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VÉNUS KHOURY-GHATA, Quelle est la nuit parmi les nuits, Paris, Mercure de France 2004, pp. 133.

Vénus Khoury-Ghata è una delle grandi voci della poesia francofona contemporanea. Di origine libanese, vive da vari decenni in Francia, ma ha serbato nella sua poesia la memoria di quel mondo mediterraneo e mediorientale così sapido d’aromi e colori e d’una parola antichissima e sapienziale, quella che scandisce il verso ritmico e lungo della sua phonè. Di rado mi è capitato di leggere testi altrettanto capaci di restituire la coralità di una comunità, di un mondo umano e naturale colto in una dimensione nel contempo collettiva e individuale, avvolto in una sfera mitica e ancestrale. In questo volume lo si avverte ad ogni pagina, ma con particolare energia nell’ampio poema d’apertura Orties, nel quale la figura struggente di una madre morta che affiora «personaggio» dalla pagina diviene presenza che catalizza altre voci, luoghi ed eventi del ciclo vitale dove «les hommes remplaçaient les arbres / les femmes étaient l’herbe [gli uomini prendevano il posto degli alberi / le donne erano l’erba], p. 11». A questo poema fluviale che pur non tace i genocidi, la fame, l’animato errare della lingua da un idioma all’altro, nel segreto del verbo, tra cammellieri, muezzin, miraggi della Mecca e del deserto, fanno eco le misure più brevi e non per questo meno intense, semmai più dense e conchiuse, dei Poèmes suspendus, nei quali la natura pare un corpo vivo e dolente che parla dal testo, e il rito funebre e amoroso delle Inhumations, tali che «toute page entre ses mains se transforme en cerf-volant [ogni pagina tra le sue mani si trasforma in cervo volante], p. 75». Poesia di una ricchezza verbale e lessicale quasi sconcertante, che delinea anche in tal modo la melodia dell’arabesco barocco, la lirica di Vénus Khoury-Ghata pare rendere inaudito e primigenio ogni suo dire anche ricorrendo a sagaci paradossi fiabeschi quali «et pourquoi l’homme qui mangea du foin mordit un loup» [e perché l’uomo che mangiò del fieno morse un lupo], p. 114». Mondo celebrato, compianto e rinato da una sensibilità intimamente femminile e uterina, quella di un corpo-natura-matria terra che dà anima all’astratto, se «l’arbre se consume d’amour pour l’arbre absent [l’ombra si strugge d’amore per l’albero assente], p. 125».

 

Fabio Scotto


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