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MICHÈLE FINCK, La Troisième Main, Paris, Arfuyen, 2015, pp. 142, € 13,00.

in: Semicerchio LII (2015/1) Poesia alimentare. Food poetry pp. 114 - 116


Docente di Letterature comparate all’Università di Strasbourg, musicista e studiosa dei rapporti tra poesia e musica (si veda, tra gli altri suoi lavori: Poésie moderne et musique: Vorrei e non vorrei, Paris, Champion, 2004) così come tra poesia e danza (Poésie moderne et danse, Corps provisoire, Paris, Armand Colin, 1992), Michèle Finck rielabora la propria esperienza sensoriale ed intellettuale attraverso il suono, e ne fa materia critica e creativa. Come attesta la pubblicazione, nel 2007, di L’ouïe éblouie, che raccoglie una produzione ventennale, l’autrice non cessa d’interrogarsi su una sinestesia fondatrice, quella tra suono e visione. Tale interesse ha riconferma in un recente volume: Giacometti et les poètes. «Si tu veux voir, écoute» (Hermann, 2012).
Sin dal titolo del suo recente saggio: Épiphanies musicales en poésie moderne, de Rilke à Bonnefoy: le musicien panseur (Paris, Champion, 2014) l’autrice sottolinea l’efficacia terapeutica della musica che, confermata dai più recenti studi in campo medico e psicanalitico, trova riscontro nella topica classica. Musica laetitia comes, medicina dolorum, recita il motto latino che si usava incidere sui telai lignei di spinette, clavicordi e virginali (celebre quello che Jan Vermeer van Delft raffigura nel dipinto: Lezione di musica del 1662, conservato a Londra). Ciò affinché la lettera dipinta sul legno – corpo vivo sacrificato alla funzione di mediatore dello spirito – si rianimasse al suono dello strumento mantenendo, così, viva la memoria; ossia, la risonanza. In tal caso la riproduzione pittorica è mise en abyme, ecfrasi seconda di un immaginario ancestrale: così, l’arte visiva conferma il suo dominio ‘rappresentativo’ sulla musica, arte della mera presentatività.
Ma cosa accade quando viene meno il supporto visivo – la cui funzione è metafisica – e la musica, arte fuggitiva ed elementare, è, per così dire, privata della sua «eternità»? Questa suite di «cent poèmes d’extase musicale», ricorda l’autrice in una nota (p. 129), è stata scritta «dans le noir et la pénombre». Una provvisoria cecità, a seguito di un’operazione alla cataratta, costituisce una sorta d’iniziazione: insieme discesa agl’inferi e spoliazione della parola egoica. Quel super-io parafrastico che, fiducioso nel potere non negoziabile del logos, parla ad libitum della musica celando, con il suo pretestuoso legato, le pause e gli interstizi, cede ora il posto ad una umiltà infraverbale che esautora il soggetto per farlo discendere nelle profondità telluriche da cui sgorga il suono. La «provvisoria cecità» aprendo infatti, come scrive l’autrice, «una breccia nell’ascolto», suggerisce non già «poèmes sur la musique», bensì «poèmes à et avec la musique» di cui l’An die musik schubertiano (evocato a p. 32) sembra costituire il modello. Ora, i due linguaggi si vogliono uniti in amplesso e vorticanti «tout au bord du silence» (p. 125), mentre chi scrive brancola nel buio con la sola lucerna del suono: «Noir avec torche de musique».
La circostanza di scrittura qui evocata sembra insomma riabilitare, mutatis mutandis, un’altra topica: quella della cecità come «menomazione qualificante» (secondo la definizione di Dumézil) che affonda le sue radici nell’epopea omerica (Odissea VIII, 63-64): in assenza di visione – come bene vedranno i filosofi acusmatici seguaci di Aristotele – la percezione del suono si farà più viva. Portatore di una coscienza intensificata nel processo di guarigione – ne attesta il componimento proemiale, Cicatrisation (p. 9) – il suono, partorito dal dolore, è, del dolore stesso, rimedio, ed, anzi, sovracompensazione. Non scriveva Baudelaire nel Peintre de la vie moderne che i convalescenti, come i fanciulli, hanno una presa intellettuale più acuta sulla vita? («Or, la convalescence est comme un retour vers l’enfance. Le convalescent jouit au plus haut degré, comme l’enfant, de la faculté de s’intéresser vivement aux choses, […] pourvu que cette maladie ait laissé pures et intactes nos facultés spirituelles»).
