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FEDERICO SCARAMUCCIA, Canto del rivolgimento (1995-2015), Salerno, Oèdipus, 2016, pp. 79, € 11,50.

Il percorso poetico di Federico Scaramuccia, iniziato ufficialmente con la pubblicazione della raccolta di versi Ninfuga (2008) e proseguito con Incanto (2010) e Come una lacrima (2011), ha raggiunto il suo punto di arrivo – e dunque l’inizio di un nuovo tracciato – con il Canto del rivolgimento, opera matura che coniuga una ricerca formale, per non dire diacritica, della poesia, a un uso ricercato della parola, senza che questa ceda a forme patetiche, ‘innamorate’ o retoriche; anzi, nella sua complessità, il Canto di Scaramuccia è un flusso di leggerezza che attraversa senza soluzione di continuità le quattro sezioni (Il fiore inverso, Mire, Treppiedi, Il tempo in lotta) della silloge.
Una premessa: Scaramuccia, come tanti poeti contemporanei, è laureato in Lettere e ha un dottorato in Italianistica; la filologia, disciplina in cui si è specializzato, è parte integrante della sua attività di critico e torna, senza soffocare l’intenzione lirica, anche nella sua poesia. Come leggiamo nella nota che chiude il suo libro di versi, la «presenza di alcune varianti in questa edizione determina di fatto una equivalenza: entrambe le versioni, infatti, concorrono paritariamente al senso. Le note, invece, per nulla esplicative, sono da leggersi come una estensione del testo poetico. Questa, almeno, la volontà dell’autore» (p. 79). Questo sostrato ironico che soggiace all’intera struttura compositiva dell’opera deve essere letto secondo la sua etimologia greca: εìρωνεία, ‘dissimulazione’, ma soprattutto ‘finzione’; attraverso testo e autocommento Scaramuccia costruisce, decostruisce e riscrive nei suoi versi una storia di un soggetto che, come vuole il titolo del libro, si rivolge e ripensa continuamente, riflette metaletterariamente sulla tradizione lirica occidentale inaugurata dai Canti di Leopardi, sperimentando il potere descrittivo della poesia. La ‘finzione’ dell’io di Scaramuccia non segue paradigmi ipertrofici né relazionali. Le marche deittiche pronominali di prima persona singolare sono pressoché assenti – così come quelle spaziali e temporali – e anche quando compaiono non ricoprono un ruolo centrale nella struttura del testo, né sono spia di una postura (transitiva o intransitiva) dell’io. Al centro della raccolta ci sono gli «Uni», l’«universo dei divisi», una «molteplicità di clausure» (p. 14) che genera una pluralità di immagini che investe lo sguardo del soggetto e lo invita a descriverne e raccontarne la formazione, l’evoluzione e la presenza nel mondo. Benché le immagini del ‘rivolgimento’ siano materiali e creaturali («emergano i figli / nati nel parapiglia / dalla bile dei fratelli», p. 22; «da dentro un fiato stridulo / accanto alle orme lo scempio», p. 42), esse sono «mute al peso», «non rispondono alla gravità», alle leggi della fisica classica, e si muovono in uno spazio umbratile e anonimo («la piaga da gelo / irradia il verbo immondo / l’ombra dell’ombra dell’ombra», p. 34), la cui unica forma è dettata dalla lunghezza del verso, dalla struttura della stanza – che l’autore talvolta rompe a inizio sessione – e dal gioco di rime che ne accompagna il dettato lirico. Questa finzione non si articola secondo moduli narrativi, bensì attraverso una serie di immagini che racconta una storia, uno squarcio di mondo che l’io, nelle vesti di spettatore, osserva; egli trascrive una realtà meccanica che «si comprime» per il «lavoro» delle «parti», di una catena di montaggio che non lascia spazio all’espressione individuale e produce «scarti» di vita (p. 51), figure pronominali e impersonali («alcuni si sdraiano sciolti / alcuni stanno si stanno raccolti / alcuni camminano sempre», p. 52) che «respira[no] a fatica», «congela[no] e muoiono per sbaglio («il boia un po’ troppo agitato […] / di colpo poi piega sul secchio / perdendo la testa allorquando / capisce che è lui il condannato », p. 55). Come si legge nel titolo dell’ultima sezione, questo sforzo dell’io è il Tempo in lotta, una battaglia fisica e metafisica affinché la «nostra anima così fresca» possa «con calma rinnovarsi / restando alla rovescia / senza estinguersi senza consumarci» (p. 74); nel quarto tempo della raccolta, Scaramuccia «scopre l’abisso» (p. 72), indaga la «luce» e l’«ombra» (p. 66), il «cielo», la «terra» e il «fango» (p. 67) per inseguire in affanno una posa», un «attimo uno appena» (p. 69) in cui l’io possa dirsi ancora io.
Nella sua complessità, la raccolta raggiunge un (in)atteso equilibrio tra estetica e ricerca formale, aspetto, quest’ultimo, da non trascurare nell’ambito della produzione lirica dei ‘poeti laureati’ – cui il filologo-poeta Scaramuccia appartiene, – dato che (troppo) spesso l’orizzonte scientifico (dalla filosofia alla teoria della poesia) soverchia l’intenzione lirica di tanta poesia contemporanea; i versi di Scaramuccia creano uno spazio dove la poesia riesce a emergere in tutta la sua singolarità – estetica e formale – e il lettore è chiamato a partecipare attivamente all’evento lirico costruito dal poeta. Si tratta, come detto, di un nuovo tracciato, di una poetica in fieri che Scaramuccia sta tuttora sperimentando e che necessita di ulteriori prove – forse anche sul piano della prosa – per raggiungere una sua forma compiuta.

(Alberto Comparini)

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