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CORRADO BENIGNI, Tribunale della mente, Novara, Interlinea, 2012, pp. 81, € 12,00.


         Un singolare intreccio tra lessico della prassi giuridica e una riflessione metafisica sul tema della giustizia compone Tribunale della mente, raccolta compatta di testi dalla misura breve con un intermezzo di prose aforismatiche. Nella nota di copertina Franco Buffoni afferma che questo libro dà una ricostruzione lirica al mondo della legge e del tribunale attraverso un dissidio aperto e pulsante tra cuore e cervello: uno scontro silenzioso e tormentato tra il sentimento di un’antica sapientia cordis, che conosce la natura profonda e autentica delle colpe, e la razionalità del diritto che giudica, classifica e livella l’evidenza dei reati sotto la norma dei codici. È un dissidio lacerante che i versi introiettano e contengono nella misura di una dizione pulita, ponderata, come un’arca ieratica dalle fattezze ioniche, che allo stesso tempo libera la tensione tragica in punte che sospendono il flusso meditativo: interrogative, imperativi, esortativi e, soprattutto, un presente verbale assoluto che spesso si manifesta con la terza persona del verbo ‘essere’ e che si intreccia con un futuro profetico in riprese anaforiche e prospettiche. Questa tessitura lirica, che richiama l’andamento biblico – come evoca la citazione dal Quoèlet (8, 6) – e in cui si avverte la pronuncia tragica e scandita di Fortini e di certo De Angelis, cerca di rappresentare il dissidio tra sentimento-illuminazione e razionalità-calcolo in un rispecchiarsi sottile tra giudice e giudicato, colpevole e innocente, colpa e pena, giocato sulla meditazione intorno al significato di reato e peccato, alla condizione di ambiguità, ambivalenza, fraintendimento o giusta comprensione con cui la legge e il cuore si pongono di fronte al delitto. Il rispecchiamento, il cui simbolo potrebbe essere la «scacchiera» evocata nella prosa Camminiamo come in un corridoio…, ai lati della quale si confrontano le parti come in un dialogo di Dostoewskij, vuole trascendere la realtà bruta del delitto verso una riflessione metafisica sul valore della giustizia come «parola esatta», che sa dare la «misura di una colpa» e che sembra incidere la verità a scritte di fuoco, combattendo «la memoria di un silenzio» (Siamo davvero la misura di una colpa…). La parola esatta resta sospesa, in un tragico equilibrio di domanda tra la schiera della semantica dei codici («riporta esattamente i fatti», «scrutina », «sussumi», l’«udienza è tolta», il «verbale è redatto», «non luogo a procedere», «inaudita altera parte», «fino a prova contraria », «legittimo impedimento», «ingiunzione », «cancelliere», «pubblico ministero») e la schiera della semantica della sapientia cordis («Sulle parole saremo giudicati, / sulle parole che non abbiamo detto / saremo giudicati / da una voce precedente»; «Separa l’acqua dalla sabbia / distingui la colpa dal dolo / non perdere di vista nulla / di queste parole irredente, / sussumi l’errore alla verità»). È un equilibrio turbante e rappreso tra voci tratte dal gergo di tribunale e una serie di parole ed espressioni chiave che ricostruiscono il mondo della «parola» e della «misura», una realtà che pare emanata dalla voce della Sfinge (Come cenere nella fiamma…), a cui si oppone l’impurità della Storia. Il paesaggio di questa realtà è fatto di «nomi» liberati «sulle pietre», di «fuoco che riconduce alla polvere », di «crepe» nell’aria come «geometrie di una promessa», come il «metronomo della goccia, acqua sull’acqua», un antico rito che «separa l’acqua dalla sabbia», dà «numero » – «sillaba» e «alfabeto» – alle cose e mette «a nome ciò che è bianco». C’è uno scavo millimetrico nell’essenza delle parole, estratte con passione da un contesto di esperienza quotidiana, sfilacciate e depurate fino a diventare voci mentali assolute che trascendono i convulsi fatti della vita e diventano le stelle fisse di un universo metafisico, perfetto, che ben si traduce nella cadenza dell’aforisma, come fanno le prose della seconda sezione del libro, Sententiae. La sezione successiva, Figure, ne incarna il risvolto drammatico, mettendo in scena liriche a persona sui ruoli principali del processo (La difesa, Il testimone, L’imputato, Il giudice, Il pubblico ministero). Sententiae e Figurae rappresentano il centro della raccolta, contenuto entro la cornice di liriche brevi della prima sezione, Onere della prova, e dell’ultima, Giustizia (già sul Decimo quaderno italiano di Marcos y Marcos, 2010). Singolare rispecchiamento anche quello tra le figurae di Sententiae e altre tre figurae del cui modello il tessuto tragico dei versi è costantemente imbevuto: Antigone, Giuda e Cristo, cardini di una descrizione evangelica della giustizia, come nei rimandi all’exemplum Christi («tutto è deciso al di qua, / dove una mano lava l’altra mano»; «Dentro un cerchio la ragione / cerca il suo perno smarrito, la verità / che non ha nomi, / ombre che l’albero di Giuda proietta»; «le braccia sul petto a forma di croce»). Suggestivi i testi in cui queste figurae escatologiche e quelle del mondo del tribunale sono combinate. Così la quarta poesia di Onere della prova: «“Antigone, è vero quello che dicono? È vero? / Dove sono le prove?” / Non si trova la formula, non si trova, / per non avere commesso il fatto, / siamo comunque responsabili / in questo non luogo a procedere; / chi decide ha occhi bendati / e l’ombra di una mano chiede pietà. / “Chi torna indenne dall’orto degli ulivi?”». Le interrogative in discorso diretto incorniciano una sequenza che concentra lampi da un’udienza e astrae l’ordinaria procedura penale in un contesto metastorico: l’eroina tragica e Cristo si sovrappongono, portando al massimo grado l’espressività del testo. È un esempio di alta tensione lirica che si incontra nel libro, il cui registro è calibrato soprattutto su una riflessività prosaica e sapienziale, uniforme e fitta di rimandi intertestuali. La raccolta è un blocco tematico e tonale, come una sorta di pietra incisa con i versi, che vorrebbe porsi anche come una «misura» di scrittura al tema trattato. Infatti, se su un piano metafisico la misura della giustizia è la «parola esatta», Tribunale della mente cerca di creare un controcanto scrittorio – si sarebbe tentati di dire, anche, scritturale – metapoetico altrettanto saldo. L’impressione di unità, integra e massiccia, che questa raccolta imprime nel lettore, tiene dentro una coscienza tragica pura, cerca di conservarla e difenderla dall’inganno, dall’apparenza, dall’oblio e dall’errore di ciò che è transitorio, terrestre, umano.

(Maria Borio)

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