Poiché della musica non si può dire se non per mimesi delle sue stesse forme, è con l’arte amata che l’autrice rivaleggia, rivisitandone alcuni procedimenti. Il primo di essi è la repetitio-variatio, che gioca con le attese conservando pressoché immutato il modello. Osserviamo infatti una costante strutturale bipartita (per la musica strumentale) e tripartita (per la musica vocale) che si rimodula a seconda del pezzo ascoltato. Similmente a quanto accade con gli strumenti dipinti (la cui funzione è surrogata al secondo grado dall’arte pittorica), il titolo – che svolge, in entrambi i casi, il ruolo di «tema» – è corpo scritto destinato alla risonanza. Tale risonanza è predicazione, in forme variate, dell’uno, affinché ne resti viva la memoria, il recordare. Del fatto che Michèle Finck considera il tema come un motivo musicale, ovvero come un’unità strutturale – e non come un mero enunciato – rende conto la libertà con cui lo impiega nel contesto frastico; frequente è, come si può constatare dai titoli dei suoi lavori, il canone inverso. Si veda il caso, celebre, di: Poésie moderne e musique: vorrei e non vorrei, dove il rema precede, appunto, il tema.
L’ecfrasi musicale sembra generarsi qui spontaneamente, e come per via germinativa, dalla antonomasia della Musica la quale, come Domina, costituisce il tema dei temi: nucleo irraggiante di ogni possibile enunciazione. L’allocutività deferente nei suoi confronti è attestata dall’assenza di determinante, che nega così anche il ‘dominio’ della scrittura sulla materia sfuggente e inquietante: «Musique apaise-t-elle?» (p. 30).
Nel caso della musica vocale, la quale gode di un evidente privilegio nella raccolta, alla didascalia – recante il titolo della composizione musicale e il nome dell’esecutore – segue un’ecfrasi per così dire «interna», o intramusicale, che è costituita dalla citazione di un passo vocale. Esso costituisce un motivo eletto – insieme detto e cantato – dal quale si dipana, en abyme, l’ecfrasi seconda, o extramusicale, in forma di parole. Tale ecfrasi seconda, lungi dal costituirsi come una forma di dominazione ermeneutica della parola sulla musica, si configura come una eco isolata, che le virgolette e il corsivo fanno giungere al lettore da una profondità: sia essa di scena – occupante uno sfondo – o di un rimosso («Des larmes. Spirales de silence tournoient»). Nel caso della musica strumentale, è la parola poetica che sembra svolgere, in assenza di canto, il ruolo della variazione interna; essa, con il suo investimento fonico, ne costituisce, per via diretta, la glossa, la predicazione, l’epiteticità.
Fedele al movimento della musica, la poesia di Michèle Finck rinuncia al primo grado di rappresentazione, costituito dal supporto verbo-visivo della pagina; tale movimento trova piuttosto la sua dimensione seconda all’interno dell’alea connotativa della parola. Potremmo dunque parlare, in termini generali, di impressionismo poetico-musicale, nel senso in cui l’autrice rinuncia ad avvalersi delle strategie grafiche già ampiamente sfruttate dall’espressionismo concreto-futurista e delle sue estese propaggini performative. Laddove l’acuto è visione luminosa – è il caso del Requiem di Mozart – la discesa del suono – la «bémolisation» (come qualcuno ha scritto a proposito della voce di Mallarmé il quale, come è noto, scavò il verso a tal punto da trovarvi due abissi, quello del mondo e quello suo proprio) – è viaggio iniziatico verso il fondo delle cose. Dall’elevazione del Requiem mozartiano di Muti, evocata come venuta al mondo della parola attraverso la sua massa fonica crescente («Gravir vers. Gravir vers la lumière», p. 16), a quella del Requiem di Brahms di von Karajan, in cui l’evanescenza di «arbres en vol» (l’albero musico di ascendenza petrarchesca, legno vivo caro ai simbolisti) si muta in trattenuta preghiera, si giunge alla caduta spiralidale nell’abisso, figurata da contralti e baritoni. È il caso de L’amour et la Vie d’une femme di Schumann, modulato dai profondi timbri di Kathleen Ferrier: «Voix nue descend dans la souffrance/Descend/ En spirales âpres dans chaque syllabe/ Descend. Ronce après ronce. Tout au fond./Saigne. Insomniaque. Illuminatrice./ Musique couve les morts» (p. 31); o della cantata di Bach Ich habe genug (p. 13) dove il baritono discende «tout au fond des sons», talché amore e dolore non possono più scindersi.
Nel condurre ad ogni al-di-là del senso in assenza di linguaggio, la musica rivela la propria funzione psicagogica, se non psicopompa; essa, come scrive l’autrice, «relie les vivants aux morts» (p. 13). Tra le prerogative a lei assegnate, è la sublimazione della materia: liquida, quest’ultima si volge in trasparenza e il sangue si fa acqua (p. 9); solida, perviene a consunzione e dissoluzione. Con la sua ruvida grana, il suono produce infatti una fantasmatica flagellazione: una scarnificazione e ossificazione del corpo che, come nel mito della ninfa Eco, si fa puro soffio. Una «délivrance de l’os» di ascendenza tanto pagana quanto cristiana è suscitata, ad esempio, dal Requiem di Fauré di Jean Fournet (p. 18) che porta, con il martirio, liberazione dalla carne, santificazione e pace.
