono ad un tempo conservate e rivendicate come spazio privato della comunicazione.

Entro la cornice idiolettale della scrittura poetica si rappresenta in modo peculiare il dramma diglossico nei suoi risvolti intimi; laddove la lingua adottata (veicolare, sociale) riproduce la dimensione storico-geografica (il campo di battaglia) in cui si consumano i conflitti delle conquiste coloniali, la lingua apparentemente abbandonata (nella sua componente orale, privata che è quella ritmico-segnica) costruisce un senso nel senso e lavora sotto il testo come taciuta, dolorosa acquisizione di un’identità culturale-altra.

«Quand j’écris dans une langue – nota uno scrittore francofono – l’autre langue dans la première se réserve: elle y travaille quelque part, délibérément et à mon insu. La présence de la langue absente, dans la langue où j’écris, peut au reste ordonner une poétique» [Quando scrivo in una lingua, l’altra lingua nella prima si conserva: vi lavora da qualche parte, deliberatamente e a mia insaputa. La presenza della lingua assente, nella lingua in cui scrivo, può, del resto, or- dinare una poetica]. Secondo Edouard Glissant, ad esempio, la poetica del creolo si fonda sul «détour»: non sull’economia lineare della frase, sulla concisione e la chiarezza (secondo il genio del francese) ma sul gusto della parafrasi e dell’iperbole, dell’accumulazione e della ridondanza. Il creolo, secondo Glissant, non va direttamente alle cose ma tenta di avvilupparle nella sinuosità delle metafore e nel gioco delle ripetizioni. Si crea così una lingua nella lingua e si ritaglia all’interno delle capacità espressive concesse dal francese uno statuto linguistico autonomo attraverso cui l’autore riscatta in qualche modo il fatto «di essere stato scelto».

È ricorrente, tra gli scrittori francofoni, il tema dell’adozione reciproca tra la lingua e l’autore; ma ancor più ricorrente è quello del «sentirsi scelti»; di essere non gli artefici della propria cultura ma il prodotto di una cultura-altra che li trascende e li ingloba loro malgrado. L’haitiano Jean-Claude Charles scrive: «Je n’ai pas choisi la langue française, elle m’a choisi» [Non ho scelto la lingua francese; essa mi ha scelto]. In molti casi, è la lingua che sceglie lo scrittore piuttosto che il contrario; ma è proprio attraverso una «impurità fondante», secondo la definizione di Michel Tétu, che il francese dei francofoni acquista, nel suo specifico, l’universalità. Il fatto di sentirsi scelti assurge a fondamento di un’originalità, di una forza espressiva peculiare che, radicata in un suolo dove non cresce spontanea, testimonia del processo di adattamento che una lingua, materia vivente, subisce se costretta in un nuovo habitat.

È ovvio che, laddove il testo originale sia prodotto in situazione di diglossia, il traduttore dovrà affrontare una ulteriore difficoltà che è quella di mettere in contatto tre lingue, tre culture. Oltre a dover assimilare nella lingua di arrivo un’esperienza culturale-altra che è quella «straniera», dovrà assimilare il sostrato, più o meno emergente ma pur sempre vivo, di una parola che, latente, «ordina una poetica»; altera la sintassi, suggerisce più o meno opinatamente in un autore la scelta di alcuni lemmi piuttosto che altri in quanto capaci di richiamare semanticamente o fonicamente termini della lingua originaria, muta la forma metrica sulla base di ritmi di danze o filastrocche popolari. Essere traduttori di questa poesia significa insomma riuscire in primo luogo a cogliere e trasmettere nel lettore ‘la couleur locale’ di una lingua spuria, di una «impureté fondatrice» testimone, più d’ogni altra, di una specificità culturale.


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