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SIMONE GIUSTI, Leggenda e altri discorsi, Faenza, Mobydick, 2012, pp. 64, € 10,00.


            Nella sua raccolta d’esordio, Simone Giusti offre al lettore i risultati di un laboratorio poetico ormai ventennale, raccogliendo testi realizzati nel corso degli anni Novanta, poi lasciati decantare, meditati e infine ripresi, riletti, in qualche caso rielaborati. Testi nati in occasioni e contesti umani, culturali, esistenziali molto diversi, ma tutti intimamente legati alle vicende personali dell’autore, cosicché il libro si presenta come una sorta di autobiografia in versi, autobiografia però riletta in chiave mitica e, parzialmente, romantica, leggendaria, dove la parola leggenda rinvia alle mitografie popolari novecentesche, al West, alla frontiera. Quello di Giusti è, di fatto, un libro di frontiera, anzi di molte frontiere, personali, biografiche, e immaginarie, senza peraltro che tra i due campi, quello del vissuto e quello del ‘creduto’, o del sognato, possa darsi una facile distinzione. Nella sequenza di testi che dà il titolo al volume, Leggenda, quasi una sceneggiatura in versi, Giusti tenta l’operazione di riscrivere il (falso) dualismo caproniano fra cacciatore e cacciato in salsa, diciamo così, spaghetti-western. Conservando le atmosfere metafisiche del modello ‘nobile’ (non scordiamo, del resto, che esiste anche un “western metafisico”), l’autore le contamina però con i sali di un humour acre, da mezzo sorriso all’angolo della bocca, che conferisce al testo corpo, grinta, nerbo, e un’amarezza a denti stretti. Il duello tra un io-pistolero in carne ed ossa e un ineffabile avversarionemesi, non privo di tocchi efferati, è una sorta di resa dei conti rabbiosa con l’io/ tu del proprio destino, un gesto a-eroico motivato solo da una testarda, insensata e finalmente inutile volontà di far salva la pelle, nonostante tutto congiuri per indurre il ‘protagonista’ alla resa («ti cercano per farti morire / insisto a voler sopravvivere »). Questa attitudine di uomo disilluso, e tuttavia mai cinico, sempre coinvolto e insieme sconvolto dalla vita, dalla storia, dalle eterne illusioni umane (significativa la citazione di Thoreau posta in esergo), caratterizza l’intera raccolta, rinviando ad atmosfere ora cinematografiche, ora da novella ottocentesca rurale (penso a versi come «le donne a casa ad aspettare sole / con dei bei fianchi e delle sigarette / e cibo e vino e tanto amore / la paura che fa sempre compagnia»), fino a sfociare nella viscerale prosa ‘lirica’ Zac zac, un testo loufoque, alla Poe, che è forse la prova più potente, e insieme dolorante, della raccolta. Ma Leggenda è anche un libro di luoghi, di dimore esistenziali. E se la permanenza in Salento, dove l’autore ha vissuto nei tardi anni Novanta, ha lasciato tracce decisive nei testi, tra le pagine più riuscite ci sono quelle, da saporito e crudo romanzo familiare, che raccontano la Maremma, regione natale di Giusti. Una Maremma che è, che era (se ogni leggenda non è che realtà trascorsa, scomparsa, e in quanto tale divenuta materia di rimpianto) a tutti gli effetti West, il nostro unico e profondo West, dato che l’America inizia, nella pittoresca geografia della costa toscana, con il pueblo de ‘la California’. Quella che Giusti racconta è una Maremma-frontiera solcata dalle ombre dei mandriani a cavallo, terra di emigranti, minatori e grandi giocatori di baseball, paese abitato da uomini con la «pellaccia», come il nonno, «un highlander nostrano che sta nella mia terra e la protegge...»: ma anche terra di vivai, terra lastricata di fiori e quindi, inevitabilmente, sospesa sopra ‘muri della terra’, anzi sopra muri di letame, se è da lì che i fiori nascono, sorgendo dalla putredine, dal disfacimento della «terra verminosa e puzzona». Il tema del comune destino biologico, inteso come annuncio e manifestazione della morte, rappresenta una delle costanti tematiche del libro, mostrando attraverso immagini crude, talora scatologiche, il lato osceno, mortuario di ogni ‘leggenda’. Altri aspetti caratterizzanti il libro, anch’essi chiaramente connotati in senso autobiografico, sono gli spunti metalettari e il raffinato gioco citazionistico messo in campo da Giusti, all’interno di una precisa ma libera costellazione di autori amati, dove Caproni e Céline siedono, presumibilmente su una ruvida panca d’osteria, a fianco dei CCCP. A una stringente riflessione sul rapporto tra identità individuale e ciclicità dei ruoli familiari all’interno dello stritolante meccanismo generazionale («vi siete presi tutto / non l’avete fatto apposta / – no davvero»), si affiancano poi raffinati interrogativi circa il senso della comunicazione interpersonale e le ragioni del costante inciampare del linguaggio tra le pieghe dell’appetizione, tema questo su cui Giusti scrive alcuni dei suoi versi più partecipati, e musicali: «perché se il mondo è lingua solamente / allora io sono perché tutti / siamo, io penso perché noi pensiamo e quel che penso / non fa che rimbalzarmi dentro». Fuori e dentro il mito – un mito che si sa comunque irrealizzabile, e perduto – Giusti si rivela voce ascrivibile alla lunga, e nobile, tradizione di ruvido romanticismo anarchico riscontrabile in molti toscani, per così dire, costieri (se esistono, come credo, almeno due Toscane, la marittima e la contadina), ‘nervosi per natura’, di cui condivide non solo la disperazione ma anche l’ironia e talora una certa, esibita, volontà ludica. Rispetto a un Bianciardi, o a un Piero Ciampi, Giusti si dimostra tuttavia indisponibile alle chiusure di un ostinato e autodistruttivo individualismo: la sua scrittura cerca la strada della comune condivisione e collaborazione, nella umana certezza che le nostre storie ci accomunano, se comune a tutti è la pena del vivere.

(Riccardo Donati)

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