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ANDREA INGLESE, L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Cassino, Università di Cassino, Dipartimento di linguistica e letterature comparate, Laboratorio di Comparatistica, 2003, pp. 428.
Tre sono i principali pregi del volume di Andrea Inglese: un impianto teorico solido e rigoroso, e soprattutto mai invadente o ridondante, in quanto gestito con grande equilibrio in rapporto all’analisi dei testi; una grande chiarezza espositiva; la rapida messa a fuoco di una tesi molto originale, che nasce anche dalla convergenza e dalla sapiente sintesi di vaste letture primarie e di una profonda conoscenza degli studi sul romanzo moderno (e sul romanzo in prima persona in particolare). La tesi centrale del volume, che viene illustrata con grande nettezza nel lucidissimo capitolo introduttivo, si sviluppa intorno a quello che viene indicato come il paradosso centrale del genere romanzesco colto nella sua longue durée moderna: la tensione fra pulsione auto-espressiva e angoscia dell’inesprimibile e/o dell’inespresso. In questa prospettiva, e attraverso un ripensamento problematico di alcuni nodi teorici presenti negli studi classici sull’argomento (da Bachtin a Franco Moretti) il romanzo di formazione ottocentesco viene riconsiderato come l’alveo privilegiato di questa tensione, e quindi come spazio di formulazione privilegiato e metonimico di tutta una serie di paradossi e contraddizioni che caratterizzano tout court la coscienza moderna. La dicotomia collettivo / individuale, che pure viene diligentemente reindagata nelle prime pagine del volume in chiave di sociologie du roman, dà così luogo a una costellazione di distinzioni ben più ricca e sfaccettata. L’idea centrale presenta l’auto-espressione (Self-expression) come nucleo propulsore del romanzo in prima persona, la cui complessità deriva dal suo porsi come problema à double tranchant, etico (e per ciò stesso universale) ed estetico (strettamente legato, quindi, alle regole specifiche e alle scelte individuali dell’espressione poetica). È ricavata essenzialmente dalla riflessione del filosofo canadese Charles Taylor, (Le radici dell’io, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1993 [ed. orig. Sources of the Self. The Making of Modern Identity, 1989]), che viene al tempo stesso fatta dialogare con altre voci teoriche, e soprattutto messa alla prova attraverso una serie di sondaggi incrociati, non solo su alcuni testi-cardine del genere da cui lo studio prende le mosse (per esempio quelli goethiani, ineludibili), ma anche su altri testi fondativi, presi come pars pro toto del Moderno e della sua autocoscienza: basti fare riferimento, a questo proposito, alle dense pagine del secondo capitolo – Espressivismo e modernità – in cui Inglese rilegge il Baudelaire critico ed estetologo alla luce delle teorie di cui si è detto.
Il quadro generale della riflessione di Inglese rimanda ad una visione ‘forte’ dell’epistemologia romanzesca, per cui, sullo sfondo negativo della «letteratura come menzogna» (cfr. p. 35), i grandi romanzieri della modernità svolgono una funzione conoscitiva che, senza troppe riserve terminologiche, viene definita in termini risolutamente etici. Sempre in quest’ottica il Bildungsroman si configura come lo spazio di elaborazione privilegiato «entro il quale gli scrittori europei hanno sottoposto a trattamento narrativo nodi concettuali e paradossi connessi con l’evoluzione dell’individualismo» (p. 38); più in generale, l’immaginario romanzesco, nelle sue varie declinazioni (la rêverie roussoviana, la cristallisation stendhaliana, il bovarysme flaubertiano), si configura come luogo mentale antropologicamente indispensabile al tipo umano ‘metropolitano’ di cui George Simmel parlava nel 1903 (p. 24), in sintonia col Benjamin commentatore di Baudelaire. «È il romanzo, [...], non l’elitario discorso filosofico né il genere autobiografico [...] a familiarizzare il grande pubblico con i riti dell’interiorità, dell’espressione di sé e della segretezza» – formula felicemente sintetica che sussume, se si vuole, la tesi centrale del volume (p. 19). D’altra parte, però, dall’altra idea forte di questo studio, ovvero l’autoespressione come paradosso sempre periclitante sul baratro della tentazione solipsistica (variante estrema del culto dell’interiorità come ‘segretezza’, compromesso con le insidiose estetiche dell’ineffabilità) derivano diverse altre articolazioni problematiche: dalla crisi della concezione classicistica della mimesis come presupposto della vocazione autoespressiva dell’uomo e dell’artista moderno (cfr. p. 43) alla «necessità inevitabile di una critica del linguaggio» (p. 67) o ancora al tema dell’originalità autoespressiva (di matrice romantica e poi vero e proprio slogan-Diktat del Modernismo), altro paradosso ricco di implicazioni che Inglese approfondisce, di nuovo, sulla scorta del Baudelaire teorico (pp. 48 sgg.).
Uno dei problemi più interessanti che scaturiscono da questa riflessione riguarda proprio l’irriducibile difficoltà, per i moderni, di esprimere il tipico attraverso l’idiosincratico: se da un lato è vero che «agli antipodi del genio» classicisticamente inteso «si trova l’artista autoespressivo della modernità» (p. 63), dall’altro è proprio l’assunzione poetica dell’idiosincrasia a garantire, inopinatamente, la possibilità di vestire, in obbedienza ad un’estetica proteiforme, la ‘pelle’ degli altri (si noti, en passant, che «poeta delle idiosincrasie» è una formula che il giovane Giacomo Debenedetti aveva impiegato per definire la poetica proustiana del romanzo, ancora quasi irricevibile, nell’Italia della fine degli anni Venti); è proprio la «barriera solipsistica» che permette, osserva Inglese, di vivere e soffrire, baudelairianamente, «dans d’autres que soimême» (p. 66).
Il volume si articola, poi, a partire da queste premesse concettuali, lungo una serie di sondaggi che rispettano, per pagine e pagine, con grande coerenza, il taglio fortemente saggistico del capitolo introduttivo e del primo capitolo, più ampiamente definitori: nei capitoli terzo e quarto, in particolare, gli autori scelti a campione (Stendhal, Proust, Pirandello, Sartre, Perec; ma vengono puntualmente evocati anche anche i nomi di Flaubert, Joyce, Musil, etc.) servono a illustrare due varianti essenziali del paradigma autoespressivo, quella felice e quella infelice, ma anche gli stilemi giudiziari del romanzo di matrice autobiografica (cap. quarto) e soprattutto il «paradigma dell’autenticità» (cap. quinto), altro nodo importante del volume, approfondito nella seconda, impegnativa sezione, interamente dedicata alle Confessions di Rousseau – testo fondativo che viene indagato in una prospettiva quasi del tutto inedita, quella del suo «apporto specifico [...] nell’ambito del genere romanzesco» (p. 19).

Giuseppe Girimonti Greco

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