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MICHELE MARULLO TARCANIOTA, Poesie d’amore. Testo latino a fronte, a cura di PIETRO RAPEZZI, pref. Silvia Rizzo, Società Editrice Fiorentina 2017 (Ungarettiana 12), pp. 143, € 15,00.
   
in: Semicerchio LVII (2017/2) Uncreative poetry, pp. 57 - 58.

   
Secondo cimento del latinista cecinese sul grande poeta-soldato umanista di origine greca, morto appunto a Cecina nel 1500 a 47 anni, dopo le Elegie per la patria perduta e altre poesie del 2014, che si inserivano a loro volta in un momento di più intensa attenzione critica e traduttoria per Marullo, come abbiamo riferito in Semicerchio LII (2015). Questa volta la raggiera tematica è più focalizzata, perché la scelta dei 36 testi è basata solo sui quattro libri di Epigrammata (1489-1497), sempre dall’edizione di Alessandro Perosa già riutilizzata e aggiornata da Charles Fantazzi nel 2012, e l’argomento unico è l’amore per le donne della sua vita: la bellissima giovinetta Alessandra Scala, figlia del cancelliere Bartolomeo, che divenne sua moglie e ne restò vedova, e una serie di amanti dal nome classico (Leucothoe, Neaera, Petra, Glicera ecc.) la cui identificazione pare incerta e confusa. Di Neaera si sa che era toscana e di stirpe regale e il rapporto con lei descrive all’interno di questa antologia un micro-canzoniere che parte da un amore ricambiato fino all’impegno matrimoniale, poi sfumato a causa di una misteriosa separazione che in alcuni casi sembra dovuta a un cambiamento nell’atteggiamento di lei, ma che nel conclusivo epigramma IV 34, in morte di lei, sembra dimenticata e assorbita da un rimpianto senza ombre. Il mutamento di dedica da Neera a Camilla di due carmi sembra però svelare, nella pratica di reimpiego, un’osmosi indistinguibile fra esperienza reale e modellizzazione letteraria. Proprio per questo è abbastanza aleatorio utilizzare i testi poetici come documenti biografici o descrizioni fisiche fedeli alla realtà, tanto più che lo schema celebrativo per Marullo comprende sempre gli stessi elementi: la bellezza, dipinta con figurazioni topiche come il dolce riso degli occhi o il candore del viso o la porpora delle labbra; l’ingegno e le doti culturali; i valori morali, soprattutto la castità. Il tutto espresso in moduli scolasticamente – ma elegantemente – catulliani e petrarcheschi che danno a ogni componimento un fortissimo sentore di déjà vu, comune peraltro a larga parte della poesia umanistica. Spicca per maggiore originalità (o minore tasso imitativo) l’epigramma II 39 a Neera che diventa una sorta di modernissimo inno femminista: «Oggi invece si nutre per le donne / tale onore e rispetto, tale stima / della loro saggezza ed onestà, / che ormai nessuno spera di godere / di un diritto negato ad una donna». Anzi, a differenza di prima la nascita di una bambina non è più fonte di ansia per i genitori. Altrove più che il tema piacciono i dettagli scelti per le descrizioni, come i «capelli accolti / in alto» di Alessandra Scala quindicenne in III 41, o il quadro postumo di IV 4, un vasto “inno alla santità delle Muse” sempre per la Scala, che immagina una ricezione remota nel futuro della sua fama: «Dunque giorno verrà, quando il tuo nome / e i tuoi costumi le vecchiette tremule / ricorderanno alle figlie e gran parte / delle giovani spose al fioco lume / della fiaccola, a tarda ora, daranno, / raccontando di te, alle stanche mani / qualche sollievo, forse anche confusa / l’origine paterna nelle trame / imperscrutabili del tempo, te / celebreranno le generazioni (…)», che in modi imperscrutabili fa venire in mente il supremo When you are old, and gray, and full of sleep di Yeats. Altrettanto graziosa la IV 24 sulla Perfidia femminile descritta alle «selve del Morello», in una delle poche monumentalizzazioni letterarie del monte dietro Firenze e di altri dintorni poco pubblicizzati della città del Fiore (Rimaggio). Emergono talora dal linguaggio formulare perle isolate come il verso quasi dantesco “che non le muove amore né preghiere” o, nella IV 34 al mecenate Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici che chiude il libro, “a lungo andammo e sempre nelle tenebre / andremo errando”. Il rinascimentalista Alessandro Polcri nella quarta di copertina esalta la “bellezza meditativa delle parole trascinanti” di questa “pensosa ed elegante poesia”, individuandovi un nucleo riflessivo che soverchierebbe la levigatezza dei sentimenti lirici, all’apparenza così brillante di residui imitativi. L’introduzione di Rapezzi, dopo aver doverosamente recuperato l’avventurosa biografia dell’autore già esposta nel libro precedente, presenta un’analisi letteraria che non nasconde le fortissime matrici “classiche” della poesia marulliana, sia latine (Catullo) sia italiane (Petrarca, il cui tono e frasario veramente si sente dietro ogni verso), talora combinate in figurazioni di massima compatibilità.
Ma il tasso talora fastidioso di materiale da riporto e di imitazione smaccata dell’originale è comunque riscattato dalla traduzione di Rapezzi: come autorevolmente osserva Silvia Rizzo nella prefazione, «il miglior servizio reso alla comprensione del poeta sono le sue traduzioni metriche (tutte in endecasillabi, tranne V 28, in cui il dimetro giambico è reso col quinario doppio), che riescono a compiere il miracolo di una traduzione poetica in una lingua perfettamente contemporanea e di tono medio, senza vocaboli elevati o arcaici e inutili preziosismi, del tutto adeguata allo stile di Marullo in questi componimenti, che è anch’esso uno stile medio, a volte colloquiale, caratterizzato da una predilezione per il diminutivo» (p. 12). La Rizzo estrae anche alcuni casi emblematici di traduzione “esegetica”, o addirittura acquisti filologici come la corretta distribuzione delle battute in II 19 a colloquio con Amore, e commenta con acume esemplare l’adattamento di due imitazione da Catullo 65, già italianizzata da Foscolo, e Marziale VIII 64 al contesto biotico del Marullo autore e personaggio. A prezzo di pochissime rinunce (il gioco di parole su numero in III 4, il rovesciamento del soggetto alla fine di IV 28) riesce a dare non solo una uniformità di tono linguistico in senso medio, come sottolinea la Rizzo, ma anche una fluidità magistrale nel dominio del verso e soprattutto del rapporto delle inarcature fra un verso e l’altro, producendo una naturalezza elegante che rende sopportabili anche i momenti più enfatici (come la sequenza di domande retoriche di II 44 e III 35) e lascia sperare che questa dote sia utilizzata in futuro anche per poeti più originali di Marullo.

(Francesco Stella)

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