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MARIA BORIO, Poetiche e individui, Venezia, Marsilio 2018, pp. 334, € 30,00.  


Poetiche e individui di Maria Borio offre una ricostruzione di tre decenni di poesia italiana, scegliendo come date simbolo il 1971 (già consacrato dalla critica come anno di uscita di alcuni libri a loro modo spartiacque: in particolare Satura di Montale, Trasumanar e organizzar di Pasolini e Invettive e licenze di Bellezza) e il passaggio di secolo. I due termini del titolo definiscono la doppia prospettiva lungo cui si muove l’intero lavoro: i mutamenti nel campo poetico sono seguiti a partire da un’attenzione specificamente rivolta ai singoli autori, secondo un’impostazione che prova a fondere il modello sociologico e anti-idealistico di matrice bourdieusiana con un metodo fondato sull’analisi di campioni esemplari, e qui il punto di riferimento esplicito non può che essere Auerbach (p. 13). La struttura del libro è determinata da questo doppio sguardo: ciascuno dei tre decenni studiati viene introdotto da un paragrafo che delinea la fisionomia del campo, anche in rapporto ai mutamenti storici, sociali e culturali dell’Italia del tempo; ma quando il discorso entra più nel merito a imporsi sono le individualità. Individualità testuali, innanzitutto: in ogni capitolo sono i singoli autori e di essi i singoli testi campione ad avviare la ricerca. Si parte dalla lettura serrata di una poesia esemplare per poi sfruttarne gli agganci ed estendere la riflessione all’opera complessiva dell’autore e, eventualmente, alla poetica più o meno unitaria di un gruppo. Se insomma il punto di arrivo del saggio è quello di una panoramica storica, il focus primario rimane il testo nella sua concreta specificità. L’autrice rivendica più volte il carattere induttivo di questo metodo, ed è quasi superfluo rimarcare come un tale approccio sia imprescindibile per qualsiasi ricostruzione che non voglia ridurre il testo a pretesto: merito di questo libro è averne fornito, meglio ancora che una giustificazione teorica, un’applicazione pratica che parla con la validità dei risultati.
Va poi sottolineato che, per quanto Poetiche e individui sia un saggio dalle ambizioni sostanzialmente descrittive, la militanza critica dell’autrice si afferma perentoria a più livelli. Il primo, macroscopico, è nella scelta del canone. Se fino agli anni Settanta la rassegna rimane abbastanza aperta, con i decenni successivi e soprattutto con gli anni Novanta si fa decisamente più esclusiva, non tanto per il numero di autori trattati (da questo punto di vista sono gli Ottanta il periodo penalizzato, e anche questa scelta non è scevra di giudizi impliciti), quanto per la linea globalmente unitaria che, al netto delle differenze individuali, come sempre ben enucleate, accomuna i vari Pusterla, Riccardi, Fiori, Anedda, Buffoni e Benedetti. Si arriva qui alla singola proposta critica più interessante del libro, ovvero quella categoria di «lirica rifunzionalizzata» che viene usata per descrivere, con la dovuta flessibilità, le scritture dei sei poeti citati. Con le parole dell’autrice, il termine vuole indicare un tipo di poesia dove «diventa importante il rapporto tra la rappresentazione lirica e la scrittura come forma speculativa e critica di conoscenza, che non è mai ricondotta da un sapere universale, ma a cui si perviene attraverso un’indagine, potremmo dire fenomenologica, che l’individuo raggiunge attraverso l’esperienza» (p. 243). Una problematizzazione dello statuto del soggetto lirico, quindi, e del rapporto tra scrittura e conoscenza, in particolare per quel che riguarda le modalità opposte dell’accensione epifanica e della riflessione: «Ma il problema delle nuove forme liriche è: l’ispirazione, quella che soprattutto fonda la conoscenza sull’illuminazione epifanica, come può farsi portatrice di una conoscenza che apra i limiti dell’io alla realtà, che ponga sempre la scrittura in confronto con la storia che suggerisca una riflessione ermeneutica?» (p. 251). In questo senso, «la questione della conoscenza oppone la lirica rifunzionalizzata tanto all’orfismo [ma anche ai cascami dell’espressivismo e del neo-individualismo] quanto allo sperimentalismo. Se le scritture di ricerca lavorano su una torsione disarmonica dello stile con un’attitudine soprattutto polemica e tendono a rompere i confini della parola scritta dando risalto all’oralità, le forme liriche mantengono la semantica del testo come principio compositivo essenziale e attribuiscono un ruolo imprescindibile al testo scritto» (ibid.). Da quest’ultima citazione si può vedere come quella di Borio sia una scelta che valorizza la ricerca di un equilibrio, di un nuovo bilanciamento che permetta la sopravvivenza di una linea centrale della poesia moderna. È un atteggiamento critico non inedito per il Novecento: negli anni Sessanta, per esempio, quella della ‘via di mezzo’ era l’opzione di chi, nel conflitto delle interpretazioni e/o nella propria stessa pratica di scrittura, non si riconosceva né nel lirismo scaduto degli epigoni dell’ermetismo né nella ‘mimesi schizomorfa’ dei Novissimi, puntando invece su una poesia che fosse in grado di aprirsi alla realtà storica conservando però una tensione costruttiva e semantica forte, secondo il modello dei rinnovati Luzi e Sereni. In Poetiche e individui non si troverà una presa di posizione così netta, ma, se si considerano la selezione degli autori e i giudizi più o meno impliciti, il parallelismo può senz’altro reggere. Il lirismo immediato ed estroflesso del neo-individualismo espressivista, così come quello pseudo-orfico e ‘innamorato’, emergono come momenti circoscritti sia sul piano cronologico che su quello qualitativo. Ma anche la linea strettamente avanguardistica – che pure dà ancora oggi risultati di alto livello – è marginalizzata, ridotta all’esperienza tutto sommato trascurabile del Gruppo 93 e ottenendo risalto solo per quegli autori più difficilmente inquadrabili, come Frasca.
Siamo di fronte, insomma, a una categoria interpretativa forte, di sicura utilità per i discorsi a venire sul campo poetico odierno. In questa sede non è possibile discuterla come meriterebbe: ci si limiterà a sollevare una questione di massima, che non riguarda tanto la sostanza della categoria quanto più la sua contestualizzazione storiografica. Anche in un’analisi attenta e bilanciata come quella di Borio, si profila talvolta il rischio connaturato a ogni discorso critico che voglia evidenziare una faglia storica, soprattutto nell’estremo contemporaneo: il rischio cioè di appiattire il passato su posizioni regressive per enfatizzare il carattere di novità delle esperienze che seguono. Il problema è del resto risolvibile se non ci si concentra sulla rottura e si considera piuttosto la continuità, e la stessa autrice mostra di tenerne conto, quando per esempio indica Montale e Fortini come «modelli dell’incontro tra epifania e saggio» (p. 252). In quest’ottica, mi pare, tiene perfettamente l’idea di una «lirica rifunzionalizzata» come momento della lunga evoluzione secondonovecentesca della poesia lirica, che almeno fin dagli anni Sessanta, tra messa in crisi del monologismo, apertura alla prosa e alla storia, ibridazione con strutture narrative e drammatiche, cerca incessantemente di formulare risposte all’altezza dei tempi. Che una delle ultime di queste risposte consista in un tentativo di fusione tra accensione lirico-epifanica e speculazione saggistica appare senza dubbio convincente, anche alla luce dei più recenti sviluppi della nostra poesia.


(Marco Villa)

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