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EDMOND JABÈS, Il Libro del dialogo, trad. e cura di Antonio Prete, Manni, Bari, 2016. € 12,00

in: Semicerchio LVI (2017/1) (Neo)Barocco. Poesia del Seicento nella teoria contemporanea, p. 128

Le Livre du dialogue è stato pubblicato nel 1984, sette anni prima che Edmond Jabès morisse. L’autore, nato al Cairo nel 1912 e costretto all’esilio in Francia nel 1957, dopo la crisi di Suez, aveva rivelato una voce poetica e narrativa piena, matura e fuori da ogni schema, nel 1964, con Le Livre des questions. Apparso in Italia per i tipi di Pironti nel 1987, Il Libro del dialogo è stato ripubblicato da Manni nel 2016, con la cura e la traduzione di Antonio Prete, poeta e accademico tra i maggiori conoscitori dell’opera di Jabès. Nel 1987, in una puntata del programma televisivo Visitors (RAI 2), Il Libro del dialogo viene presentato alla platea milanese. Qui lo scrittore si racconta: «Il dialogo per me è una cosa importantissima. Voglio dire che siamo sempre in dialogo. Anche il pensiero è un dialogo. Per me ci sono tre fasi del dialogo: la prima fase è quella che ho chiamato l’avant dialogue. Questo ‘prima del dialogo’ è già un dialogo: ci prepariamo a parlare all’altro. Poi c’è il dialogo, cioè quello che genericamente chiamiamo ‘dialogo’, ma che, per me, non è ancora il dialogo. Quando parliamo ad un’altra persona, prediamo la misura della nostra parola, voglio dire che è l’altro che ci giudica [… ]. Si tratta di due lottatori. L’uno vuole sapere dall’altro solo ciò che conferma il suo pensiero. Ma il vero dialogo è quando queste due persone, che hanno parlato insieme, sono rese alla loro solitudine. È proprio in quel momento che il vero dialogo comincia: nella separazione. È lì che le cose dette, per ciascuno importanti, sono ripensate. Il nuovo incontro comincia da lì» (Visitors, Rai Due, 08/10/1987).
Ne Il Libro del dialogo ritornano le immagini letterarie che costellano l’universo jabesiano: «Ebrea è la domanda che si interroga senza fine nella risposta che provoca» (p.65). Le domande, il deserto, il silenzio si ricompongono nel movimento generatore del dialogo. «L’Io è il miracolo del Tu» (p.35) si legge in un passaggio di questo volume, strumento fondamentale per i lettori italiani di Jabès, impreziosito dall’introduzione di Antonio Prete, le cui parole sono rivelatrici non solo di una straordinaria padronanza dei testi di Jabès, ma anche di una grande amicizia. Nella mirabile traduzione si intravede, infatti, in filigrana, un altro dialogo, quello tra lo scrittore e il suo traduttore, basato sull’affinità poetica, su un percorso esistenziale e generazionale condiviso. «Tradurre quel libro consegnatomi dattiloscritto dall’autore poco prima della sua scomparsa, scrive Prete, fu per me l’esperienza dell’addio ma anche di un dialogo che si riapriva nell’assenza, un dialogo che poteva ritrovare le parole e i silenzi dell’interlocutore ma nello spazio e nel tempo della mia lingua. Tradurre è ospitare l’altro nella casa della propria lingua» (p.10). In questo caso, tradurre significa anche custodire le memorie di un mondo scomparso, le macerie di un universo dissolto, la ferita dell’esilio, ferita latrice di un’interrogazione perpetua: «Ah! Quel colore giallo della sabbia che rinasce! Il mio passato in gran parte è lì. Quel che persiste, lo recupera la scrittura, a frammenti. Scrivere, scrivere, scrivere per ricordare» (p.72). Tradurre per ospitare; scrivere per ricordare; studiare e insegnare Edmond Jabès alle prossime generazioni per rammentare che lo studioso di cose letterarie è un ṭālib, o un saggio errante, alla ricerca non della prima certezza disponibile, ma della prossima domanda. Forse.

(Tiziana Carlino)

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