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Margherita Dalmati, Lettere agli amici fiorentini. Con i carteggi di Mario Luzi, Leone Traverso e Oreste Macrí, a cura di Sara Moran, Firenze, FUP 2017, pp. 327, € 17,90.  

Poeta, clavicembalista, traduttrice, saggista… Margherita Dalmati (pseudonimo di Maria Niki Zoroyannidis), personalità eclettica del panorama culturale europeo, era nata a Calcide (Grecia) nel 1921 approdando per la prima volta in Italia nel febbraio ’52. Diretta inizialmente a Parigi, dopo aver sentito suonare il Maestro Ferruccio Vignanelli nella chiesa di San Carlo al Corso a Roma decise di iscriversi al corso tenuto dal Maestro presso l’Accademia di Santa Cecilia. Gli incontri, le letture, la musica segneranno i rapporti della Dalmati con la cultura italiana: il primo contatto con importanti poeti-narratori-intellettuali avverrà grazie alla mediazione di Vittoria Guerrini (vero nome di Cristina Campo, amica di una vita insieme a Margherita Pieracci Harwell e Gabriella Bemporad) che, dopo la lettura di Opera buffa (prima raccolta poetica italiana della Dalmati), vorrà incontrare l’autrice, presto introdotta nella cerchia degli amici fiorentini: Luzi, Gatto, Bigongiari, Traverso, Macrí…
Nel 2017 la Firenze University Press ha pubblicato (nel volume Lettere agli amici fiorentini), curati da Sara Moran, tre bellissimi carteggi intercorsi tra la Dalmati e i fraterni amici Luzi, Traverso, Macrí.
Le 133 lettere che compongono il carteggio tra Mario Luzi e Margherita Dalmati (Lettere 1956-1996, pp. 35-153) sono scandite da tre motivi ricorrenti: l’impegno politico, i morti, il lavoro. Dal 1955 al 1960 l’isola di Cipro lotterà per l’indipendenza dal dominio inglese e l’annessione alla Grecia, col sostegno di molti intellettuali europei: da qui l’impegno politico della Dalmati testimoniato nelle numerose lettere a Luzi atte a denunciare le violenze subite dai giovani isolani («Ora è di nuovo tutto estremamente difficile, in un punto critico e tragico nello stesso tempo. Non mi interessa affatto, Mario, l’annessione di Cipro alla Grecia; soltanto che quei disgraziati [i ciprioti] abbiano il diritto di sentirsi esseri umani, di poter insegnare ai figli la loro lingua e poter accendere una candela alle tombe dei loro padri. Questo solo è anche il significato della nostra lotta» [lettera della Dalmati a Luzi, 1 febbraio 1957]). La Dalmati affiancherà la lotta politica al lavoro di concertista, alla poesia, all’insegnamento; e proprio l’insegnamento la porterà sovente in Italia come lettore di neogreco presso l’Università di Palermo, permettendole una maggiore vicinanza agli amici fiorentini e (in modo particolare) alla famiglia di Luzi, colpita (nel maggio ’59) da un grave lutto: la morte della madre del poeta. Come sottolinea Sara Moran, spesso le lettere della Dalmati assumono il tono della consolatio: così quelle intense del 18, 19, 26 maggio ’59 che, oltre a consolare il poeta per la perdita della madre, le consentono di rievocare i propri morti allestendo un dialogo continuo tra il di qua e il mondo ctonio avvertito come presente, pur nel dolore costante per la perdita alleviata dalla fede in Dio e dal lavoro («Ora bisogna che ti parli ancora […] della mamma. E avevo detto che mi spaventa la tua calma. […]. Succede anche che uno sia a volte geloso delle proprie sofferenze e chiude in se stesso tutto il dolore e si tortura dalla maniera con cui fanno male al corpo gli asceti e più gli fanno male più la loro anima gode. No Mario. Tu non dovrai fare così. Io l’ho fatto anche questo. E il male viene dopo e rischi di perdere il controllo poi. […] l’essenziale è che nulla ti rimanga dentro di te di quanto ti potrebbe fare male. E poi il lavoro. Il lavoro è l’unica medicina. Non c’è altro. Solo il lavoro salva» [lettera della Dalmati a Luzi del 19 maggio ‘59]). La Dalmati fin dall’inizio dell’amicizia con Luzi si è impegnata nella divulgazione della sua opera poetica presso i lettori greci attraverso le traduzioni – esercizio costante e affine al linguaggio musicale («[…] non esiste un’opera di poesia che non sia concepita nello spirito della musica. Le varie lingue sono gli strumenti musicali della parola. Tradurre è scrivere da uno strumento in un altro»; Dalmati, p. 292) -, contribuendo a diffondere (in volumi, giornali, riviste…) i versi dell’amico e, di conseguenza, ad incanalare il loro rapporto nel segno della «fraternità» («fratello»/«fratellino» sarà Luzi per la Dalmati, «sorellina» la Dalmati per il poeta) trasfigurando il tempo storico in mitico: da qui i noms de plume di Odisseo/ Nestore (Luzi), Nausica (Dalmati) che i due si scambieranno nel corso di una vita di amicizia.
