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DOROTHEA LASKY, Rome, New York, W.W. Norton/ Liveright, 2014, pp. 144.


in: Semicerchio LI (2014/2) Per Seamus Heaney, pp. 119 - 120




Rome è la quarta raccolta poetica di Dorothea Lasky, esponente di spicco della generazione dei poeti statunitensi under 40. Con questo libro approda a un grande editore dopo aver pubblicato, fra il 2007 e il 2012, con Wave Books, una casa editrice indipendente dedita a far conoscere la migliore e la più innovativa poesia contemporanea. Infatti, di questo si tratta: Lasky ha una voce originalissima, inconfondibile fra le moltissime che sono emerse in anni recenti negli Stati Uniti. I suoi versi sono ancora più memorabili se recitati dalla voce sicura e potente dell’autrice. Con un tocco di ironia pone l’accento su quelle frasi poetiche, semplici e colloquiali, che compongono i suoi testi, sui sintagmi che si ripetono, un po’ alla maniera di Gertrude Stein e un po’ richiamando i ritmi rap, per afferrare un’idea, arrivare a costruire un’identità e parlare di relazioni sempre sfuggenti e mutevoli: «I never noticed before / How the red flowers hang from the blue branches / I never noticed before the light in this room / I never noticed the way the air is cool again / I never noticed anything but you / Until I noticed you…». Nel suo insistente e angosciato monologo, i pensieri si sciolgono in parole e brevi versi altamente lirici che modificano, di poesia in poesia, un racconto dall’andamento liquido e leggero, senza nessun punto e solo qualche virgola. Il racconto è la storia del rapporto fra un I e un you, dove la prima persona singolare non ha una forma definita ma assume molti ruoli in relazione a un interlocutore altrettanto mobile. Può essere donna o uomo, amante o amato, corpo vivo o defunto, un gladiatore dell’antica Roma o perfino Eddie Murphy. «I make in full the anonymous I / Or I make you in full in the anonymous I / I will fill the poems with great pain / And then suck out the meat so that they are only / Shells with only the memory of meat /So that they are only the memory of blood / So I will spill my own so as to make a fresh memory», si legge a metà del libro in versi in cui la poesia diventa metapoetica. Comunque l’io narrante è sempre un filtro metamorfico attraverso cui passa un tema classico – la forza contraddittoria e lacerante dell’amore e delle passioni – reso in un contesto di assoluta quotidianità contemporanea e americana e in una lingua informale, come si trova nei blog e su facebook. Ma i lacerti linguistici di Lasky, isolati e resi icastici, reverberano di sinistri significati e di un tormento interiore che lascia tutt’altro che indifferenti. Alla maniera americana, Lasky compone un collage attraverso le voci che interpreta unendo spezzoni di vita e di frasi in un libro dove si combinano epifanie e narrazioni. Ecco come inizia un testo sul perché la poesia sia per quasi tutti un genere difficile: «Because speaking to the dead is not something you want to do / When you have other things to do in your day / Like take out the trash or use the vacuum / In the edge between the stove and cupboard / Because the rat is everywhere / Crawling around / Or more so walking / And it doesn’t even notice you / It has its own intentions…». Ecco un altro tipico incipit: «People do really bad things / But I don’t pay attention to most of them / I knew that Alex was my real friend / When he told me that one night / That true love cannot be calculated or contained / Despite the orb of blue fire / I always hold right up to my lips». Ed ecco come si rivolge a un amico: «It is possible that it is grief that brought us together / Yes it is / It is possible».
Anche se la critica ha cercato di inserire la poesia di Dorothea Lasky in specifiche categorie – erede della New York School di O’Hara e Ashbery oppure poeta neo-confessionale o femminista – e nonostante lei stessa abbia indicato i suoi modelli americani (Sylvia Plath ad esempio) e appartenga chiaramente alla generazione 2.0, è difficile ricondurre la sua scrittura a un preciso filone. Il registro basso della lingua parlata e mediatica è lo strumento, scarno e raffinato, con cui tratta con audacia e sincerità il tema dell’amore e dei rapporti umani, affronta paure e desideri trascinando il suo ‘tu’ nell’esposizione.
Fra i suoi maestri c’è anche Catullo a cui allude con il suo diario d’amore e i paradossi della passione. Never Did Amount to Anything è un rifacimento del carme 43 dove l’inizio, «Salve, ragazza dal naso non piccolo…», diventa l’informale saluto «Hi there, dear sister, I’m sad / But here to tell you / that you never did amount to anything / Facial expressions just like your mother / Nose by no means tiny…». Il ritratto è infine quello di chi parla, che in conclusione dice di poter essere sia una Plath che una Sexton, comunque pronta a uscire da ruoli predeterminati: «If somebody asks me what I like / It’s not food or sex / It’s looking at things and being in love…».
Roma entra nel libro solo marginalmente e per allusione ai suoi poeti e al Colosseo. Oltre a Catullo, anche Orazio è reinterpretato in Horace, To the Romans: «Am I going to die and all I will have are these fucking poems / It doesn’t get more real than this / Said the poet / Oh but you hate poems about / Poetry, and that’s fine / Cause I am never going to send you my condolences when I kill it». Ai poeti augustei va il tributo di Lasky in The Roman Poets: «The Roman poets brought me to this day / To see this thru // They marked me when I was little / They put the words in me». Roma non è che un gioco di allusioni, dal titolo del libro al poemetto finale in 10 parti intitolato alla città immortale dove l’amato you sfuma anche nel passato classico: «This isn’t about you / This is and has always been about / The real / Bloody and awful / Twisting and Twisting / Love is a strange dance / I do with myself / But I won’t give it up / Renting a car two thousand years later». E Lasky gioca anche con i toni, dal grave al comico. «My dead relatives owe a lot of taxes / So I eat some chocolate wafers and drink about it / Not you because you love are dead», inizia una poesia che poi sfuma nel surreale.
Eletta da The Village Voice, il celebre settimanale newyorchese, Best Local Poet 2014, Dorothea Lasky, è docente di poesia alla Columbia University, ha pubblicato su riviste di prestigio, è co-fondatrice e co-direttrice della Ashbery Home School of Hudson, scuola interdisciplinare per poeti ospitata nella residenzamuseo di John Ashbery appunto. Insieme ad altri ha curato Open the door. How to Excite Young People About Poetry (2013) e sogna di portare la poesia nell scuole pubbliche per salvarle dal declino irreversibile che le rende simili a prigioni piuttoso che luoghi di apprendimento. Per saperne di più sulla sua poetica si legga, ad esempio, Poetry is not a Project (2010) su www.uglyduckling.org.


(Antonella Francini)

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