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LIONEL RAY, Comme un château défait suivi de Syllabes de sable. Préface de Olivier Barbarant, Paris, Gallimard (coll. «Poésie») 2004, pp. 325.
ID., Matière de nuit suivi de Éloge de l’éphémère, Paris, Gallimard 2004, pp. 176.

 

Poeta fra i più noti e affermati dell’odierno panorama francese, Robert Lorho (1935) ha assunto lo pseudonimo di Lionel Ray a partire dal 1970, in occasione della pubblicazione da parte di Aragon di una scelta di sue nuove poesie ne «Les Lettres Françaises», dopo che già tre raccolte di suoi versi erano apparse firmate con il suo vero nome. Autore di una lirica particolarmente curata sul piano architettonico e progettuale, Ray ha attraversato esperienze avanguardistiche e sperimentali per poi fare ritorno ad un lirismo posttestualistico che si vuole conciliazione di esigenza formale e canto, come afferma Olivier Barbarant nella Prefazione a Comme un château défait, volume che consegna al grande pubblico della più nota e diffusa Collana transalpina due sue raccolte degli anni ’90. Vero nucleo tematico di Comme un château défait (1993) è l’interrogazione ontologica dell’io scrivente, qui per lo più distanziato tramite il costante ricorso al «tu» che proietta all’esterno del sé la materia poetica come osservandola da un margine appartato dal quale ascoltare «le silence / en toute voix [il silenzio / in ogni voce], p. 11». Una poesia dalla sintassi ossimorica, auscultazione febbrile dell’istante presente nel suo effimero scorrere affidata al moto interrogativo, all’effetto sincopato degli improvvisi spazi vuoti intraversali, all’anafora e alla paratassi. Sul piano della costruzione strofica, si rileva una predilezione per l’alternanza di terzine e distici o di una libera riproposizione del sonetto in una chiave metrica non rimica e anisosillabica, con ricorso allo schema classico 4-43-3, ma anche all’altro, meno consueto, 4-3-4-3. Ne risulta un flusso arioso e ampio che si conforma ad una vocalità aperta e a tratti elegiaco-evocativa, spesso legata alla memoria dell’infanzia. Un primo topos appare quello del testo-mondo nel quale la pagina è uno spazio vitale che àncora la parola alla vita («les paroles qui sont filles de la vie» [le parole che sono figlie della vita] p. 55», dal quale promana la metaforicità architettonica delle parole-camere e delle vocali-finestre in un’epifania della ‘presenza’ che ha, come l’elegia infantile fondativa e salvifica, tratti vagamente bonnefoysiani: «Tu contruis une ville visible / avec des voyelles pour fenêtres, / des tunnels soudains, des pages de sable. // Les mots sont des chambres où la nuit / repose, mère du monde. / / Ce que tu dis et ce que tu vois / ont même vêtement, même présence, / dans le jour inconnu. [Tu costruisci una città visibile / con vocali per finestre, / tunnels improvvisi, pagine di sabbia. // Le parole sono stanze in cui la notte / riposa, madre del mondo. // Quel che tu dici e quel che vedi / hanno lo stesso abito, la stessa presenza, / nel giorno ignoto.], p. 68». Si tratta di un mondo che scaturisce dalla gola, che germina dalla vocalità sorgiva in un’apparire-sparire continuo di luminescenze ed ombre e che fa spazio ora a brevi meditazioni poetiche sull’esistenza ora a tracce di realtà storica quali la guerra. Il testo seguente, per la felice esilità e pregnanza del tessuto lessicale, per la segreta e sinestetica geografia di canto, pagina e tempo può essere assunto a paradigma del lirismo di Lionel Ray, della sua spazializzazione del tempo: «Tu erres dans l’oreille du chant, / tu cherches la mer entre les pages, / ton jour est devenu sable. // Ainsi fleurissent les syllabes / entre l’après et l’avant. // Ici le temps hésite, le bleu est immobile / comme dans une peinture: / l’éternité est un village. [Erri nell’orecchio del canto, / cerchi il mare tra le pagine, / il tuo giorno è diventato sabbia. // Così fioriscono le sillabe / tra il dopo e il prima. // Qui il tempo esita, il blu è immobile / come in un dipinto: l’eternità è un villaggio.], p. 39». Ed è, con la riflessione meta-poetica, il Tempo il vero cardine della poetica di Ray, «lieu d’ombre, / entre mots et mémoire [luogo d’ombra, tra parole e memoria], p. 290» con il quale duella «l’épée lyrique [la spada lirica], p. 308».

Eleganza formale, tono meditativo, interrogazione ontologica ed escatologica, esilio, perdita, scissione dell’io dalla propria vita nello scorrere del Tempo sono anche i temi che caratterizzano, come in Syllabes de sable (1996), l’ultima silloge del poeta Matière de nuit (2004), nella quale si va dal verso dilatato e lungo della parte iniziale, scritta all’imperfetto, assai diegetica ed evocativa, tutta avvolta in uno stato sognante come di chi ami perdersi nel bosco della memoria senza disporre di chiavi interpretative, quasi smemorandosi, e la misura più prosciugata e vagamente orientale di un verso essenziale e fulgido di una sua intima, amorosa grazia: «Corps féminin /Corps total / Plus nu / Que tout regard. [Corpo femminile / Corpo totale / Più nudo / Di ogni sguardo.], p. 121», voli di quel «mestiere da uccello: costruire, cantare» (p. 166) che è per Lionel Ray quello del poeta.

 

Fabio Scotto


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