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CHIARA MENGOZZI, Narrazioni contese. Vent’anni di scritture italiane della migrazione, Roma, Carocci, 2013, pp. 213, € 22,00.

La monografia di Chiara Mengozzi, studiosa formatasi a Trieste e che ora lavora a Praga, rappresenta una voce significativa in un campo di studi – quello sulla letteratura in italiano scritta da autori recenti di origine non italiana – che sempre più acquista rilievo e che sollecita il confronto con il grande tema o dimensione della Weltliteratur, letteratura mondiale (e ‘globale’, in base alla definizione alternativa proposta, tra gli altri, da Giuliana Benvenuti e Remo Ceserani). Agli studi importanti di critici e teorici italiani (da Armando Gnisci, tra i primi a occuparsi con impegno della cosiddetta ‘letteratura della migrazione’, a Franca Sinopoli; da Ugo Fracassa, che ha dedicato all’argomento il suo volume Patria e lettere, a Daniela Brogi, che ha messo opportunamente in discussione l’etichetta di ‘scrittore migrante’, inadeguata a definire autori come Igiaba Scego, di origine somala ma nata e cresciuta in Italia, la cui opera racconta appunto le dinamiche profonde di questo delicato incrocio storico e personale, più che rifarsi a un’esperienza di nomadismo) si aggiungono ora gli scritti di autrici e autori che scelgono la lingua italiana per vocazione più che per necessità o conseguenza di un riflesso postcoloniale. È il caso di Jhumpa Lahiri, la scrittrice angloindiana (cresciuta negli Stati Uniti e che ha soggiornato a lungo in Italia) vincitrice del Premio Pulizter, che direttamente nella nostra lingua ha scritto e raccolto i brani non-fiction di In altre parole (2015).
La molteplicità e la differenza dei casi qui evocati (Scego e Lahiri) e di numerosi altri che sarebbero citabili suggeriscono come «il filo rosso di questa produzione non corrisponde né a un insieme di contenuti né a un genere né a uno stile, ma a una posta in gioco, la narrazione di sé» (pp. 7-8). Così si esprime, efficacemente, Mengozzi nell’Introduzione al suo volume, articolato in tre capitoli: Contesti, Teorie, Percorsi di lettura. Nel primo, la studiosa fa il punto sulla genesi stessa del concetto di ‘letteratura della migrazione’ (cui il volume in sostanza si attiene, guadagnandone in uniformità e perdendo forse qualcosa rispetto alla varietà di declinazioni del fenomeno, di cui peraltro Mengozzi è cosciente), delimitando il corpus e inquadrando la categoria nella cornice storica, politica, sociale, normativa, editoriale e giornalistica che interessa il tema – oggi quanto mai urgente e drammatico – dell’immigrazione. C’è un evento di cronaca nera – ricorda Mengozzi – da cui ha avuto origine la prospettiva elaborata dalla letteratura migrante: l’omicidio, nell’agosto del 1989, del sudafricano Jerry Maslo, raccoglitore stagionale di pomodori a Villa Literno. L’eco anche mediatica del fatto funzionò, come hanno osservato Graziella Parati e il già citato Gnisci, come catalizzatore di un interesse che la scrittura ha in vari modi intercettato. Due i filoni, o i gruppi di testi, principali: quelli di scrittori italiani (da Albinati a Lodoli, da Orengo a Sandro Onofri) attenti ai cambiamenti etnico-demografici in corso nella società italiana; quelli scritti da autori di provenienza extraitaliana, che testimoniano (in racconti inizialmente riuniti nell’ambito di ricerche sociologiche) la loro diretta esperienza. Alla fine del capitolo, Mengozzi riflette proprio sui risvolti problematici implicati dalle distinzioni tra letteratura italiana tout court e ‘letteratura italiana della migrazione’, osservando come questa seconda definizione faccia «parte di quel ‘meccanismo intelletuale’ che ‘tiene in ostaggio’ i/le suoi/sue rappresentanti». «Non per questo» prosegue Mengozzi «si può mettere da parte la categoria per cercare strade alternative (forse comunque inevitabili) prima ancora di averne approfonditamente studiato la genealogia» (p. 32).
Studio che passa anche attraverso la rassegna delle teorie e delle prospettive critiche che hanno reagito al sorgere di queste nuove espressioni della letteratura italiana (o che, al contrario – ma in modo non meno significativo sul piano della sociologia letteraria – ne hanno ignorato l’esistenza: è quanto si osserva, o almeno si osservava fino a pochissimo tempo fa, nel campo dell’italianistica più ufficiale e accademica). Mengozzi procede prendendo in considerazione e discutendo opportunamente innanzitutto le definizioni, o meglio sarebbe dire gli aggettivi, che ricorrono nelle diverse trattazioni, spesso eloquenti manifestazioni di punti di vista idiosincratici e parziali sulla questione: da letteratura ‘italofona’ (entrato in uso, ma non da tutti accettato e comunque da valutare nella dinamica di simmetria e differenza rispetto al concetto parzialmente analogo di ‘francofonia’); ‘afroitaliana’ (categoria affermatasi anche in grazia di fattori temporali e quantitativi, perché gli scrittori di origine africana sono stati i primi e i più numerosi, ma che non copre la geografia letteraria della ‘migrazione’, estesa alla Russia, all’Albania, alla ex-Jugoslavia, all’India); e ancora, ‘letteratura ibrida’, ‘minore’, ‘multiculturale’, ‘postcoloniale’.
Il terzo capitolo è dedicato all’analisi dei testi di autori in parte già relativamente canonici (come la stessa Igiaba Scego, o l’algerino Amara Lakhous), ma per la maggioranza ancora poco noti e che, ci auguriamo, il lavoro di Mengozzi potrà contribuire a far meglio conoscere: tra questi, Griot Fulêr, esperimento scritto in collaborazione tra giornalisti e immigrati, di cui Mengozzi mette in luce l’originalità di forme e valori. L’obiettivo del capitolo è quello di mostrare le dinamiche intersoggettive che influenzano il racconto di sé da parte dei migranti, spesso combattuti tra l’esigenza di prendere la parola in prima persona e la tendenza della società di arrivo a normalizzare entro categorie note quelle esperienze individuali.

(Niccolò Scaffai)

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