Due mani sono sullo strumento – ricorda l’autrice a proposito della Ciaccona di Bach eseguita dal violino di Yehudi Menuhin: «mais d’où venue la troisième main,/L’invisible, main de la grâce, qui se pose sur les fronts?» La terza mano – che sembra richiamarsi al «terzo orecchio» di Nietzsche – è prerogativa della poiesi e non dell’interpretazione: è, non a caso, la mano di Bach. Essa, attraverso l’esecuzione sempre differita, è speranza intrattenuta di un’arcata futura (p. 14), simulacro umano di eternità. Bach, infatti, è la voce della memoria, attraverso la quale il nostro essere postumo ci fa risalire, a ritroso, ai Padri ingiustamente rinnegati e degni di resurrezione: «Les voix sont debout […]/ Vouloir ensevelir le père mort / Dans le suaire du Resurrexit./Lui donner sépulture dans cette liesse». La memoria, portatrice di affetti, ristabilisce il legame traumaticamente interrotto dalla storia; e tale ricongiungimento è, come si è detto, la prerogativa sacra della musica. La vòlta, che ha una ‘chiave’ come l’arte dei suoni – chiave intorno alla quale il discorso musicale può articolarsi per scongiurare il caos sonoro – è immagine ricorrente in quest’opera: essa figura uno spazio architettonico ideale in cui i suoni, riverberando, danzando, s’incontrano. Essi possono così significare, come si dice, «per forma», attraverso i loro ponti, le loro rotture, e le loro attese.
Sebbene il criterio progressivo – retaggio ideologico del logocentrismo che, per secoli, ha condannato la musica ad una tributarietà alle arti del concetto – sia qui bandito, sussiste una tendenziale cronologia nella presentazione dei brani. Cronologia che disegna non già una linearità storica, bensì un crescendo emotivo; l’avvento della musica ottocentesca, con la sovversione delle placide strutture classiche, apporta infatti un sovrappiù di pathos. La seconda parte della raccolta – il cui titolo, per crasi, è eloquente: «Pianordalie» – è dedicata al protagonista delle ordalie sceniche otto-novecentesche, il pianoforte. Sopravvissuto al crepuscolo degli idoli, e testimone di una filosofia che si fa oramai con il martello – secondo il noto scritto nietzscheano – il suo percuotere, sommesso o parossistico, è metafora del dolore organico all’avvento della meccanizzazione; dolore dei processi produttivi, che la musica, spesso, riproduce, mentre risale, dalla tastiera martirizzata, una materia magmatica che la civiltà ha condannato alla rimozione.
L’irruzione, nella musica contemporanea, di aspetti di discontinuità e di straniamento comporta un acuirsi del trauma e una frammentazione del dettato in forme vieppiù monorematiche e lancinanti, mentre prende il sopravvento, sull’ecfrasi possibile, il corpo scosso, talvolta sofferente, talaltra gaudente. Si vedano, ad esempio, Berg («Voix faite spasmes. Heurt.Nerfs/ Des notes sectionnés. Sons écartelés à mort») o Berio («Borborygme. Éjaculation de voix criée./ Éclatée./ Écartelée. Écorchée. Équarrie./Le sexe des morts grandit dans les interstices/Entre les notes. Sons toussés./Troués.Torrides./Hululements utérins. Extase. Basculée hors»). Come si nota, la catena sintattica, portatrice della continuità logica (musicale e verbale) è oramai compromessa dall’erompere tellurico dell’inconscio, forza d’urto (si veda la sezione VII: «Musique heurte néant») cui sembra essere conferita la peculiare funzione salvifica, terapeutica evocata nel testo di apertura.
La cecità provvisoria è una spoliazione dell’io metafisico, e un viaggio agl’inferi da cui si riemerge in forme lievi, come attesta il testo del congedo, Lévitation (p. 127). E la poesia, come ascolto secondo, riflesso, di sé, vuole essere il porto ultimo a cui approda la musica: «Écouter n’est rien encore. / Réécouter est tout. […] Descendre nue dans les sons jusqu’à en perdre / La lyre et la langue […] / Puis jouer quelques notes et léviter […] Habiter l’espace entre les notes. / […] Ivre de silence dans le havre du poème // Ouvert sur le large où neige le souffle».
La musica è charitas, purché essa conservi la propria, connaturata, gratuità. Che essa sia dono disinteressato ce lo racconta, per suoni, la sua immaterialità. Se, come scrive Derrida in Donner le temps, il tempo – di cui siamo così gelosi – è il dono supremo, la musica ne è l’emblema.

(Michela Landi)

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