Sub specie affectuum si iscriverà, subito, il rapporto epistolare tra la Dalmati e Leone Traverso/Khane (Lettere 1955- 1966, pp. 161-221): l’amicizia, la morte, il lavoro sono i fili che legano le 79 lettere. La vita di entrambi è scandita dal dolore, dalla perdita («Caro / apprendo in questo momento della disgrazia [il suicidio della sorella di Traverso]. […] Non voglio ripetere tante parole che forse avrai sentito molto in questi giorni, ma cerca di lavorare. / È l’unica “uscita” da circostanze così dolorose. Non c’è altra salvezza. […] C’è anche un destino più forte della nostra volontà, e perfino una Divinità al di sopra di tutto. […] La tua sorella, caro, ha fatto bene. Così doveva fare. Era la sua strada: quella di morire. / La tua è di lavorare e di vivere. […] Questo periodo è per me uno dei più dolorosi della mia vita. Ci siamo visti per pochi minuti. Non mi conosci. […] Neppure io ti conosco ma con queste righe in fretta, voglio soltanto dirti che ti sono vicina» [lettera della Dalmati a Traverso del 21 gennaio ‘57]), da una comune vicinanza alla cultura greca: per la Dalmati come fatto di nascita («Sei veramente della stirpe di Antigone, e mai prima di leggere la tua lettera [del 21 gennaio ‘57] ho penetrato la profonda verità dei Greci antichi» [lettera di Traverso alla Dalmati del 23 gennaio ‘57]), per Traverso mediata dalle traduzioni dei classici («Il tuo lavoro su Pindaro è meraviglioso! È il Pindaro nella lingua di Petrarca, grandioso, ricco e virile. Nulla è perduto dell’originale. […] Ora ti conosco un po’ meglio» [lettera della Dalmati a Traverso del 3 aprile ‘57]). Traverso considera la Dalmati una creatura aerea, «d’aria e di fuoco», sorretta da una pietas non comune, che sa compatire «la pesantezza delle altre»: da ciò i noms de plume di allodola, gabbiano (ma anche Persefone: per la vicinanza al mondo ctonio – «Muoio ogni tanto, poi mi sveglio e mi metto a “enumerare” la mia “famiglia”: qualcuno manca, altri non rispondono, qualche nuovo sta aspettando sulle soglie e aspetta che io lo chiami. Questo si chiama vita – per me sempre “venerabile”, anche sotto terra se si debba vivere qualche volta» [ibidem]; e sibilla, per la capacità di intelligere mediante la «scienza del cuore») contrapposti a ippopotamo, soprannome che Traverso si era scelto per rientrare nella schiera di coloro che necessitano di perdono.
Lo scambio di lettere tra Simeone/Oreste Macrí e la Dalmati (Lettere 1959- 1998, pp. 227-302) è bilanciato da due tempi, spesso compenetranti: del ricordo e del presente. La quotidianità sarà scandita dal tema ritornante del lavoro, dalle traduzioni dei poeti contemporanei (Gatto, Luzi…) approntate nel corso degli anni dalla Dalmati («Carissima Margherita, / bellissime le versioni di Affò [Alfonso Gatto] e di Cavafis [Kostantinos Kavafis]» [lettera di Macrí alla Dalmati del 15 marzo ‘59]; «Carissima Margherita, / di cuore ti ringrazio delle bellissime versioni della poesia di Mario [Luzi]; le sto leggendo con profonda emozione, quasi ritornare a una loro fonte ellenica» [lettera di Macrí alla Dalmati del 10 marzo ‘62]) e dalle sue stesse opere poetiche («Carissima Margherita, / vario tempo di risposte e aliene occupazioni e preoccupazioni mi ha distratto dal rispondere al dono del tuo Delfino [raccolta poetica: Il delfino del museo e altre poesie]. […] Mi ha commosso e intenerito la memoria biblico-classica della tua musa triste e limpida; la poesia Anch’io è bellissima; mi rammenta qualche essenza di lirica ellenicità passata nel cuore di un poeta inglese» [lettera di Macrí alla Dalmati dell’8 settembre ‘67]). Il tempo del rammemorare sarà scandito da luoghi (il fiorentino Extra Bar/Caffè Paszkowski, posto di ritrovo di importanti letterati), momenti conviviali («C’è speranza che io torni presto in Italia per… la zuppa di pesce!» [lettera della Dalmati a Macrí del gennaio ‘65]), discrete figure – quasi presenze lariche – («Non dimenticherò mai quel pranzo col Baffino [gatto di Macrí] che voleva stare proprio con noi! Ho l’impressione che vi conosco da secoli – ma questo non lo immagino, lo sento» [lettera della Dalmati a Macrí del 26 novembre ‘59]), dolorosi addii («Quanto ad Albertina [Baldo, moglie di Macrí] sono triste e desolato, perché l’infermità si è molto aggravata, quasi non mi riconosce e… non prega più; “si è voltata dall’altra parte”, come disse Juan Rámon Jiménez […]. Ultime sue parole l’altro giorno: “Mi sembra di sognare”» [lettera di Macrí alla Dalmati del 24 ottobre ‘94]; «Non ti posso dire quanto sono addolorata [per la morte di Albertina]. […] c’è il vuoto, ma nella vita esiste un’altra “realtà”: quando sarà passato il primo tempo, vedrai, la sentirai di nuovo vicina, e prenderai a parlare con lei come se fosse viva. Io “vivo” con i miei – da anni e anni nell’altro mondo […] e lo sai che faccio a loro perfino dei regali […]. Cerco una cosa bella, che avrebbe fatto piacere a loro se fossero vivi, entro nel negozio e chiedo il prezzo. Non la compro, vado alla Posta e spedisco i soldi a un orfanotrofio, un asilo per i vecchi bisognosi. Questo è il mio dono a loro. C’è un’altra dimensione nella vita, che non si può spiegare razionalmente» [lettera della Dalmati a Macrí del 16 novembre ‘94]). L’amicizia tra Macrí e la Dalmati (come quella con Luzi: lui fratello, lei sorella) penetra nella dimensione parentale: «Oreste Macrí era […] per me il “cugino”, e sai perché? Mia nonna materna si chiamava Marigò Macrí; Oreste che era di Lecce, era di discendenza greca, così dicevamo che eravamo parenti, cugini!»; «Greco è anche il mio cognome; un famoso attore di Atene si chiamava come me […] mi ha detto l’amica greca Margherita Dalmati» (cfr. n. 1 p. 250).
Sara Moran – da tempo impegnata nello studio della Dalmati e dell’intero mondo poetico fiorentino (cfr. di S. Moran, Margherita Dalmati, amica di una generazione, in L’ermetismo e Firenze, I, FUP 2016; Margherita Dalmati. Lettere da un paese lontano, in Ricordare Betocchi – Edizioni dell’Assemblea, 2018 - e Il carteggio fra Carlo Betocchi e Margherita Dalmati (1964-1985), in «Ciò che occorre è un uomo…» - Raffaelli, 2018) – dopo attente, impegnate e fortunate ricerche (cfr. la n. 8, p. 152) ha rintracciato presso l’Associazione degli Amici della Musica Antica «ERATO» di Atene gran parte delle lettere degli «amici fiorentini» alla Dalmati che incrociate con quelle della poetessa/ musicista… greca a Luzi, Traverso, Macrí (conservate presso enti privati e pubblici, tra cui il fiorentino Archivio contemporaneo «Alessandro Bonsanti») hanno consentito di restituire la ‘cromia’ di una figura poliedrica e umbratile, tra il dire e il lasciare intendere: «le ombre che si nascondono / tra le parole, imprendibili, / mai palesate, mai scritte, / mai dette per intero, […] non hanno né un prima né un dopo / perché sono l’essenza della memoria» (così Eugenio Montale – Botta e riposta III, in Satura – a Margherita Dalmati).

(Andrea Giusti)

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